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Mercoledì, 02 Dicembre 2009 21:36

Qibla (Maria Domenica Ferrari)

QIBLA

 

di Maria Domenica Ferrari

La parola araba qibla indica la direzione verso la quale si deve rivolgere il fedele per la preghiera.

La direzione è quella della Mecca, la qibla “assoluta” è il punto intermedio tra la il tubo della grondaia della Ka'ba e l'angolo occidentale di essa.

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Domenica, 10 Febbraio 2008 21:00

Imâm (Maria Domenica Ferrari)

IMÂM

di Maria Domenica Ferrari




Parola dalle molteplici implicazioni politiche e religiose, una delle più fraintese in Occidente.

Alla voce imâm nel mio dizionario leggo: capofila, imam, esempio, califfo, comandante (dell'esercito), guida (per i viaggiatori), cammello che marcia in testa agli altri, regola, strumento di precisione, squadra, filo a piombo, regolatore, compito, posizione di colui che prega Dio nella direzione della Mecca, decreto di Dio.

Il significato principale della radice ’mm è: stare davanti a, dirigere, assumere la direzione della preghiera.

Imâm è perciò la parola che designa colui presiede la preghiera, compito che può svolgere qualsiasi musulmano pubere, anche schiavo.

Nei primi tempi era Muhammad a presiedere la preghiera. Alla sua morte i suoi successori vennero chiamati imâm, nel senso di guide della Comunità, khalîfa o ‘amîr al-mu‘minîn amministratore dei credenti, espressione molto usata nei primi secoli.

Khalîfa deriva dalla radice kh l f che indica il venire dopo nel tempo, il succedere.

Si hanno perciò due diversi ambiti: imâm si riferisce alla distribuzione spaziale dei fedeli, mentre khaliîfa indica una successione temporale.

Con il passare del tempo, in Occidente soprattutto, con califfo si tende ad indicare il potere temporale, mentre imâm viene sentito più vicino ad aspetti religiosi.

All'origine vi è in ogni caso un'unicità tra le funzioni di guida religiosa e di guida politica-amministrativa sia a livello di Comunità universale, sia a livello di moschea locale.

Nei primi secoli, in effetti, gli amministratori delle province erano nominati dal califfo con anche il mandato per la preghiera.

Con il passare del tempo la direzione della preghiera fu affidata ad un incaricato funzionario della moschea, pagato o dall'erario e dalle fondazioni pie.

In seguito a ciò ogni moschea ebbe un proprio imâm, anzi si potevano avere più imâm a rotazione, uno per ogni scuola giuridica.

A imâm venivano nominati esperti di scienze religiose (‘ulamâ) che potevano essere giudici, muftî.

La prerogativa religiosa deriva dall'essere un esperto di scienze religiose non dall'essere imâm.

Alla morte di Muhammad, che non aveva lasciato indicazioni, una parte della Comunità considerava che ‘Ali, il cugino genero del profeta, avesse diritto alla successione per vincoli di sangue.

Questi musulmani erano detti il partito di ‘Ali Shî‘at al-‘Alî,, gli sciiti.

L'imâm sciita ha una conoscenza superiore, il suo insegnamento ha valore decisivo ed ha prerogative quali l'infallibilità e la conoscenza delle cose invisibili, e si differenzia dal profeta perché rispetto a lui non trasmette una scrittura divina.

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Giovedì, 22 Novembre 2007 23:51

Fatwâ (Maria Domenica Ferrari)

Fatwâ

di Maria Domenica Ferrari

La fatwâ è un parere giuridico non vincolante in merito a questioni civili o religiose. Per molti aspetti ricorda l'istituzione romana dello jus respondendi.

Una fatwâ può essere chiesta da un singolo musulmano a titolo privato, da un giudice (qâdî), da un’istituzione. Chi svolge tale compito si chiama muftî.

Un muftî si limita a dare indicazioni su di un comportamento, molto spesso pratico, dal punto di vista della correttezza rispetto alla shari‘â. Non sentenzia su di un fatto compiuto.

Da mettere in rilievo è il fatto che una fatwâ è una semplice opinione, lo stesso richiedente può rivolgersi a vari mufî e se questi esprimono pareri diversi, conformarsi a quello che più lo soddisfi.

La futyâ (l’atto di emettere fatwâ) permise, e permette, se ben utilizzata di proporre nuove interpretazioni, dell'apparente immodificabile shari‘â.

Le fatwâ dei grandi muftî potevano essere riportate nei libri di diritto.

Una fatwâ ha forza di legge solo se un giudice si conforma ad essa.

Accanto a muftî non ufficiali, tali perché accettati come autorevoli da una comunità, fin dalle origini dell'Islam sono esistiti muftî designati e utilizzati dal potere esecutivo. Grande sviluppo di tale carica si ebbe soprattutto con gli Ottomani, quando il muftî di Costantinopoli divenne la più importante carica amministrativa religiosa sunnita, indipendente dal sovrano.

Un esempio di fatwâ, emessa nella zona di Gerusalemme nel secolo scorso, riguarda uno shaykh beduino che aveva ripudiato la moglie non intenzionalmente. Nella richiesta lo shaykh spiegava i motivi che avevano causato questo ripudio involontario: il fratello voleva sposare una donna che lui non approvava, ed aveva promesso solennemente che se il fratello si fosse sposato contro la sua volontà, e questa donna fosse entrata in casa sua, lui avrebbe sciolto il proprio matrimonio.

Il giudice applicando la legge della scuola giuridica hanafita, si pronunciò per lo scioglimento del matrimonio poiché gli hanafiti non danno importanza all’intenzionalità in tali decisioni. Lo shaykh che non voleva ripudiare la moglie, si trovò in una situazione per la quale la legge musulmana prevede che la donna prima debba sposarsi con un altro uomo, divorziare da lui e solo allora può risposarsi con il primo marito. Lo shaykh scontento di tale decisione si rivolse allora ad un muftî della scuola shafi‘ita, che invece prevede l’elemento dell’intenzionalità nella formula del ripudio ed ottenne una fatwâ che considerava ancora valido il suo matrimonio.

