Famiglia Giovani Anziani

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Mercoledì, 26 Settembre 2007 01:02

Unico Dio (Gad Lerner)

Unico Dio

di Gad Lerner

Nel mio piccolo, sono contento di aver rischiato anch’io, elogiando in anticipo il viaggio di Benedetto XVI in Turchia (dal 28 novembre al 1° dicembre), sul numero scorso, pur sapendo che era a rischio d’insuccesso e soggetto a mille incognite.

Bastava il fatto che il papa confermasse la volontà di andare pellegrino in un luogo che, di sicuro, non l’avrebbe accolto trionfalmente – dicevo – per renderne preziosa di per sé l’intenzione di apertura e dialogo. Ebbene, le cose sono andate molto meglio di ogni mia più rosea aspettativa. Alleluia! Stavolta sono papista anch’io!

Disarmata l’ostilità di Erdogan e del Gran Muftì con le ripetute parole di rispetto nei confronti dell’islam e del suo Profeta, Joseph Ratzinger ha poi fatto molto, molto di più, sia sul piano politico, sia sul piano spirituale.

Ha rimosso qualsiasi equivoco di veto vaticano sull’ingresso della Turchia nell’Unione europea, senza tema di correggere le perplessità manifestate al tempo in cui era un semplice cardinale. Schierare il Vaticano su una politica di porte aperte alla Turchia rafforza le speranze di pace nel Mediterraneo. Del resto, la chiesa, più di qualunque altra istituzione, ha consapevolezza storica del ruolo cruciale svolto da quelle terre di confine nella formazione di un’idea continentale armoniosa, sovranazionale, cosmopolita.

Ma è con il gesto compiuto nella Moschea blu di Istanbul – lui, Papa piuttosto di parole che di gesti, e dunque con la preghiera rivolta al Signore da un luogo di culto “altro” – che Benedetto XVI ci ha felicemente sorpresi. Sulle prime, qualche giornale ha esitato, nonostante il direttore della sala stampa vaticana, padre Lombardi, confermasse ciò che tutti avevano potuto vedere. La delusione deve essere stata grande in quegli aizzatori di conflitti religiosi che sulla lectio magistralis di Regensburg avevano scritto il titolone: “Il papa ci spiega perché il Dio dei cristiani è diverso da Allah”. Ma perfino il semi-ufficiale Avvenire il primo giorno aveva esitato, limitandosi a un sommario di prima pagina, in cui si segnalava che lì, nella moschea, Benedetto XVI aveva «rivolto un pensiero a Dio».

Per i dubbiosi, le definitive precisazioni sono venute in seguito da Roma: Benedetto XVI aveva ritenuto di rivolgersi – in quel luogo di preghiera dei musulmani – all’«unico Dio», che, in quanto tale, ci accomuna. Da uomo di pace, egli ha rilanciato il buon metodo che consiste nel valorizzare innanzitutto il molto che ci accomuna, al fine di restituire la giusta dimensione alle nostre differenze.

(da Nigrizia, gennaio 2007)

Pubblicato in Dialoghi
I fondamenti teologici del dialogo
nell’ambito delle culture segnate dalla non-credenza
e dall’indifferenza religiosa

di Bruno Forte


1. Gli scenari del tempo

a) Il sogno della modernità e l’“assassinio del Padre”

La metafora della luce esprime nella maniera più intensa il principio ispiratore della modernità, l’ambiziosa pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. Secondo questo progetto - che sta alla base dell’Illuminismo in tutte le sue espressioni -comprendere razionalmente il mondo significa rendere l’uomo finalmente libero, padrone e protagonista del proprio domani, emancipandolo da ogni possibile dipendenza: l’“emancipazione” è il sogno che pervade i grandi processi di trasformazione storica dell’epoca moderna, nati a partire dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese, dall’emancipazione delle classi sfruttate e delle razze oppresse a quella dei popoli del cosiddetto “terzo mondo”, a quella della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali. Il sogno di un’emancipazione totale spinge l’uomo moderno a volere una realtà completamente illuminata dal concetto, in cui si esprima senza residui la potenza irradiante della ragione. Dove la ragione trionfa si alza il sole dell’avvenire: in tal senso si può dire che il tempo della modernità è il tempo della luce. L’ebbrezza dello spirito moderno sta precisamente in questa presunzione della ragione assoluta di poter vincere ogni oscurità e assorbire ogni differenza.

L’espressione compiuta di questa ebbrezza è l’“ideologia”: la modernità, tempo del sogno emancipatorio, è anche il tempo delle visioni totali del mondo, proprie delle ideologie. Esse tendono ad imporre la luce della ragione alla realtà tutta intera, fino a stabilire l’equazione fra ideale e reale: è inseguendo questa ambizione che le “grandi narrazioni” ideologiche tendono ad edificare una “società senza padri”, dove non ci siano rapporti verticali, ritenuti sempre di dipendenza, ma solo orizzontali, di parità e reciprocità. Il sole della ragione produce libertà e uguaglianza, e proprio così anche fraternità, egualitarismo fondato sull’unicità della luce del pensiero, che governa il mondo e la vita: “liberté, égalité, fraternité” sono il frutto del trionfo della ragione. La critica alla figura del “padre - padrone” sfocia così nella pretesa della radicale negazione di Dio: come non deve esserci in terra alcuna paternità che crei dipendenza, così non può esservi in cielo alcun Padre di tutti. Non ci sono “partners” divini, non c’è un altro mondo, c’è solo questa storia, quest’orizzonte: l’unica idea del divino che può restare dinanzi al tribunale della ragione adulta sembra quella di un Dio morto, insensato, inutile (“Deus mortuus, Deus otiosus”). L’assassinio collettivo del Padre si consuma nella convinzione che l’uomo dovrà gestirsi la vita da solo, costruendo il proprio destino soltanto con le proprie mani: le ideologie moderne, di destra o di sinistra, hanno inseguito la meta ambiziosa di emancipare gli abitatori del tempo in modo così radicale, da renderli da oggetto soggetto esclusivo della loro storia, al tempo stesso origine e meta di tutto ciò che accade.

Non si può negare che questo progetto sia grandioso e che tutti ne siamo in qualche misura eredi: chi vorrebbe vivere in una società che non sia passata attraverso il processo dell’emancipazione? E tuttavia, questo sogno ha prodotto anche effetti satanici: proprio a causa della sua ambizione totale l’ideologia diventa violenta. La realtà viene piegata alla forza del concetto: la “volontà di potenza” (F. Nietzsche) della ragione vuol dominare la vita e la storia per adeguarle al proprio progetto. Il sogno di totalità si fa inesorabilmente totalitario: il tutto - così come è compreso dalla ragione - produce totalitarismo. Non a caso, né per un semplice incidente di percorso, tutte le avventure dell’ideologia moderna, di destra come di sinistra, dall’ideologia borghese a quella rivoluzionaria, sfociano in forme totalitarie e violente. Ed è precisamente l’esperienza storica della violenza dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi e il tramonto delle pretese della ragione moderna: “La terra interamente illuminata - affermano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’Illuminismo - risplende all’insegna di trionfale sventura". (1) Il pensiero senza ombre si risolve in tragedia: lungi dal produrre emancipazione, genera dolore, alienazione e morte. La moderna “società senza padri” non genera figli più liberi e più uguali, ma produce dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si offrono come i “surrogati” del padre: il “capo”, il “partito”, la “causa” diventano i nuovi padroni, e la libertà promessa e sognata si risolve in una massificazione dolorosa e grigia, sostenuta dalla violenza e dalla paura. L’assassinio collettivo del padre non ha impedito, insomma, la prolificazione di “padri - padroni” sotto mentite spoglie...