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La controversia fra i mutaziliti e gli hanbaliti

Il Corano è creato o increato?

di Rochdy Alili *

Bagdad, sec. IX. I mutaziliti ritengono che il Corano è creato da Dio, dunque c’è un inizio nella sua storia e si può interpretare, mentre gli hanbaliti affermano che esso è eterno, increato, preesistente e da prendere alla lettera.

La controversia del “Corano creato” ancora oggi agita le coscienze perché agli uni sembra legato a un periodo di inquisizione e agli altri come un’occasione perduta per l’islam di accedere fin da quel tempo a una concezione “moderna” della Rivelazione divina. Essa fu lanciata dal califfo al-Mamun (813-833), che era giunto al potere nel tempo in cui, nella lontana Europa del Nord, Carlo Magno terminava il suo regno. Questo califfo, della dinastia abbaside, installata in Irak nel 750 e fondatrice di Bagdad, tentò lungo tutto il suo regno di stabilire una legittimità religiosa al califfato.

Dopo la morte del Profeta, i sovrani dell’impero musulmano raramente ne avevano disposto e il califfo, capo di una forza militare e di un apparato amministrativo, era sempre più contestato dalle opposizioni religiose. La più minacciosa era quella degli sciiti, che non riconoscevano come califfi altri che i discendenti del Profeta, progenie di Fatima, la figlia, e di Ali, suo genero. La più insidiosa era quella degli ambienti tradizionalisti, attaccati alla lettera del Corano, propagatori di tradizioni profetiche e assai influenti nel popolo, perché erano difensori dell’egualitarismo dell’islam di fronte a tutti i poteri.

Un secolo prima di al-Mamun, il suo trisavolo, Muhammad b. Ali, organizzò una propaganda utilizzando questi malcontenti e la fedeltà di molti musulmani alla famiglia del Profeta. Non era un discendente di Maometto, ma del suo zio, al-Abbas, e non mancò di approfittare di una ambiguità fra le sue rivendicazioni e quelle degli sciiti. Alcuni decenni dopo questa opera di propaganda, un solido esercito formato da Iraniani e da discendenti di tribù arabe esiliate nella provincia del Korasan, nell’Iran orientale e in Asia centrale, costituito da emissari di questi nuovi pretendenti, riuscì a conquistare il potere per i figli di Muhammad b. Ali, i primi califfi abbasidi, fra cui al-Mansur, il fondatore di Bagdad e bisnonno di al-Mamun.

Stabilire una legittimità

Molto presto si chiarì la confusione fra gli abbasidi e gli sciiti e i nuovi sovrani dovettero subire l’opposizione da parte di questi ultimi, mentre i tradizionalisti mantenevano il loro consueto sospetto nei confronti del califfato. Il potere abbaside si basava dunque sempre esclusivamente su una forza militare, quella dell’esercito del Korasan. Perciò al-Mamun pensò bene, un mezzo secolo dopo l’inizio della dinastia, di appoggiare su solide basi la sua legittimità religiosa. Aveva accanto a sé dei letterati che davano alla ragione un’importanza capitale nel loro approccio ai temi dalla teologia musulmana. Erano i mutaziliti, chiamati così perché si erano messi a parte (i’tazala) dalle controversie del secolo precedente. Su Dio professavano una dottrina rigorosa che faceva di Dio un’essenza unica alla quale nulla poteva associarsi, neppure la sua Parola. Il Corano dunque era per loro una creazione, e non un’essenza divina come dicevano i tradizionalisti. Credevano anche alla libertà dell’uomo e alla sua responsabilità di fronte a Dio, tenuto egli stesso dalla ragione a retribuire, secondo i criteri della giustizia, le azioni della sua creatura.

Non è detto che al-Mamun condividesse tutti questi dogmi, ma alcuni dei mutaziliti lo sostennero nella sua scelta, come erede, di un discendente del ramo più prestigioso dello sciismo, Ali al-Rida. Ma, ahimé, Ali al-Rida morì ben presto. Una diecina di anni dopo, il califfo, che conservava una simpatia per lo sciismo e rimaneva dominato dalla superiorità dei mutaziliti, intraprese una lotta contro i dottori tradizionalisti che avevano acquisito presso il popolo il monopolio dell'interpretazione di un testo sacralizzato dal quale traevano grande influenza. Egli impose il dogma del “Corano creato” alle persone sulle quali aveva un'autorità religiosa: i funzionari, i giudici e i “testimoni professionali”, incaricati di attestare gli atti giuridici. I tradizionalisti resistettero, guidati da Ibn Hanbal, un insegnante che acquistò prestigio con questa fiera opposizione al califfo.

Ciò che divideva fondamentalmente i mutaziliti dai tradizionalisti, presto chiamati “hanbaliti”, era la concezione dell'onnipotenza divina. I primi, costituiti da una élite intellettuale spesso sprezzante, vedevano Dio come una essenza assoluta, inaccessibile e inconoscibile, ma tenuta, dalla ragione e dalla giustizia, a lasciare libero l'uomo e a giudicarlo secondo i criteri di una rigorosa equità. Gli hanbaliti, sostenuti dalle classi popolari, pensavano che gli atti dell'uomo erano predeterminati da Dio, che giudicava la sua creatura in quanto Onnipotente, senza essere costretto dalle concezioni umane di giustizia, ma con la più assoluta misericordia, se lo giudicava bene. Quanto all'unicità di Dio, essa non era lesa dal fatto che il Corano, non creato ma creatore di discernimento, partecipasse dell'essenza divina. Non era neppure lesa dal fatto che Dio apparisse, in questo Corano, dotato di attributi umani. Questa Parola increata era un modo, per l'essenza divina, di rendersi accessibile all'uomo e di manifestargli la sua misericordia. Occorreva dunque crederla e seguirla in tutto ciò che diceva e non pensare che i deboli concetti della ragione umana potessero servire a concepire Dio e a comprendere la vie del Divino.

Vittoria dell'ortodossia

Dopo vari anni al-Mamun si risolse a costringere con vigore i tradizionalisti. Dalla frontiera dell'Impero bizantino dove era in guerra, comandò al prefetto di polizia di Bagdad di arrestare Ibn Hanbal e altri fautori e di imporre dovunque il dogma del Corano creato. Era l'inizio della mihna o inquisizione, che cominciò a perseguitare i tradizionalisti sotto l'autorità del gran cadi mutazilita Ibn Abi Duad. Nel frattempo morì al-Mamun. Suo fratello al-Mutasim (833-842), e poi al-Wathiq (842-847), continuarono la sua politica. Infine, di fronte allo scontento popolare, il califfo al-Mutawakkil (847-861) condannò il mutazilismo, destituì Ibn Abi Duad, rese a Ibn Hanbal la libertà di insegnare, perseguitò gli sciiti, umiliò cristiani ed ebrei. Il califfo perdette anche il sostegno militare poiché dei mercenari turchi indocili, recrutati da al-Mutasim, avevano sostituito l'esercito ormai logoro del Korasan. Così, con questi hanbaliti poco preoccupati di riflessione teologica razionale e con questi pretoriani turchi, si affermavano i promotori dell'ortodossia che si sarebbe imposta nell'islam nei secoli futuri.

(in Le monde des religions, n. 10, pp. 48-49)

* Storico e sociologo, è l’autore di articoli e opere consacrati all’islam, fra i quali Qu’est ce que l’islam (La Découverte) e L’islam à l’usage de ma fille (Le Seuil). Suo ultimo libro: L’Eclosion de l’islam (Dervy).
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Venerdì, 28 Luglio 2006 23:03

Šarî‘a (Maria Domenica Ferrari)

Šarî‘a
di Maria Domenica Ferrari



Se domandate a un musulmano che cos'è la šarî‘a vi dirà che l'insieme delle norme date da Dio per guidare il musulmano in ogni aspetto della sua vita; inoltre per l'Islam la differenza tra sacro e profano si colloca in campo giuridico e ciò determina l'importanza del diritto. Per molti la šarî‘a, anche occidentali, indica un blocco granitico, immutabile, di norme fissate una volta per tutte 14 secoli fa.

Dal punto di vista linguistico la parola šarî‘a ha come significato principale la religione e la legge religiosa. La radice da cui deriva š r ‘ da origine a parole che indicano l'inizio, l'avvio, il dirigersi. Nei lessici tradizionali troviamo che nelle aree pastorali e tra i Beduini il verbo šara‘a indicava l'abbeveraggio degli animali in pozze d'acqua permanenti. Un secondo campo sematico indicava lo stiramento, l'allungamento, šir‘a è una corda come quella dell'arco o del liuto. Šarî‘a è perciò la strada, la via, il cammino (che porta ad abbeverarsi) e il cammino per eccellenza è quello che porta alla salvezza eterna.

“Poi ti demmo una legge ( šarî‘a) per la Nostra Casa: seguila dunque" (1) questo è il solo passo coranico in cui viene usata come sostantivo.

Nelle parlate del Medio Oriente si usa per la totalità della religione šarî‘a al-Mûsâ, šarî‘a al-Masîh sono la religione/la legge di Mosè e del Messia. Nelle comunità ebraiche di lingua araba la parola più usata per tradurre Torah è šarî‘a; l'uso per tradurre norme, regole è evidente soprattutto per quanto riguarda alcuni versetti del Levitico, talvolta è impiegata anche per misvah. Un uso simile si trova negli scrittori cristiani, šarî‘a indica le norme apportate da un profeta.

La parola šarî‘a nella letteratura religiosa islamica designa le norme, la legge, un sistema di leggi o il messaggio di un profeta. Dio è il soggetto del verbo šara‘a , Muhammad è lo šâri‘ (legislatore) per eccellenza e la spiegazione della legge è uno degli attributi profetici.

La šarî‘a indica perciò le leggi, le normative derivate principalmente dal Corano e dagli hadîth che regolano la vita dei musulmani. Accanto alle due fonti tramandate, vi sono il consenso della comunità e il ragionamento del singolo che può essere limitato alla semplice deduzione, all'analogia o estendersi al ragionamento.

Su queste fonti interviene lo studioso di diritto (fuqahâ) per dare origine alla giurisprudenza musulmana il fiqh.

I versetti coranici che riguardano aspetti legali sono una minoranza e la maggior parte di questi versetti si occupano di diritto di famiglia e di eredità.

La šarî‘a che regola la vita di un musulmano è di conseguenza una elaborazione fortemente temporale e secolare. Già la seconda fonte, la Sunna, cioè i comportamenti, le parole di Muhammad nel corso della sua vita, è sprovvista di sacralità, Muhammad è un profeta, esempio da imitare, ma essere umano.

Questa legge rivelata da Dio per condurre gli uomini nel corso della loro vita alla ricompensa finale si divide in

ibâdât che regolano i rapporti tra Dio e gli uomini

mu‘ âmalât che regolano i rapporti tra gli uomini.

Le ‘ibâdât sono eterne ed immutabili e sono i cinque pilastri della religione: la testimonianza di fede, la preghiera, il digiuno, l'elemosina legale ed il pellegrinaggio.

Le mu‘ âmalât riguardano tutti i restanti aspetti della vita sociale, economica, politica e si possono adattare ai tempi e ai luoghi, naturalmente rispettando lo spirito della šarî‘a, sono perciò modificabili e hanno dato vita a varie esperienze storiche di Islam.

Nel primo periodo, dopo la morte di Muhammad, la Comunità Islamica di fronte all'emergere di nuove istanze e all'espansione territoriale constatò che il solo Corano era insufficente, e iniziò a far riferimento alla tradizione, non più quella degli antenati come era in uso in ambiente tribale, ma a quella del profeta. Anche la tradizione è nel suo insieme soggetta a cambiamenti rispetto ai tempi, ai luoghi, e talvolta può scavalcare il Corano come nel caso della lapidazione degli adulteri, voluta dal secondo califfo ‘Umar, rispetto alla fustigazione coranica.

Con al-Šâfi‘î (m. 820) il fondatore del diritto musulmano, si fissarono i requisiti per l'accettazione degli hadîth, questo perché gli hadîth assunsero autorità assoluta. Nel corso di poco più di due secoli dalla morte di Muhammad gli interpreti del diritto si erano raggruppati in scuole giuridiche, ognuna con una metodologia propria sui principi di applicazione della legge. Di queste scuole quattro assunsero il valore di scuole canoniche di diritto e sono gunte fino ad oggi: la malîkita, la šâfi‘îta, la hanâfita e la hanbalita. I sunniti che rappresentano circa il 90% dei musulmani seguono una di queste 4 scuole, gli sciiti seguono la scuola ja‘farita che si differenzia dalle altre 4 solo in alcuni punti di secondaria importanza.