b) La società senza padri e il “secolo breve”

Il sogno di emancipare il mondo e la vita sembra dunque essersi infranto contro l’inaudita violenza che l’epoca dell’emancipazione ha prodotto, di cui sono segno eloquente le guerre, le pulizie etniche, i forni crematori, la Shoà e tutti i genocidi del nostro secolo, fino all’eccidio per fame che ogni giorno si consuma nel mondo. È questo il frutto della ragione adulta? Dove sono i cieli nuovi e le terre nuove che le grandi narrazioni ideologiche avevano promesso? Sta qui il dramma con cui si chiude il XX secolo: un dramma morale, una crisi di senso, un vuoto di speranza. Se per la ragione moderna tutto aveva senso all’interno di un processo totale, per il pensiero debole della condizione post-moderna - naufrago nel grande mare della storia dopo il fallimento delle presunzioni ideologiche - nulla sembra avere più senso. In reazione alle pretese fallimentari della ragione forte si profila un tempo di naufragio e di caduta: la crisi del senso diventa la caratteristica peculiare dell’inquietudine postmoderna. In questo tempo di “notte del mondo” (Martin Heidegger) ciò che trionfa sembra essere l’indifferenza, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Si profila così l’estremo volto del secolo che volge alla fine: il volto del nichilismo.

Il nichilismo non è l’abbandono dei valori, la rinuncia a vivere qualcosa per cui valga la pena di vivere, ma un processo più sottile: esso priva l’uomo del gusto di impegnarsi per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. Ciò di cui si è più malati oggi è la mancanza di “passione per la verità”: questo è il volto tragico del post-moderno. Nel clima del nichilismo diffuso tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. È il trionfo della maschera a scapito della verità: perfino i valori sono spesso ridotti a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato. L’uomo stesso sembra risolversi in una “passione inutile” (secondo la formula proposta con inquietante anticipo sulla fine dei mondi ideologici da Jean-Paul Sartre: “l’homme, une passion inutile”). Si potrebbe dire che la malattia più profonda dell’epoca che chiamiamo post_moderna sia la definitiva rinuncia a un padre-madre verso cui tendere le braccia dell’attesa, e dunque il non avere più la volontà o il desiderio di cercare il senso per cui valga la pena di vivere e di morire.

Orfani delle ideologie, si rischia di essere tutti più fragili, più tentati di chiudersi nella solitudine dei propri egoismi. È per questo che le società post-ideologiche stanno diventando sempre più “folle di solitudini”, in cui ognuno cura il suo interesse particolare secondo una logica esclusivamente egoistica e strumentale: di fronte al nulla del senso ultimo, ci si aggrappa all’interesse penultimo, alla cattura del possesso immediato. È questa la ragione del trionfo del consumismo più sfacciato, della corsa all’edonismo e all’immediatamente fruibile, ma è anche questo il motivo profondo dell’emergere e dell’affermarsi delle logiche settarie, etniche, nazionalistiche o regionalistiche, che si sono diffuse con inquietante virulenza nell’Europa di fine millennio. Quando non si hanno orizzonti grandi di verità, si affoga facilmente nella solitudine egoistica del proprio particolare e la società diventa arcipelago. Proprio questo processo mostra però come tutti abbiamo bisogno di un padre _ madre comune che liberi dalla prigionia della solitudine, che dia un orizzonte per cui sperare e amare: non un orizzonte violento, asfissiante com’era quello dell’ideologia, ma un orizzonte liberante per tutti, rispettoso di tutti.

Se dunque la “società senza padri” ha inseguito il sogno dell’emancipazione e per emanciparsi ha pensato di uccidere il padre, proprio il frutto amaro di un’emancipazione totalitaria e violenta e il vuoto che essa ha lasciato fa avvertire un nuovo bisogno di un padre_madre accogliente nella libertà e nell’amore. Non è certo la ricerca del padre_madre che sia il padre_partito, il padre-padrone, capo indiscusso e indiscutibile, o il padre-denaro, il padre_capitalismo, ma è la nostalgia di un padre_madre che fondino al tempo stesso la dignità di ogni persona, la libertà di tutti, il senso della vita. Ciò di cui c’è insomma soprattutto bisogno davanti all’indifferenza e alla mancanza di passione per la verità dell’epoca in cui ci troviamo è il volto del padre_madre nell’amore: è la nostalgia del Totalmente Altro, di cui Horkheimer e Adorno parlavano prevedendo la crisi delle ideologie. È la nostalgia del Volto nascosto, il bisogno di una patria comune che dia orizzonti di senso senza esercitare violenza. È quanto emerge dall’intera parabola dell’epoca moderna, dal trionfo della ragione illuministica, che tutto voleva abbracciare e spiegare con la sua luce, all’esperienza diffusa della frammentazione e del non-senso, seguita alla caduta degli orizzonti forti dell’ideologia. È il processo che ha caratterizzato il secolo XX, il cosiddetto “secolo breve” (“the Short Twentieth Century”: Eric Hobsbawm) (2) segnato dal trionfo e dalla crisi dell’ottimismo totalitario dei vari modelli ideologici.

La perdurante violenza, gli odi etnici, la cecità dei pregiudizi contro il diverso mostrano come forse troppo presto si sia voluto cantare il “requiem aeternam” delle ideologie e come esse si siano presa la rivincita rispuntando con tutta la virulenza dei loro meccanismi di autogiustificazione e di demonizzazione dell’altro nella sofferenza inflitta a popolazioni inerti, nel genocidio, nella propaganda delle parti contrapposte, nella vendetta terroristica. La metafora della “notte” sembra veramente la meno inadeguata ad esprimere la condizione presente, nonostante il ritorno delle ambizioni ideologiche tese a comprendere tutto col “lume” della ragione. Eppure, paradossalmente, è proprio da questa perdurante e conclamata negazione della fraternità fra gli umani che si leva più forte il grido del bisogno di una fraternità ritrovata, quale solo un padre-madre di tutti può fondare. Si profilano alcuni segnali di attesa: c’è una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere proprio nelle inquietudini del presente come una sorta di ricerca del senso perduto. Non si tratta d’“une recherche du temps perdu”, di un’operazione della nostalgia, ma di uno sforzo per ritrovare il senso al di là del naufragio, per riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di tutto ciò che è penultimo e fondare eticamente la prassi. Si assiste ad una riscoperta dell’altro, constatando che il prossimo, per il solo fatto d’esistere, può essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo senza ritorno dell’impegno d’amore per altri. Il nuovo interesse al più debole, specialmente allo straniero in fuga da situazioni di miseria e povertà d’ogni genere, la crescente coscienza delle esigenze della solidarietà a livello locale e universale, l’urgenza di una globalizzazione solidale, possono profilarsi - pur fra molte contraddizioni - come altrettanti segnali di questa ricerca del senso perduto.

Al tempo stesso, sembra affacciarsi una ritrovata nostalgia del Totalmente Altro, una sorta di riscoperta del sacroGaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore... rispetto ad ogni rinuncia nichilista. Si risveglia un bisogno, che potrebbe definirsi genericamente religioso: bisogno di un orizzonte ultimo, di una patria che non siano quelli manipolanti e violenti dell’ideologia. Nelle forme più diverse si profila un “ritorno del Padre”, quantunque non sempre privo di ambiguità e perfino di nostalgie ideologiche. In realtà, se la crisi del moderno è fine delle presunzioni del soggetto assoluto, i segnali del suo superamento - al di là del nichilismo - vanno tutti in direzione di una riscoperta dell’Altro, che offra ragioni di vita e di speranza. Lo aveva intuito con singolare profondità il Concilio Vaticano II nell’affermare: “Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni future ragioni di vita e di speranza” ((Gaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore...

2. Gli scenari del cuore

a) “Gettati verso la morte” o aperti al Mistero

La domanda che abita al centro del nostro cuore, quella che ci fa inquieti e pensosi, è la domanda dell’infinito dolore del mondo, l’interrogativo ineludibile della morte e della fine di tutto. Se non ci fosse la morte non ci sarebbe neanche il pensiero, tutto sarebbe una piatta eternità, almeno per la nostra limitata capacità di pensare: in questo senso, vivere è anche imparare a morire, educarsi a convivere con la sfida silenziosa, resistente e perseverante della morte. È inutile cercare evasioni o facili consolazioni nella presunzione epicurea di dire: “Quando ci sarà la morte io non ci sarò e finché io ci sono essa non c’è”. Queste parole sono inganno e apparenza, perché la morte non è solo l’ultimo destino o l’ultimo atto, ma è soprattutto una presenza che incombe ogni giorno della vita nella fragilità e nella caducità dell’esistere. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nella povertà, in quanto sono tutti allo stesso modo “gettati” verso la morte, inesorabilmente diretti verso il “vallo estremo”, avvolto dal silenzio. La vita pare risolversi nell’inesorabile viaggio verso le tenebre: perciò la fatica di esistere è impastata di malinconia e la dimora del tempo appare fasciata dall’abisso del nulla. È sulla vertigine del nulla che si affaccia la situa­zione emotiva dell’an­goscia: sospeso sui silenzi della morte, l’essere umano si fa inquieto riguardo al suo destino.

La ripulsa del nulla suscita - come per contraccolpo - la potenza del domandare: l’uomo diventa domanda a se stesso, interrogativo davanti al quale si schiudono ambiguamente i sentieri di ciò che potrà essere o non sarà mai. Fedele compagna della vita si affaccia la domanda - evasa o accettata, nascosta o cercata - che la morte imprime come ferita nel più profondo del cuore umano. È così che il pensiero nasce dalla morte, la coscienza dalla passione di chi non s’arrende al finale trionfo del nulla. La lotta contro la morte si profila nelle domande che nascono nel cuore come ferite lancinanti, spesso improvvise o inattese: che ne sarà di me? che senso ha la mia vita? dove vado con il bagaglio delle mie pene, delle consolazioni e delle gioie? E quando avrò finalmente conquistato ciò che desidero, che cosa ancora potrò desiderare se non l’ultima vittoria, la vittoria sulla morte? Giunti a considerare il fondo verso cui andiamo, proprio da esso ci viene il bisogno di lottare per vincere l’apparente trionfo della morte. Proprio il fatto che la morte ci rende pensosi e che sentiamo il bisogno di dare significato alle opere e ai giorni è il segno che nel profondo del cuore i pellegrini verso la morte sono in realtà chiamati alla vita. Nel profondo del cuore si affaccia un’indistruttibile nostalgia del volto di Qualcuno, che accolga il nostro dolore e le lacrime, che redima l’infinito dolore del tempo. Quando siamo soli o disperati, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o rammaricarci di noi, ecco profilarsi in noi la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati al di là di tutto, nonostante tutto, vincendo l’ultimo nemico che è la morte. È quanto esprime Agostino, aprendo le Confessioni: “Fecisti cor nostrum ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te” - “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.

Nella domanda che ognuno si porta nel più profondo del cuore va dunque profilandosi l’immagine del padre-madre nell’amore, metafora per dire il bisogno di qualcuno cui affidarsi senza riserve, quasi un’àncora, un approdo dove far riposare la nostra stanchezza e il nostro dolore, sicuri di non essere rigettati nell’abisso del nulla. Questo bisogno dell’altro, che sia madre_padre accogliente, quest’attesa profonda, ciascuno può riconoscerla in sé, se solo ha il coraggio di non mascherarsi dietro le proprie presunte grandezze o difese. In quanto tale, la figura del padre-madre nell’amore è il grembo, la patria, l’origine in cui rimettere tutto ciò che noi siamo. Se nel profondo del cuore tutti siamo abitati dall’angoscia della sfida suprema della morte e se questo ci rende pensosi, allora l’immagine paterna-materna dell’amore accogliente è quella che più risponde a ciò di cui tutti abbiamo infinitamente bisogno.

b) Il rifiuto e l’attesa del Padre

Non possiamo allora non chiederci: perché, se questo è vero, sorge in tanti un rifiuto perfino viscerale della figura del padre? perché prima o poi nella vita tutti viviamo un momento di contestazione dell’immagine paterna-materna? Questa palese contraddizione tra il bisogno di un’accoglienza che vinca l’angoscia e il rifiuto di essa, può essere rischiarata dall’analisi del cuore umano: quante volte il rifiuto del padre nasce dal bisogno di affrancarsi da una dipendenza! Quante volte la paternità diventa possessività, schiavitù, dominio! Ecco allora che si profila la condizione drammatica, espressa dalla metafora dell’“assassinio del padre”. L’“assassinio del padre” è una sorta di gesto rituale, un atto volto ad affermare la propria indipendenza e autonomia. Esso è inseparabile dal senso dell’angoscia: se una delle cause profonde dell’angoscia è l’affacciarsi incombente della morte, eliminare la figura del padre_madre che ci accolga vuol dire esporsi ancor più radicalmente all’abbraccio del nulla. È come sperimentare un’infinita orfananza, accendendo di conseguenza ancor più acutamente la nostalgia del padre e della madre accoglienti nell’amore. Ne nasce un comportamento paradossale: da una parte fuggiamo dalla figura paterna-materna per essere liberi e indipendenti come il figliuol prodigo, che sceglie di avere le sue sostanze e gestirsi da solo la vita; dall’altra cresce in noi lo struggente bisogno di qualcuno che ci riveli il volto di un padre_madre nell’amore che non ci faccia sentire schiavi. Veramente abissale è il cuore dell’uomo e lacerante il peso delle sue contraddizioni!

Un padre_madre che ci ami rendendoci liberi è qualcuno che non sia il concorrente della nostra libertà, ma il fondamento di essa, la garanzia ultima della verità e della pace del nostro cuore: qualcuno che sani l’angoscia con la medicina dell’amore, ma sani anche la paura che abbiamo di perdere la nostra libertà facendoci sentire amati in un modo che non crei dipendenze. Di questo padre materno ha bisogno il cuore dell’uomo, assetato di un grembo che avvolga, custodisca e generi instancabilmente alla vita. La scelta che ne consegue è quella urgente e decisiva fra il vivere come pellegrini alla ricerca del Volto nascosto, lasciandoci guidare dalla mano paterna - materna dell’Altro, o il chiuderci nelle nostre paure e nelle nostre solitudini. La vita o è pellegrinaggio o è anticipazione della morte. O è passione, ricerca e quindi inquietudine, o è lasciarsi morire ogni giorno un po’, fuggendo in tutte le evasioni possibili di cui è malata la nostra società, utili per stordirsi e non porsi le domande vere. Occorre prendere una decisione: “Mi alzerò e andrò da mio padre!”. Occorre aprirsi all’ascolto e all’invocazione. È questa la scelta di cui hanno particolare bisogno le donne e gli uomini di quest’epoca post_moderna. Per aiutare i loro compagni di strada a fare questo passo i credenti dovranno essere i primi ad alzarsi e andare verso il Padre, ritornando sempre di nuovo a farsi pellegrini, vincendo la stanchezza e la frustrazione che a volte prende, specie quando sembra che non ci siano risultati. Il credente sa di non essere in questo mondo per vedere i frutti, ma per gettare il seme. Afferma Lutero: “Se anche sapessi che il mondo finirà domani, non esiterei a piantare un seme oggi”. Per chi crede in Dio l’importante non è il raccolto, l’importante è la semina: essa darà i suoi frutti a suo tempo quando e come Dio vorrà. Il no alla frustrazione deve unirsi allora al sì alla passione per la verità che porta a sollevare le vere domande del cuore degli uomini perché cerchino il Volto nascosto, il Volto del padre_madre nell’amore, senso della vita e speranza del mondo...