I movimenti fondamentalisti contemporanei sono convinti che la soluzione dei problemi in cui si dibattano le società musulmane è l’applicazione della šarî‘a, considerata da loro fissata fin dagli inizi e immutabile nel corso del tempo e dei luoghi. Per questi islamismi che si rifanno alla scuola giuridica più rigorosa, quella hanbalita, la sola šarî‘a valida è quella seguita all’epoca di Muhammad e dei primi quattro califfi, e rifiutano tutti gli sviluppi dello status della persona e le legislazioni degli stati musulmani che si rifanno alle legislazioni occidentali nei settori del commercio, della proprietà, della procedura penale, ignorando che la šarî‘a non è mai stata applicata integralmente e che anche nelle epoche di maggior splendore ai tribunali religiosi si affiancavano quelli amministrativi che si occupavano appunto di transazioni commerciali, di codice penale, di polizia.

1) Corano, XLV, 18

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L'affaire delle vignette satiriche
di Maria Domenica Ferrari

“La reazione di certi musulmani si situa al di là del surrealismo” inizia in questo modo un articolo dell'ex mufti di Marsiglia Sohieb Bencheick.

Questo breve scritto è una specie di collage di articoli e interventi su blog che darà voce alla maggioranza silenziosa di tutti quei musulmani che in questi giorni si sentono offesi non tanto per le caricature, ma, da una parte per il monopolio mediatico esercitato dagli integralisti e dall'altra dai media occidentali che ne diventano i portavoce.

Alla fine di settembre 2005 un giornale danese ha pubblicato una serie di vignette che avevano come soggetto Muhammad. Dopo le proteste, prima di alcuni paesi musulmani e, poi, della Lega Araba l'affare scoppia alla fine di gennaio quando l'Unione Internazionale degli Ulema, al Cairo, chiede ai musulmani di boicottare i prodotti danesi e norvegesi. Sull'onda delle crescenti manifestazioni di piazza (spontanee?) a fine gennaio le vignette compaiono prima su un giornale norvegese e in seguito su vari giornali europei.

La cosa strana è che il giornale danese abbia giustificato la scelta di pubblicare queste vignette come reazione al fatto che tutti si siano rifiutati di fare disegni per un libro sulla vita di Muhammad. Eppure esistono manoscritti con bellissimi disegni raffiguranti episodi della vita di Muhammad, sono stati fatti film, è il suo viso che viene celato o con un velo, o perché visto di spalle e nessuno ha mai protestato. Che rappresentare Muhammad sia proibito dalla religione islamica lo sostiene solo una piccola parte: gli wahhabiti. Per la maggior parte di essi le vignette, non solo blasfeme, ne si sente offesa, non sono di buon gusto e del tutto innocue, eccetto quella con Muhammad con una bomba sul turbante, che equipara in questo modo musulmano a terrorista.

Lo stesso profeta è stato oggetto di ingiurie ed umiliazioni, tanto penose da indurlo ad emigrare a Medina e ai politeisti di Mecca che lo definivano un impostore rispondeva: “Dio sarà giudice tra noi il giorno del Giudizio”.

Se i cattolici del mondo reagissero nello stesso modo quando sui giornali compaiono caricature sulla Chiesa e scendessero in piazza a milioni bruciando le ambasciate voi li giudichereste dei pazzi. Perché questo non viene fatto quando, come in questo caso, sono una manciata di integralisti musulmani? Perché gli ambienti progressisti giustificano questi musulmani e dicono di non offenderli, di non essere blasfemi?

Gli integralisti impongono alla stessa manggioranza dei musulmani la loro ristretta visione dell'islam, chi non si comporta come loro è accusato di kufr (infedeltà), è contro l'islam, l'unico vero islam è il loro.

E tutti gli altri, compresi gli agnostici e gli atei originari dei paesi musulmani, non hanno la possibilità di far sentire la loro voce, ignorati dai media.

Certo è che questi musulmani che manifestano sono molto ignoranti, ignorano che nel Corano è scritto di trascendere le polemiche e di rispondere ai provocatori con la parola pace.

Come può una religione sicura di sé, solida, fuggire alle critiche, vacilllare innanzi a futili provocazioni?

E' grazie alla libertà d'espressione che l'islam si può esprimere liberamente nei paesi democratici. Nessuno impedisce in Europa ai musulmani di esprimersi liberamente.

Non sono i musulmani a domandare le scuse, sono gli integralisti. Fino a quando in Europa si lasceranno parlare gli integralisti a nome di tutti i musulmani, quando verrà dato alle forze progressiste il posto di interlocutore per iniziare a risolvere quei problemi sociali di lavoro, di integrazione, di riconoscenza sociale su cui fondano il loro proselitismo gli integralisti?

Dov'erano le gerarchie musulmane, le persone che oggi manifestano quando in Algeria uomini, donne e bambini erano sgozzati da gruppi islamisti? Chi infanga la religione islamica e il suo Profeta sono i disegnatori danesi o i gruppi estremisti?

Perché gli stessi giornali europei che oggi sono solidali con il giornale danese non si sono mai pronunciati in favore dei giornalisti algerini che hanno pagato con la loro vita il diritto alla libertà d'espressione?

In realtà il politico viene camuffato da conflitto religioso da entrambe le parti: l'Islam contro Occidente - Cristianesimo contro Islam ovvero il Bene contro il Male.

Per dirla con le parole dell'altro Bencheick, Ghaleb “Non è che scontro delle inculture e degli ignoranti".

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Martedì, 06 Dicembre 2005 00:55

Il paradiso e le Huri (Maria Domenica Ferrari)

Il paradiso e le Huri
di Maria Domenica Ferrari



E quei della destra, oh quei della destra!- E quei della sinistra, oh quei della sinistra! - E i precursori, i Precursori! - Saranno a Dio i più vicini - in deliziosi Giardini - Molti là vi saran degli antichi - pochi vi saran dei moderni - su troni ornati d'oro e di gemme - adagiati, gli uni agli altri di fronte, - e fra loro garzoni d'eterna gioventù trascorreranno - con coppe e bricchi e calici freschi limpidissimi - da' quali non avranno emicrania né offuscamento di mente - e frutti a piacere- e a volontà carni delicate d'uccelli - e fanciulle da' grandi occhi neri- a somiglianza di perle nascoste nel guscio, - in ricompensa di ciò che avranno operato.- E non udranno colà discorsi frivoli o eccitanti al peccato - ma solo una parola: <Pace, Pace!> - Quei della destra! Oh quei della destra! - s'aggireranno fra piante di loto senza spine - e acacie copiose di rami - e ombra ampia - e acqua scorrente - e frutti molti - mai interrotti e mai proibiti, - e alti giacigli. - e le fanciulle le creammo a nuovo - e ne facemmo vergini - amanti coetanee - per quei della destra.” (1)

Janna Giardino è la parola per antonomasia che indica il luogo nell'Aldilà riservato agli eletti.

La maggior parte delle sure che parlano del Paradiso sono quelle del periodo meccano e la descrizione è incentrata su aspetti concreti: stoffe preziose, gioielli, profumi, banchetti. Gli eletti godranno di tutto ciò con le proprie mogli e figli, in armonia, senza dolori e afflizioni, nei pressi del trono di Dio “Volti in quel giorno saranno splendenti - al loro Signore miranti" (2) .

Negli hadîth viene enfatizzata la tendenza letterale che insiste sulla realtà dei piacere sensuali; alcuni sono ritenuti autentici (sahîh) altri dubbi (da‘îf) secondo il criterio musulmano che si basa sulle linee di trasmissione degli stessi.

I più pensano che l'ubicazione del Paradiso sia sotto il Trono di Dio. I vari livelli sono collegati da porte e ognuno di essi è di solito diviso in cento gradi. Muhammad sarà il primo ad entrare e i poveri precederanno i ricchi, gli angeli li accoglieranno con una melodia araba (l'arabo è la sola lingua del Paradiso). I dotti hanno discusso sull'ubicazione dell'Eden di Adamo c'è chi sostiene che sia uno dei sette paradisi, per altri è un giardino terrestre. La maggior parte dei commentatori divide il Paradiso in:

 1) dimora della Maestà,
 2) della Pace,
 3) il giardino dell'Eden,
 4) del Rifugio,
 5) dell'Immortalità,
 6) dell'Firdaws,
 7) delle Delizie,

 altri testi pongono il Firdwas al vertice, e altri ancora l'Eden.

In Paradiso sarà sempre primavera, un giorno in esso corrisponde a cento sulla terra; è fatto di muschio, oro e argento, i palazzi sono d'oro e pietre preziose. Quattro fiumi sgorgano da montagne di muschio, nelle vallate crescono piante dai frutti meravigliosi. Vi sono cavalli e cammelli. Tutti gli eletti hanno la statura di Adamo e gli anni di Gesù. Nell'aria si ode una melodia meravigliosa, quella più bella di tutte, è la voce di Dio

Nel Corano la parola hûr (3) indica le giovani fanciulle vergine promesse ai credenti. La radice di questa parola è collegata all'idea di “bianchezza” in particolare ai grandi occhi della gazzella e al contrasto tra il bianco dell'occhio e il nero della pupilla, hawrâ’ è una donna dai grandi occhi neri e dalla pelle molto chiara.

Quasi tutti i versetti che parlano di hûrî sono del periodo meccano, quando è particolarmente sentitoda Muhammad il tema del Giudizio Universale.

I versetti coranici ci dicono che non sono mai state toccate né dagli uomini né dai jinn, la sostanza da cui sono state create per alcuni è lo zafferano, per altri sono di zafferano, muschio, canfora e ambra. I loro muscoli sono delicati e i loro tendini paiono fatti di fili di seta. Sui loro seni sono iscritti due nomi: da una parte quello Dio, sull'altro quello del proprio marito. Vivono in castelli con 70 letti, hanno 33 anni come i loro mariti, la loro verginità viene rinnovata eternamente, il loro corpo è sempre puro, non hanno mestruazioni, bisogni umani.

Le donne che in vita sono state virtuose in Paradiso si ricongiungeranno al proprio marito e lì continueranno la loro vita insieme. Se una donna in vita ha avuto più mariti ne sceglierà uno, mentre gli uomini poligami avranno diritto a tutte le mogli legittime. I commentatori però non dicono nulla sulla sorte di quelle donne che andranno in Paradiso, ma che in vita non sono state sposate.

Su questa base coranica la tradizione ha aggiunto dettagli dando alle hûrî un carattere molto sensuale. Non tutti gli esegeti hanno accettato questa idea prettamente materialista, al-Baydâwî (4) dice che non si possono fare raffronti tra il godimento del cibo, delle hûrî, la condizione umana terrena è altra rispetto a quella del Paradiso, certo è che la mentalità popolare musulmana è permeata da questi concetti. E' solo in un hadîth che si parla delle 70 vergini che attendono tutti gli eletti, non solo i martiri.

Dal punto di vista delle scuole religiose abbiamo tre attitudine fondamentali.

a) Per i mutaziliti (5) i passaggi antropomorfi relativi a Dio e ai suoi atti devono essere interpretati metaforicamente, al contrario i piaceri del Paradiso sono reali, ma vanno escluse le esagerazioni. Negano la visione di Dio in Paradiso e pensano che sarà creato al momento della Resurrezione.

b) I primi ashariti (6) accettano l'antropomorfismo del testo coranico, la visione oculare di Dio come “la luna nel cielo”. Il Paradiso esiste da sempre, i piaceri sono reali, ma di una natura che non è comprensibile dalla condizione umana in base al principio del “bilâ kayf”, (senza come).

c) Gli ultimi ashariti, forse influenzati dalla filosofia, adottano l'interpretazione metaforica della descrizione del Paradiso e più che sui piaceri sensuali mettono l'accento sulla presenza divina che impregna le anime degli eletti.