3. Per il dialogo fra fede e non credenza

Come può la rivelazione, compiutasi in Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, parlare alla crisi prodotta dal tracollo delle false sicurezze dell’ideologia e alla dolorosa assenza di ragioni per sperare in grande, caratteristica del nichilismo post-moderno? Come possono credenti e non credenti incontrarsi e dialogare nella verità a partire dalle sfide degli scenari tracciati? La risposta a queste domande non può non segnalare come ai cristiani, impegnati a vivere ed operare in questo mondo in cambiamento, sia richiesto oggi più che mai di render ragione della speranza che è in loro, con dolcezza e rispetto per tutti (cf. 1 Pt 3,15). Sul piano personale ed ecclesiale ciò esige che essi siano discepoli dell’Unico, servi per amore e testimoni del senso nella sequela del loro Signore. Al tempo stesso, nel rapporto fra fede e non credenza - cui le avventure dell’ateismo moderno e l’inquietudine della post-modernità nichilista rendono particolarmente attenti - ciò richiede il superamento di ogni riduzione del cristianesimo a ideologia e la sincera attenzione all’altro in tutta la sua dignità, qualunque sia la sua convinzione. Si scopre così che l’ateo, il solo ateo che sia possibile concepire con radicale serietà, abita forse proprio nel cuore del credente, perché solo chi crede in Dio e ne ha fatto esperienza come del Padre - Madre accogliente nell’amore, può anche “sapere” che cosa sia la Sua negazione e quale infinito dolore comporti la Sua assenza. Il non credente, insomma, non è fuori di chi crede, ma in lui: e questo determina una peculiare caratterizzazione della stessa vita di fede, vissuta non nella presunzione del possesso, ma nella coscienza dell’umile e sempre nuovo bisogno di mettersi al servizio della verità, e di farlo non con avventure individuali, ma nell’indispensabile comunione della Chiesa dell’amore, suscitata e nutrita dallo Spirito.

a) L’ateismo di chi crede

Il credente è il prigioniero dell’Altro: proprio così egli può portare al pensiero la verità della fede, il lasciarsi far prigionieri dell’invisibile, non immediatamente disponibile e certo. Il credente perciò non ha un pensiero totalizzante, luminoso su tutto, ma vive in una sorta di pensiero notturno, carico di attesa, sospeso tra il primo e l’ultimo avvento, già confortato dalla luce che è venuta nelle tenebre e tuttavia ancora assetato di aurora. Il pensiero della fede, non ancora pienamente illuminato dal giorno che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria, è tuttavia sufficientemente rischiarato per sostenere la fatica di conservare la fede: pensiero umile, appeso alla Croce, che è e resta nella notte del mondo il punto di riferimento del discepolo di Cristo, la stella della redenzione, la rivelazione del Dio accogliente nell’amore. A sua volta, il non credente, che abbia attraversato il guado della modernità, quando è veramente e fino in fondo tale, quando lo è, quindi, non per una semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una medesima condizione di ricerca e di attesa. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che lasci l’uomo come l’ha trovato. La non credenza seria, pensosa, non negligente davanti alle domande vere, è sofferenza, passione di chi paga di persona l’amaro coraggio di non credere.

Non credere in maniera responsabile significa avvertire il lacerante dolore dell’assenza, sperimentando il senso di un’orfananza infinita, di un abbandono totale, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo e nella storia del mondo. Perciò, il non credente pensoso, come il credente non negligente, lotta con Dio. “Mi religion es luchar con Dios”: secondo la confessione di Miguel de Unamuno, il testimone del “sentimiento tragico de la vida”, la religione sta tutta in questo “lottare con Dio”. E poiché, non di meno, “vivir es anhelar la vida eterna”, il vivere è inesorabilmente segnato dalla tragicità di dover sostenere l’impari lotta. È nel rispetto di questa dignità del non credere, emersa in tutta la sua luce dopo l’ubriacatura tragica dell’ateismo ideologico e della sua fine, che il credente è chiamato a interrogarsi sulla sua fede e, nella fede pensata, a trovare gli abissi del non credente che è in lui.

Questa compresenza di fede e non credenza è radicata nella stessa condizione umana: nel più profondo delle sue domande, di fronte all’ineludibile ferita del dolore e della morte, l’uomo non si presenta come qualcuno che sia arrivato alla meta, ma come un cercatore della patria lontana, che si lascia permanentemente interrogare, provocare e sedurre dall’orizzonte ultimo. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno, da cui essere sempre più profondamente posseduti, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha cancellato in se stesso non solo Dio, ma la propria dignità di essere umano. La condizione umana è una condizione esodale: l’uomo è in esodo, chiamato permanentemente a uscire da sé, a interrogarsi, in cerca di una patria, intravista, ma non posseduta, in cerca del Padre - Madre accogliente nell’amore... Se l’uomo è costitutivamente un pellegrino verso la vita, un “mendicante del cielo” (Jacques Maritain), la vera tentazione è per lui quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivato, non più esule in questo mondo, ma possessore, dominatore di un impossibile “istante eterno”. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, è la malattia mortale.

Tutto questo vale analogamente per la via di Dio: anche nella vita della fede la grande tentazione è fermarsi. In quanto il cristiano è chiamato alla sequela della Croce, dove Dio ha parlato nella silenziosa e conturbante eloquenza della passione, egli è posto costantemente davanti alla grande scelta: crocifiggere le proprie attese sulla croce di Cristo o crocifiggere Cristo sulla croce delle proprie attese. Proprio così, la Croce è il vangelo della libertà, come mostra l’esodo di Gesù da sé di scelta in scelta, fino alla consegna dell’estremo abbandono! Nell’esperienza quotidiana della vita, come nel cammino della fede, l’uomo è chiamato alla libertà attraverso il prezzo doloroso della continua, ineludibile scelta, che lo pone sempre sulla soglia, sfiorato dalla vertigine dell’una o dell’altra possibilità radicale...

b) La fede come lotta, scandalo, resa

Nel suo permanente uscire da sé per lottare contro la morte e camminare verso la vita, l’uomo è stato raggiunto dalla Parola che viene dal Silenzio, da quel Dio, cioè, che - secondo la fede cristiana - “ha avuto tempo” per l’uomo. Dio esce dal suo eterno silenzio perché la nostra storia entri nel Silenzio della patria e vi dimori. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento è la fede. Essa è lotta e agonia, non il riposo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, rischia di non credere in nulla. La fede è come l’esperienza di Giacobbe al guado dello Yabbok (cf. Gn 32,23-33): Dio è l’assalitore notturno, l’Altro che viene a te e lotta con te. Se tu non conosci così Dio, se Dio per te non è fuoco divorante, se l’incontro con Lui è per te tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali senza passione d’amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente, ma il Dio morto, il “Deus otiosus”. Perciò Pascal affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa agonia è l’agonia dei cristiani, cioè la lotta di credere, di sperare, di amare, la lotta con Dio! Dio è altro da te, libero rispetto a te, come tu sei altro da Lui e libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di questa distanza e, dunque, di questa sofferenza della non identità! Credere è “cor-dare”, secondo l’ingenua e bella interpretazione dei Medievali, un “dare il cuore” che implica la continua lotta con l’Alterità che non si lascia “risolvere” né “arrestare”. Dio è l’altro da te. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede.