Per i filosofi la vita futura inizia con la morte individuale, Ibn Sînâ (7) e Ibn Rušd (8) nelle loro opere non negano la realtà della Resurrezione, ma il racconto coranico è stato fatto per gli “uomini semplici” che non possono comprendere simboli e allegorie. Per gli uomini saggi il Paradiso è il luogo in cui saranno uniti tramite una sostanza intellegibile all'Intelletto Universale. I primi sufi pur prendendo alla lettera il testo coranico focalizzano la loro attenzione alla felicità della visione di Dio. Col passare del tempo, gli aspetti sensuali verranno rimossi per lasciare spazio al senso spirituale come nell'opera di Ibn ‘Arabî (9). Se pur guardati con sospetto dagli ‘ulamâ, le idee dei filosofi e dei sufi grazie, soprattutto, al diffondersi delle confraternite ebbero un'influenza reale sulle popolazioni musulmane.

Con al-Ghazâlî (10) si giunse alla sintesi più importante fra queste varie correnti. Al-Ghazâlî afferma la realtà della visione di Dio, i piaceri del Paradiso sono incomprensibili dalla mente umana per questo vengono descritti in termini terreni. Afferma la realtà della resurrezione dei corpi negata dai filosofi.

In epoca contemporanea i manuali popolari di teologia contengono pochi accenni al Paradiso, quello di al-Bâjûrî segue la linea ašarita della realtà letterale senza “chiedere come”, ammettendo però in alcuni casi una doppia lettura.

Con Muhammad ‘Abdul, riformista egiziano del diciannovesimo secolo, se da un lato si riafferma il senso letterale del testo, e il “bilâ kayf” è ripreso nel caso delle hûrî, muove però anche delle critica alle fonti tradizionali accettando solo gli hadîth con più linee di trasmissione.

Per Rashîd Ridâ (11) i piaceri spirituali promessi sono superiori a quelli sensuali, le iperbole delle descrizioni si devono alla lingua araba, ogni eletto avrà oltre alla moglie terrena una sola hûrî. La visione di Dio non è un fatto basilare della fede musulmana.

Note


(1) Corano, LVI 8-38.

(2) Corano, LXXV 22-23.

(3) Nelle lingue occidentali la parola entrata in uso è quella persiana singolare hûrî.

(4) Giurista, teologo, grammatico , morto alla fine del 1200, l'opera più conosciuta è un commentario al Corano diffusissimo nel mondo arabo.
(5) Seguaci di una delle più importanti scuole teologiche musulmane nata a Basra all'inizio dell'VIII secolo, sono considerati i “razionalisti” dell'Islam , “la ragione come criterio della Legge” è il loro principio.

(6) Scuola teologica dei seguaci dei Abû 'l-Hasan al-Aš‘arî nato a Basra nel 873 -4 morto a Bagdad nel 935-6. A partire dal XIV secolo diviene sinonimo di “ortodossia” religiosa che permane per certi aspetti tuttora.

(7) Avicenna.
(8) Averroé.
(9) Uno dei più grandi sufi nato a Murcia il 27-8-1165 morto a Damasco il 16-11-1240.
(10) Uno dei più grandi pensatori musulmani,: teologo, giurista, mistico, riformatore religioso., nato a Tus 1058 morto a Naysapur 1111.
(11) Uno dei più importanti autori musulmani (1865-1935) legato soprattutto al giornale da lui fondato nel 1898 al-Manâre diretto fino allla morte.

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Il martirio nell'Islam
prima parte
di Maria Domenica Ferrari

Nel Corano la parola šahîd (1) è impiegata con il significato di testimone in senso legale. Per i commentatori musulmani in alcuni versetti, però, šahîd si deve interpretare nel senso di martire (2).

Gli islamologi Wensinck e Goldziher pensano invece che il sovrapporsi dei sensi sia post-coranico e si debba a un prestito dal siriaco. Tra i cristiani della Siria si era infatti stabilito una connessione linguistica tra l'atto di testimonianza ed il martirio. Per i musulmani questa equivalenza non è però così evidente. Nel Corano non c'è legame tra l'idea di morte sul “sentiero di Dio” e l'atto di testimonianza e questo per le condizioni storiche in cui si sviluppò l'islam: i primi martiri furono i morti in combattimento. I dotti musulmani si trovarono così di fronte al problema di giustificare in che modo il martire fosse divenuto anche testimone. Dalle soluzione adottate sembra che in realtà non sapessero perché le due idee si unirono.

Come detto, i primi martiri sono i morti nelle battaglie e la devozione popolare ricorda in particolare questi compagni di Muhammad che si lanciavano in combattimento con coraggio mentre la tradizione letteraria riporta le loro gesta e li abbellisce.

Ai martiri vengono risparmiate le sofferenze della morte, andranno direttamente in Paradiso senza passare per il Giorno del Giudizio e sederanno presso il trono di Dio. Il Paradiso promesso dal Corano viene così descritto: “ma coloro che credono e operano il bene li faremo entrare in giardini alle cui ombre scorrono i fiumi dove resteranno in eterno, sempre, e avranno ivi spose purissime, e li faremo entrare in ombrosa ombra.” (IV; 57).

I martiri sono divisi in due gruppi che si differenziano per lo speciale rito di sepoltura, riservato al primo “i martiri di questo mondo e dell'altro” cioè i “martiri in battaglia” e al secondo gruppo coloro che sono martiri solo nell'altro mondo.

Il corpo del martire del primo gruppo, per la maggioranza dei giuristi, non deve essere lavato, come previsto dal rito della sepoltura e viene sepolto con i vestiti che indossava al momento della morte, ma non con le armi.

Sul fatto di pregare sui martiri vi è divisione; alcune fonti dicono che Muhammad l'abbia fatto in occasione della battaglia di Uhud, altre lo smentiscono. La preghiera non è necessaria poiché in virtù del martirio viene purificato dai peccati.

Con il la fine dell'espansione territoriale l'idea di martirio ebbe uno sviluppo interno alla Comunità musulmana. L'ideale del martirio marcò i Kharigiti (3), che si definivano i “venditori” in quanto vendevano la propria vita terrena in cambio del Paradiso. Non combattevano contro gli infedeli, ma per un ideale di giustizia e purezza e il martirio era lo scopo perseguito.

I conflitti interni alla Comunità musulmana sono la base su cui si appoggia la formazione del pensiero sciita del martirio. A Karbalâ’ nel 680 Husayn, figlio di ‘Ali e nipote di Muhammad, fu ucciso con il suo seguito, tra cui donne e bambini, per ordine del califfo ommaiade Yazîd. Nel pensiero religioso sciita la morte di Husayn assumerà il significato di morte redentrice di valenza cosmica. La rievocazione del fatto è l'avvenimento principale del calendario religioso degli sciiti, ma i dotti, se da un lato lo venerano, dall'altro si sono ben guardati da farne un modello d'imitazione.

L'influenza del sufismo, che privilegia la spiritualità rispetto agli atti esterni e il quietismo musulmano che si contrappone all'islam militante di gruppi ribelli come quello kharigita, accentuano l'allargarsi del concetto di martirio raggiungibile da tutti i devoti musulmani.

Il martirio è alla portata tutti coloro che coscientemente vivono gli obblighi del buon musulmano, e la morte diviene un elemento secondario.

La categoria dei martiri con il passare del tempo si allargò sempre più includendo morti di vario genere:

a) i morti per morte violenta o prematura: comprende chi muore mentre sta servendo Dio, chi è ucciso per il proprio credo, chi muore per incidente o malattia, incluse le donne morte per il parto, chi muore per un'amore non corrisposto, rimanendo casto e chi muore lontano da casa emigrato a causa di persecuzione.

b) i morti di morte naturale come coloro che stanno compiendo il pellegrinaggio, chi sta pregando, chi durante la vita si è comportato virtuosamente.

c) coloro che si impegnano nel “grande jihâd", quello all'interno di se stessi.Un famoso hadîth dice che l'inchiostro dei dotti ha maggior peso del sangue dei martiri.

Tra i sufi abbiamo uno sviluppo indipendente del martirio che culmina con al-Hallâj (m. 922) crocifisso con l'accusa di essere blasfemo per aver affermato l'unione mistica con Dio con la celebre frase: “Ana 'l -haqq” Io ( Dio) sono la Verità.

In seguito al colonialismo l'idea di martirio da pio ideale si trasforma e riacquista le caratteristiche di lotta militante. Contro il quietismo medioevale e i moderni riformisti si colloca Hasan al-Banna (1906-1949) il fondatore dei Fratelli Musulmani per cui non solo il jihâh è un dovere individuale, ma invita ogni musulmano a prepararsi all'idea di martirio. Questa ricerca del martirio ricorda quella dei Kharigiti condannati dai dotti musulmani. I recenti atti di suicidi con bombe sono germogli di questa idea militante.

Nella Sciia moderna si è assistito a un processo simile: il martire cede la sua vita per un'ideale più importante e duraturo. L'ayatollah al-Taliqanî ( 1910-1979) citando il poeta sufi al-Rûmî dice che il martirio è parte di una catena di sacrificio che rende perfetto l'imperfetto.

Note

(1) Nell'arabo odierno šahîd indica il martire, šâhid invece è il testimone giuridico. (2) III, 140 “.....e noi alterniamo fortuna e sfortuna fra gli uomini, perché Dio possa riconoscer coloro che credono e trasceglierne Martiri; ma Dio non ama gli iniqui”. Altri traduttori hanno scelto invece testimoni. (3) Sono coloro che non accettarono l'arbitrato tra ‘Ali e il governatore della Siria Mu‘âwiya, contestarono l'istituzione di un tribunale umano per questioni divine ed uscirono dalla comunità (Kharaja in arabo). La maggior parte di questi primi musulmani dissidenti erano lettori di Corano.



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Mercoledì, 27 Luglio 2005 02:23

Il suicidio (Maria Domenica Ferrari)

Il suicidio
di Maria Domenica Ferrari


Dio è il creatore, la vita è un suo dono e nessuno ha il diritto di interromperla. Il suicidio è proibito nell'islam”.

Nel Corano non ci sono passaggi che proibiscono formalmente il suicidio e i versetti che spesso sono citati a tale riguardo (IV 29; II 85) in realtà esprimono un senso di reciprocità (1).

La parola araba usata: intihâr significa uccidersi sgozzandosi; col tempo si è estesa a tutti i tipi di suicidio e con questo senso è usato in arabo moderno, turco e persiano.

Gli hadîth riportano la condanna di Muhammad: il suicida sarà escluso dal Paradiso e all'Inferno avrà come castigo la ripetizione del suo gesto (2). Muhammad inoltre avrebbe rifiutato di pronunciare le orazioni funebri per un suicida.

Per questo motivo dal punto di vista giuridico i dotti musulmani dovettero esprimersi in caso di suicidio sull'ammissibilità delle preghiere funebri, e l'opinione più caritatevole fu quella che prevalse.

Il suicidio è considerato un peccato grave, talvolta è sentito più dell'omicidio.

I problemi coniugali sono poco presenti come motivo di suicidio, non si sa se per mancaza di informazioni o per il clima sociale. Vero è che un suicidio nella vita di tutti i giorni era ed è camuffato per non farlo apparire tale.

Dall'analisi delle fonti storiche a disposizione pare che il numero sia stato scarso.

Nei paesi musulmani, tranne Giordania e Turchia, non vengono riportati nelle statistiche i dati relativi al numero dei suicidi.

La sensazione, però, è che nell'ultimo decennio il numero sia aumentato tra i musulmani che vivono in paesi non-musulmani come Gran Bretagna e Nord America.

La riprobazione che accompagna questo gesto, tuttavia, non fa del suicidio un argomento proibito, nelle fonti storiche e in letteratura è presente.

L'intenzione di suicidarsi può essere usata come arma psicologica come dal celebre sûfî Abû al-yasan al-Nûri per costrigere Dio a confermare la sua santità con un piccolo miracolo, il fatto provocò la forte riprovazione di al-Junayd (3).

In senso figurato è molto usato per indicare comportamenti volontari che espongono al pericolo come nel caso di una guerra o di digiuno. Sotto forma di metafora indica uno sforzo straordinario.

Talvolta sono citati i suicidi dell'epoca pre-islamica più celebri come re Saul, Giuda Iscariota, Cleopatra. Il costume indiano del sacrificio delle vedove è visto come una propensione di questo popolo.