Solo per chi non sa questo è scandalosa la parola del Battista, che al tramonto della vita, evidentemente inquietato dal dubbio, manda a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3). Questa è la prova della fede: lottare con Dio, sapendo che Lui è l’Altro, che sfugge alle nostre certezze e non si lascia addomesticare dalle nostre pretese. Perciò la fede è scandalo: infinite sono le testimonianze di questo scandalo. San Giovanni della Croce lo presenta nella metafora ambivalente della “noche oscura”: “In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! / oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata". (3) La notte oscura è il luogo dello scandalo e il luogo delle nozze: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a se stessi, della notte dei sensi e dello spirito. È lì la gioia più grande! La tenebra è il luogo dell’amore, della fede come lotta e come scandalo: Cristo non è la risposta alle nostre domande. Cristo è anzitutto la sovversione di esse. E solo dopo averci portato nel fuoco della desolazione, egli diviene il Dio delle consolazioni e della pace.

Infine, la fede è resa: quando nella lotta capisci che vince chi perde e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi all’assalitore notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell’incontro, allora la fede si fa abbandono, oblio di sé e gioia della consegna nelle braccia dell’Amato. La fede è affidarsi ciecamente all’Altro. “Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’ Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7. 9). In queste parole di Geremia troviamo una testimonianza fra le più alte della resa della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha saputo conoscere la capitolazione dell’amore al punto da essere pronto a consegnarsi perdutamente a Lui. Così la fede diventa anche un approdo di bellezza e di pace. Non la bellezza che il mondo conosce, la seduzione di una verità totale, che spieghi tutto, ma la bellezza dell’Uomo dei dolori, la bellezza dell’Amore crocifisso, dell’offerta totale di sé al Padre e agli uomini.

Se la fede è tutto questo, se è inseparabilmente lotta, scandalo e resa, allora il credente non cercherà dei segni volgari che esibiscano la fedeltà del Dio in cui crede. Allora crederà in Lui anche quando la risposta alle domande vere del dolore umano resterà custodita nel Suo silenzio. Perciò, il credente è in fondo un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere e il non credente, che soffre dell’infinito dolore dell’assenza di Dio, è forse un credente che ogni giorno di nuovo si sforza di cominciare a non credere. Se il credente non vivesse ogni giorno lo sforzo di cominciare a credere, la sua fede non sarebbe altro che una rassicurazione mondana, una delle ideologie che hanno ingannato il mondo e determinato l’alienazione dell’uomo. Contro ogni ideologia, la fede va concepita e vissuta come un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare: perciò la fede è preghiera, e chi non prega non vivrà di fede! Ma se il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo, il non credente che ha attraversato le avventure della modernità e della sua crisi, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, e cioè la lotta di cominciare a non credere? Non l’ateo banale, ma chi vive la lotta con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce il dolore dell’assenza di Dio, non sarà questi fratello di chi crede?

Da qui derivano alcuni “no” e alcuni “sì” per il dialogo responsabile fra credenti e non credenti: il primo “no” è alla negligenza della fede, ad una fede indolente, statica, abitudinaria, fatta di intolleranza comoda, che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza dell’amore. A questo “no” si congiunge il “sì” ad una fede interrogante, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all’altro, per vivere l’esodo senza ritorno verso il Suo Silenzio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Da quanto detto viene però parimenti il “no” ad ogni ateismo banale, a ogni negazione ideologica di Dio e del mistero santo, come ne deriva il “sì” all’incessante ricerca del Volto nascosto, del Silenzio al di là della Parola, e della Parola crocifissa dove il Silenzio si apre accogliente alla ricerca del cuore. Forse, in questo tempo di penuria di speranze in grande più che mai la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, è allora degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera, e il coraggio di tendere ad essa, fino alla fine, oltre la fine...

Perciò il credente fa sua - anche a nome di chi non crede - la preghiera con cui Sant’Agostino chiude la più bella, la più pensata, forse la più tormentata delle sue opere, i quindici libri De Trinitate: “Signore mio Dio, unica mia speranza, fa’ che stanco non smetta di cercarTi, ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore. Dammi la forza di cercare, Tu che ti sei fatto incontrare, e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarTi. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di Te, che intenda Te, che ami Te!". (4) E, forse, per le stesse ragioni il non credente pensoso avverte il paradossale fascino dell’invocazione, cui non sa sottrarsi: “Concedici, o Signore, i paradisi del nulla, i giardini della tua primavera. Signore che fai della notte un mattino, il mattino che paghiamo con le monete luminose degli astri, astri della notte, guide degli erranti, degli erranti verso l’infinito: cos’è il cielo se non l’infinita via verso il nulla? Che è il nulla se non un ritorno, il tuo ritorno? Che è l’infinito se non un ritorno?". (5) Nell’inquietudine della domanda, la fede di chi crede può incontrarsi con l’invocazione di chi vorrebbe credere: sul fondamento della comune povertà e della comune ricerca, ma anche sull’ascolto dell’altro che abita nel più profondo di ciascuno dei partners dell’incontro, il dialogo fra credenti e non credenti si offre come una sfida fra le più alte ed arricchenti nelle culture segnate dalla non-credenza e dall’indifferenza religiosa, che sono in particolare quelle dell’Europa del nostro tempo postmoderno. Saremo pronti come credenti e come Chiesa a raccogliere questa sfida e a viverla senza paura, con spirito e cuore, fiduciosi nella fedeltà di Dio? Su questa domanda siamo chiamati a misurarci e a operare le scelte del nostro impegno nella sequela del Signore Gesù, come singoli e come Chiesa.

Note

1) M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 11.
2) E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995. 199816.
3) S. Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe 1 e 5: “En una noche oscura, / con ansias, en amores inflamada, / ¡oh dichosa ventura!, / salí sin ser notada, / estando ya mi casa sosegada. / ... / ¡Oh noche que guiaste! / ¡Oh noche amable más que el alborada! / ¡Oh noche que juntaste / Amado con amada / amada en el Amado transformada!”.
4) De Trinitate, 15, 28, 51: PL 42,1098.
5) A. Emo, Le voci delle muse, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, 75.

Pubblicato in Dialoghi
Giovedì, 14 Giugno 2007 01:08

A partire dalla tolleranza (Avery Dulles)

LE RELAZIONI TRA LE RELIGIONI

A partire dalla tolleranza

di Avery Dulles

Le relazioni fra le varie religioni del mondo sono state spesso ostili, e in molti luoghi lo restano tuttora. Prendendo in mano un quotidiano, difficilmente possiamo evitare di imbatterci in articoli su conflitti fra ebrei e musulmani, fra musulmani e indù, fra indù e sikh o fra musulmani e bahai. In un qualche periodo storico ognuna di queste religioni si è scontrata con il cristianesimo. Il cristianesimo, da parte sua, ha ampiamente contribuito a tensioni e conflitti interreligiosi. I cristiani hanno perseguitato gli ebrei e hanno organizzato guerre sante contro i musulmani. In seno al cristianesimo vi sono state guerre micidiali, specialmente fra protestanti e cattolici, ma a volte anche con gli ortodossi. Scontri del genere continuano, ad esempio, in Irlanda del Nord, anche se non sarebbe giusto presentare la Chiesa cattolica come belligerante in questo conflitto, poiché le sue autorità hanno disapprovato la violenza da entrambe le parti.