I casi di non-musulmani che per rimanere fedeli alle proprie opinioni scelgono il suicidio sono riportati tra il disgusto e l'ammirazione.

Nelle opere di adab (4) è la “giusta” conclusione di una storia d'amore non corrisposta o illecita. Nel romanzo Vìs u-Râmîn (5) per l'eroina è naturale giungere al suicidio.

Il sostrato filosofico-popolare ellenico aiutò l'accettazione dell'idea che la morte è preferibile a una vita senza amore o insopportabile, opinione inconcepibile per i dotti musulmani.

Nella seconda parte dell'articolo verrà trattato il concetto di martirio nell'Islam e il rapporto tra martirio e suicidio.

Note

(1) Bausani, traduce “ non uccidersi” ma mette in nota che dal contesto sarebbe più esatto tradurre “non uccidetevi tra voi”. I commentatori musulmani accettano entrambe. La traduzione francese di D. Masson sceglie la seconda e non parla della prima possibilità.

(2) Bukhârî Sahih, hadîth 2245-2246

(3) Celebri sûfî al-Nûri (m. 907) Junayd (m.910) fu maestro di Hallâg; quasi tutte le confraternite lo includono nella loro catena di origine.

(4) Genere letterario adab è una parola che indica buone maniere, raffinatezza di pensiero, buon gusto. Testi tipici sono i manuali destinati all'educazione dei giovani di ceto elevato.

(5)
Primo poema cortese della letteratura persiana di circa 9000 versi scritto da Gurgâni (m. 1055 circa), godette di ampia popolarità influenzando l'epica cavalleresca giorgiana. Assomiglia al romanzo Tristano e Isotta.

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Martedì, 07 Giugno 2005 02:15

Jinn (Maria Domenica Ferrari)

JINN
di Maria Domenica Ferrari

I musulmani credono di dividere il mondo con i jinn, esseri fatti di fuoco o vapore, non percepiti dai sensi e che possono assumere l'aspetto degli umani o degli animali.

I lessicografi arabi fanno derivare il nome dalla radice j n n che indica qualcosa di oscuro, nascosto, dissimulato, gli arabisti occidentali invece considerano etimologicamente molto difficile questa spiegazione, e non escludono una derivazione dal latino genius.

I jinn sono stati creati del fuoco, come gli angeli (1), ma vi sono anche quelli fatti di creta e di luce. Il legame con Iblîs il Šaytân è oscuro, poiché Iblîs viene definito un jinn, ma secondo il Corano Iblîs è un angelo (2)
.

Nell'Arabia preislamica i jinn erano l'espressione delle forze oscure della natura ostili all'uomo.

All'epoca di Muhammad si erano evoluti in dei impersonali e per gli Arabi di Mecca esisteva una parentela tra essi e Allah.

Per l'Islam ufficiale l’esistenza dei jinn è un fatto certo e indiscutibile che permane ai nostri giorni, i giuristi hanno stabilito il loro status legale nelle relazioni con l'umanità, in particolare in caso di matrimonio e proprietà. I filosofi invece hanno affrontato l'argomento in modo più ambiguo come al-Fârâbî o ne hanno negano l'esistenza come Ibn Sînâ ( Avicenna).

Nella lingua parlata non vengono chiamati con il loro nome, ma vi si allude come agli “altri”, ai “venti”. Il mondo degli esseri umani e dei jinn non è sentito separato, ma condiviso a livelli diversi. Questo mondo dell'invisibile è popolato anche da angeli (malâ’ika), orchi (ghwal), ‘ifrît (3), mârid (4) e šaytân.

Ai nostri giorni gran parte dei testi di letteratura popolare sono quelli che trattano i modi per proteggersi dai jinn. In Egitto una credenza diffusa è quella che se un uomo muore di morte violenta si trasforma in ‘ifrît, oppure l'uomo che muore in condizione di grave peccato viene trasformato in un jinn.

In Marocco i jinn sono divisi in quattro categorie:

quelli della terra, ritenuti i più numerosi e pericolosi, sono considerati i veri padroni delle terre;
quelli acquatici, sono i padroni dei pozzi, delle fonti;
quelli del fuoco;
quelli dell'aria.

Un personaggio popolarissimo in Marocco è ‘Â’iša Qandîša, talvolta ritenuta una afrîta altre una ghûla, viene descritta come una donna bellissima e nello stesso tempo terrificante, che nasconde sotto i vestiti i piedi da cammello, o capra, o mulo. Almeno una persona in una famiglia marocchina l'ha incontrata. A lei vengono imputate tutte le problematiche che possono manifestarsi all'interno di una coppia: disaccordi, impotenza, sterilità, malattie. A causa di ciò Westermarck l'ha collegata al culto di Astarte, dea fenicia della guerra e dell'amore.

Al jinn vengono ricondotte le malattie che agiscono sul corpo, sullo spirito e sul comportamento, mentre nel caso di invidia, gelosia si pensa alla magia.

I jinn che hanno un nome sono dotati anche di una particolare caratterizzazione per esempio:

domenica è il giorno di Mûdhib che causa ingiallimento,

lunedì è il giorno di Lâlla Mira che provoca tremori, malattie mentali,

martedì è il giorno di Al-Ahmar legato al colore rosso del sangue e delle piante come il melograno.

Sulla base di queste indicazioni il faqîh, può determinare quale tipo di jinn è la causa del malessere e approntare le contromisure.



Note


(1) LV, 14 “ Creò l’uomo da fango seccato come argilla per vasi- e i jinn creò di fiamma purissima di fuoco.”
(2) II, 32 - E quando dicemmo agli Angeli: “Prostratevi davanti ad Adamo!”, tutti si prostrarono salvo Iblîs , che rifiutò superbo e fu dei Negatori.-
(3) Epiteto che designa esseri caratterizzati da furbizia e insubordinazione, non sono jinn,non sono demoni, anche se presentano caratteristiche che li accomunano. Sono fatti di fumo, e come i jinn possono essere sia maschili che femminili.
(4) Parola che significa ribelle, rivoluzionario, per l'inconscio musulmano ha sempre un carattere negativo e rimanda alla ribellione per eccellenza quella dei jinn e dei demoni contro Dio.


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