Dal punto di vista americano, non siamo assolutamente interessati a una guerra contro l’islam. Il nostro paese è ospitale nei riguardi dei musulmani, che costituiscono oltre un milione della sua popolazione. Essi godono di una piena libertà di culto in tutto il Nord America e in tutta l’Europa occidentale. Una nuova crociata non sarebbe sostenuta da nessuna delle grandi potenze dell’Occidente e non avrebbe certamente la benedizione delle autorità religiose cristiane. Il nostro scontro con Osama bin Laden riguarda unicamente la sua politica della violenza, che non sembra accordarsi con i principi fondamentali del vero islam.

Da parte araba, la religione è un elemento presente, ma estremisti musulmani come bin Laden sembrano operare per fini culturali, politici, etnici ed economici più che puramente religiosi. Essi ce l’hanno con il potere degli Stati Uniti e dei loro alleati, che considerano arroganti e brutali. E, più profondamente, provano un senso di ripugnanza verso quella che ritengono essere la cultura dell’Occidente. Non ce l’hanno in primo luogo con il cristianesimo in quanto religione, quanto piuttosto e soprattutto con quella che considerano la perdita della religione in Occidente: il suo eccessivo individualismo, la sua pratica licenziosa della libertà, il suo materialismo, il suo consumismo improntato alla ricerca del piacere e del divertimento. Essi vedono in questa cultura edonistica una minaccia, poiché esercita una forte seduzione su molti giovani delle società tradizionalmente islamiche dell’Asia, dell’Africa e di altri continenti.

Se questa analisi è corretta, la globalizzazione potrebbe essere considerata la causa soggiacente al conflitto in Afghanistan. I moderni mezzi di trasporto e di comunicazione mettono a contatto culture che si sono sviluppate in modo relativamente autonomo nelle varie parti del mondo. L’incontro provoca una sorta di trauma culturale, specialmente in paesi che non sono passati attraverso quel graduale processo di industrializzazione e modernizzazione che è intervenuto in Occidente due secoli fa.

Ora i cristiani del Nord America e dell’Europa occidentale sono abituati ad avere rapporti con ebrei, musulmani, indù, buddhisti e membri di qualsiasi altra religione. Attualmente, in presenza di un’immigrazione su larga scala e di una generalizzata disponibilità dei moderni mezzi di comunicazione, nessuna religione può più pretendere di esercitare il proprio dominio esclusivo su una determinata regione e di proteggere i propri seguaci dal contatto con altre fedi. Piaccia o non piaccia, siamo in genere destinati a vivere in società religiosamente miste, comprendenti persone di varie fedi e anche persone che non praticano alcuna fede.

Perciò, dobbiamo discutere i modi in cui le varie religioni possono relazionarsi fra loro. Vorrei proporre una tipologia comprendente quattro possibili modelli: coercizione, convergenza, pluralismo e tolleranza.

Il primo modello, quello della coercizione, ha predominato nella maggior parte della storia umana. In molte epoche storiche le autorità politiche hanno voluto imporre un’unica religione nei territori sottoposti alla loro giurisdizione e costringere le popolazioni sottomesse ad adottare la religione del conquistatore. Per un certo periodo l’Impero romano ha accettato il pluralismo religioso, ma ben presto gli imperatori hanno cominciato a pretendere per sé onori divini. Così sono giunti a perseguitare quelle religioni, come il cristianesimo, che rifiutavano un tale culto. Quando l’Impero ha adottato il cristianesimo come religione ufficiale, gli imperatori hanno incominciato a imporre l’ortodossia cristiana e a perseguitare tutte le altre religioni, comprese le forme dissidenti del cristianesimo. Il modello di un’unica religione per uno stesso stato è rimasto il modello normativo anche dopo la Riforma e fin nella prima parte dell’epoca moderna. Le terribili guerre e persecuzioni del XVI e XVII secolo sono state in gran parte dovute all’idea che ogni stato doveva avere una sola religione, quella del suo sovrano (cuius regio eius religio).

In questa situazione, le guerre fra gli stati sono diventate spesso, sotto un altro aspetto, guerre fra religioni. Le crociate illustrano molto bene questa realtà. Pur essendo normalmente presentati come aggressori, in realtà gli europei hanno condotto in gran parte un’azione militare difensiva. Gli arabi e i turchi hanno conquistato la Siria, il Nord Africa e ampie aree del territorio europeo, fra cui il Portogallo, la Spagna, la Francia meridionale, regioni dell’Italia e della Svizzera in Occidente e i Balcani, l’attuale Iugoslavia e l’Ungheria in Oriente. L’avanzata delle forze musulmane ha comportato ovviamente la diffusione dell’islam in quanto religione e la loro ritirata ha comportato, il più delle volte, la cristianizzazione forzata dei territori da essi perduti, come si può vedere nel caso della Spagna del XV secolo, che ha espulso tutti gli ebrei e i musulmani che non accettavano di convertirsi al cristianesimo.

Nell’attuale situazione di «villaggio globale» è difficile mantenere il modello della coercizione. In seguito alle sanguinose «guerre di religione», l’Europa e gli Stati Uniti hanno imparato la lezione e si sono resi conto che i costi erano eccessivi. Dal punto di vista della teologia cristiana, il tentativo di convertire le persone con la spada è insostenibile. Protestanti e cattolici hanno imparato che l’adesione alla fede deve essere un atto libero e non imposto. I passati tentativi di costringere le persone a convertirsi sono serviti a screditare la religione e hanno favorito la diffusione dell’indifferentismo e di atteggiamenti a-religiosi.

Senza dubbio esistono ancora nel mondo governanti che cercano di imporre l’uniformità religiosa. Sono vicini molesti e vere minacce alla pace mondiale. Dal punto di vista cristiano, le loro politiche coercitive vanno disapprovate. Ritengo che con il passare del tempo riconosceranno che le loro politiche sono sbagliate. Infatti, come ho detto, dati i moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, diventa molto difficile impedire lo sviluppo di varie comunità religiose in ogni regione del mondo. Anche se alcuni governi autoritari possano contrastare la penetrazione di altre fedi, come avviene attualmente in certe regioni musulmane, induiste e buddhiste, alla fine le barriere saranno sfondate e crolleranno. Presto o tardi le popolazioni che sono state costrette ad adottare la religione dei loro governanti chiederanno la libertà di seguire la propria coscienza e testimoniare le proprie autentiche convinzioni religiose.

Nonostante le battute d’arresto e le ricadute, l’onda della storia ha favorito la libertà religiosa. L’Unione sovietica non è riuscita a imporre la propria ideologia atea per più di settant’anni. La coercizione religiosa sopravvive solo in nazioni che sono giunte molto tardi alla modernità. Essa è promossa da estremisti che avvertono la necessità di ricorrere a misure disperate per salvare la propria concezione teocratica dello stato.

Il secondo modello di relazione fra le religioni è quello della convergenza. Convinti che l’impulso religioso è essenzialmente lo stesso in tutte le persone e in tutti i popoli, certi studiosi affermano che le religioni concordano negli aspetti essenziali e che le loro differenze sono solo esteriori. Negli anni settanta John Hick, fra gli altri, ha affermato che le religioni potevano accordarsi sulla base del teocentrismo e riconoscere che le loro differenze riguardo ai mezzi della salvezza erano culturalmente condizionate. (1) Ma il teocentrismo non è una piattaforma soddisfacente per il dialogo con molte religioni, che sono politeiste, panteiste o atee. Anche le religioni chiaramente teiste, come l’ebraismo, l’islam e il cristianesimo, non vogliono rinunciare alle loro convinzioni riguardo alla via per giungere a Dio, sia essa la legge di Mosé, il Corano o Gesù Cristo.

Perciò, abbandonando l’idea teocentrica della convergenza religiosa, vari studiosi hanno adottato recentemente quello che essi chiamano il modello «soteriocentrico». (2) Essi affermano che tutte le religioni concordano sul fatto che lo scopo della religione è dare la salvezza o la liberazione, che esse intendono in modi diversi, probabilmente a causa della varietà delle culture. E ritengono che mediante il dialogo sulla liberazione le religioni potrebbero superare le loro reciproche divisioni.

Queste teorie della convergenza partono dal presupposto che tutte le religioni, perlomeno nei tratti che le differenziano, sono costruzioni umane, incerti tentativi di esprimere il mistero sacro e trascendente che circonda l’esistenza umana. Ma questa teoria contraddice l’insegnamento ufficiale e l’identità storica delle religioni e incontra delle resistenze da parte delle persone autenticamente religiose, le quali affermano che la loro fede specifica è vera, anzi divinamente rivelata. I cristiani ritengono che dottrine centrali della loro fede, come la Trinità e l’Incarnazione, fanno parte della rivelazione e non possono essere sacrificate per conseguire una qualche ipotetica riconciliazione. Gli ebrei aderiscono appassionatamente alla legge di Mosé e alla tradizione rabbinica. I musulmani, da parte loro, considerano il Corano la rivelazione definitiva di Dio e vedono in Mohammed il maggiore e l’ultimo dei profeti. La soteriologia è un fattore di divisione, perché le religioni sono fortemente discordi sulla via della salvezza. Perciò, come rimedio alla disunione il soteriocentrismo non promette nulla di più del teocentrismo.

Il terzo modello d’incontro religioso è quello del pluralismo. Con questo termine non mi riferisco solo alla molteplicità delle religioni, ma all’idea che essa rappresenti una benedizione. Si afferma che ogni religione riflette determinati aspetti del divino. Questi aspetti sono tutti parzialmente veri, ma hanno bisogno di essere integrati e controbilanciati dagli elementi di verità che si trovano nelle altre religioni. La coesistenza di tutte le religioni cancella gli errori e supera i limiti di ciascuna di esse presa singolarmente. Come affermava nel IV secolo il retore Simmaco nella sua discussione con sant’Ambrogio: «È impossibile che ci si possa avvicinare a un mistero così grande percorrendo una sola strada». (3)

Questo approccio esercita un certo fascino sui relativisti, i quali affermano che la mente umana non può raggiungere la verità oggettiva e che la religione è espressione di sentimenti puramente soggettivi. Ma esso non convince i credenti ortodossi, i quali sostengono che le dottrine della propria religione sono oggettivamente e universalmente vere. Il cristianesimo sta e cade con l’affermazione che vi sono realmente tre persone in Dio e che la seconda, il Figlio eterno, si è incarnata in Gesù Cristo. I cristiani non hanno difficoltà a riconoscere l’esistenza di elementi di verità e di bontà in altre religioni, ma non smettono di insistere sulla necessità di trasmettere a tutti i popoli la rivelazione di Dio in Cristo. Allo stesso modo, gli ebrei e i musulmani impegnati considerano le loro religioni come divinamente rivelate e rifiutano ogni tentativo di porre tutte le religioni sullo stesso piano.

Naturalmente, questa risposta negativa non significa che i seguaci delle diverse religioni non abbiano nulla da imparare gli uni dagli altri. Il cristianesimo si è sviluppato lungo i secoli entrando in contatto con una grande varietà di filosofie e di religioni, che hanno permesso ai cristiani di scoprire nella loro fede implicazioni che altrimenti non avrebbero riconosciuto. Il cristianesimo cresce come un organismo che assume il cibo dall’ambiente in cui vive e lo assimila in se stesso. Non ammette la validità di dottrine e pratiche che contraddicono la sua auto-comprensione. Come vedremo fra poco, il dialogo può accrescere il reciproco rispetto delle diverse religioni, ma l’esperienza non offre alcun motivo per ritenere che esso induca a concludere che tutte le religioni sono ugualmente buone e vere. Sui punti in cui si contraddicono a vicenda, perlomeno una di esse deve essere errata.

E veniamo alla quarta opzione, quella che io chiamo della tolleranza. Tolleranza non equivale ad approvazione, anche se in genere comprende un qualche grado di approvazione. Noi tolleriamo cose che non riteniamo nemmeno accettabili, perché non riusciamo a eliminarle o perché la loro soppressione sarebbe in se stessa un male. Nel XVIII secolo, il principio della tolleranza – come viene espresso, ad esempio, da John Locke nella sua famosa Lettera sulla tolleranza – è stato generalmente accettato in molti paesi dell’Europa occidentale.

Quel principio ha giocato un ruolo fondamentale nell’esperimento americano della libertà ordinata. Nel nostro paese abbiamo avuto fin dall’inizio una grande varietà di denominazioni cristiane che si consideravano reciprocamente nell’errore. L’ordinamento politico americano non ha richiesto loro di approvare le reciproche dottrine e pratiche, ma ha preteso che rinunciassero a ogni iniziativa volta a costringere i membri di altre denominazioni a concordare con esse. Nel corso del tempo la scena religiosa è diventata sempre più varia. Oggi, essa contiene un numero molto maggiore di varietà di cristianesimo rispetto a quelle che erano presenti all’inizio. Inoltre, il paese ha accolto sulle sue coste moltissimi ebrei, musulmani, buddhisti e indù. E tuttavia, a parte qualche rara eccezione, tutti questi gruppi religiosi vivono pacificamente insieme, senza interferire nella dottrina, nella vita e nel culto degli altri. L’esperimento americano ha funzionato abbastanza bene, per cui può rappresentare un possibile modello per la comunità internazionale, che in questi tempi sta sperimentando le doglie del parto.

Anche se il termine «tolleranza» non ricorre molto nell’insegnamento ufficiale cattolico nel corso degli ultimi cinquant’anni, questo quarto modello è, a mio avviso, quello che corrisponde meglio alla dottrina del magistero. Nel 1953, in un importante discorso, Pio XII ha affermato che nella comunità mondiale che allora stava nascendo, la Chiesa cattolica non pretendeva di avere un posto privilegiato o di essere riconosciuta come religione istituita. Essa chiedeva unicamente che alle varie religioni fosse concessa la piena libertà di insegnare le proprie convinzioni e praticare la propria fede. (4) Nella dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane e nella Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, il concilio Vaticano II ha assunto questo modello come un modello adatto ai singoli stati-nazione.

Il concilio Vaticano II rinuncia espressamente al ricorso a ogni sorta di coercizione, sia essa fisica o morale, affinché altri entrino nella Chiesa cattolica. Esso insegna che si deve riconoscere e rispettare la libertà religiosa di tutti i cittadini e di tutte le comunità religiose, anche là dove l’ordinamento giuridico attribuisce uno speciale riconoscimento a una determinata religione (cf. Dignitatis humanae, n. 6; EV 1/1060). Per la pace della società civile e per l’integrità delle stesse religioni è essenziale promuovere un clima di reciproca tolleranza e reciproco rispetto.

A volte il concilio Vaticano II è stato frainteso, ritenendo che esso avesse adottato il modello pluralistico e rinunciato alle pretese esclusive del cristianesimo. (5) In realtà, il concilio ha insistito sull’unica verità della fede cattolica e sul dovere di tutti di cercare la vera religione e abbracciarla una volta trovata (cf. Dignitatis humanae, n. 1; EV 1/1043).

Il concilio Vaticano II ha proclamato una cristologia molto elevata. Ha insegnato che Dio ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo intero (cf. Lumen gentium, n. 17; EV 1/327) e che egli è «il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (Gaudium et spes, n. 45; EV 1/1464). Il Concilio cita Paolo, secondo cui il disegno dell’amore di Dio è quello di «ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra» (Gaudium et spes, n. 45, che cita Ef 1,10; EV 1/1464).

In base alla sua alta cristologia, il concilio Vaticano II si è premurato di insistere sull’unica mediazione di Cristo e di sottolineare l’importanza permanente dell’attività missionaria. Riconoscendo in Cristo il redentore del mondo, il Concilio ha invitato i cristiani a diffondere il più ampiamente possibile il Vangelo. Non conoscere il Vangelo o negarlo equivarrebbe a trascurare o rifiutare il maggiore dono fatto da Dio all’umanità. Mediante il suo dinamismo interno, la Chiesa tende a diffondersi e ad accogliere nel suo grembo membri di ogni razza e nazione. Il decreto Ad genteshanno bisogno di Cristo, modello, maestro, liberatore, salvatore, vivificatore» (n. 8; EV 1/1107). sull’attività missionaria afferma che, avendo peccato ed essendo sprovvisti della gloria di Dio, tutti gli esseri umani «

Riguardo alle religioni non cristiane, il Concilio insegna che esse spesso contengono «semi del Verbo» e «raggi di quella divina verità che illumina ogni uomo», ma non insegna che queste religioni sono rivelate o che sono vie di salvezza o che possono essere accettabili alternative al cristianesimo. Naturalmente l’ebraismo detiene un posto speciale fra le religioni non cristiane, poiché la fede di Israele è il fondamento sul quale poggia il cristianesimo (cf. Nostra aetate, n. 4; EV 1/861ss). La Bibbia ebraica conserva un valore perenne in quanto parola di Dio divinamente ispirata e rivelazione di Dio al popolo eletto prima della venuta di Cristo (cf. Dei verbum, n. 14; EV 1/895).

Il Concilio è ben lungi dall’insegnare che le altre religioni sono prive di errori. Esso dichiara che «molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cf. Rm 1,21.25)... Perciò, per promuovere la gloria di Dio e la salvezza di tutti costoro, la Chiesa, memore del comando del Signore che dice: «Predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,16), promuove con ogni cura le missioni» (Lumen gentium, n. 16; EV 1/326).

L’evangelizzazione, secondo l’Ad gentes, purifica i riti e le culture dei popoli «dalle scorie del male e [li] restituisce al suo autore, Cristo, che rovescia il regno del demonio e allontana la multiforme malizia del peccato» (n. 9; EV 1/1109). Queste espressioni significano che le altre religioni non sono assolutamente sostituti adeguati del cristianesimo. Ciò implica che sotto certi aspetti esse possono ostacolare la salvezza dei loro seguaci. In questa misura l’atteggiamento del Concilio nei loro riguardi è un atteggiamento che comporta approvazione limitata e tolleranza.

A volte si pretende che le convinzioni assolute, come ad esempio le affermazioni avanzate dalle sacre Scritture e dai concili a proposito di Gesù Cristo, generino oppressione e violenza. Credo che sia vero il contrario. I leader del movimento antischiavista del XIX secolo e del movimento dei diritti civili del XX secolo, nonché i grandi fautori della non violenza, sono stati generalmente uomini e donne dotati di una forte convinzione religiosa.

Chi non riconosce alcun assoluto morale non dispone di basi abbastanza solide per difendere i diritti umani e la dignità umana. Chi non sa con certezza se la soppressione di una vita innocente sia o meno incondizionatamente vietata, potrà addurre solo deboli motivazioni contro il genocidio e contro la massiccia strage di innocenti che avviene in tutto il mondo nelle cliniche in cui si pratica l’aborto. Ovviamente, è possibile che certe persone che si oppongono all’aborto possano, orientandosi in modo fuorviato, uccidere coloro che praticano l’aborto, ma casi del genere sono rari, e violano anch’essi i principi etici cattolici che vietano agli individui di farsi giustizia da soli.

I cristiani sono tolleranti nei riguardi delle altre religioni, non nonostante la loro assoluta certezza della rivelazione, ma in parte proprio a causa di essa. La rivelazione li assicura che Dio ha creato gli esseri umani a sua immagine come soggetti liberi e responsabili. Essa insegna anche che la fede è per sua natura un atto libero. La Dignitatis humanae afferma chiaramente che i cristiani devono rispettare il diritto e il dovere di tutte le persone di cercare la verità in campo religioso e di aderirvi una volta trovata. Ai credenti deve essere consentito di professare e praticare la propria religione, a patto che, così facendo, non contravvengano alle esigenze di un giusto ordine pubblico.

L’atteggiamento della tolleranza e dell’approvazione limitata, quando è reciproco, apre la strada a varie strategie che possono condurre a una coesistenza pacifica e amichevole. Vorrei ricordare, anzitutto, la strada della conoscenza. Normalmente i vari gruppi religiosi provano un sano stimolo a cercare di conoscere gli altri, incontrandosi nella vita reale e informandosi accuratamente gli uni sugli altri mediante lo studio e la lettura. In una società multireligiosa le persone dovrebbero essere educate non solo nella loro fede, ma anche, in qualche misura, nella fede delle persone con cui dovranno interagire. Tutti dovrebbero guardarsi da caricature basate sul pregiudizio e sull’ignoranza.

In secondo luogo, i gruppi possono impegnarsi insieme in alcuni programmi basati su un comune riconoscimento di valori morali fondamentali. Persone appartenenti a fedi diverse hanno delle opportunità di lavorare insieme su obiettivi quali la difesa della famiglia, i diritti dei migranti e dei rifugiati, la diminuzione della povertà e della fame, la prevenzione e la cura delle malattie, la promozione della pace a livello nazionale e internazionale, la tutela dell’ambiente. A causa della loro autorità sulla coscienza dei fedeli, i gruppi religiosi possono offrire forti motivazioni a sostegno di riforme in prospettiva umanitaria.

In terzo luogo, i gruppi possono testimoniare insieme le comuni convinzioni religiose e morali. Molte religioni concordano sull’importanza della preghiera e del culto. Esse incoraggiano la ricerca della santità e combattono contro vizi socialmente dannosi, quali l’ira, il furto, la disonestà, la promiscuità sessuale e l’alcolismo. In una società minacciata dall’egoismo e dall’edonismo, le voci concordi dei leader religiosi possono offrire un importante contribuito all’elevazione del livello della pubblica moralità.

In quarto luogo, in certe occasioni i vari gruppi possono pregare insieme e organizzare celebrazioni interreligiose. Due emblematiche espressioni di questa forma di approvazione limitata sono state le giornate di preghiera per la pace convocate dal papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 1993. Dopo i terribili avvenimenti dell’11 settembre 2001 si sono tenuti a New York e in altre città molti incontri interreligiosi basati sulla preghiera e sulla riflessione silenziosa.

In quinto luogo, una necessità molto importante, spesso sottolineata dal papa Giovanni Paolo II, è quella della guarigione delle memorie. Basandosi fortemente sulla tradizione, la religione perpetua le esperienze passate della comunità di fede, compresi i suoi momenti di gloria, di sofferenza e di umiliazione. Le ferite inferte anche in un lontano o lontanissimo passato continuano a bruciare e ad alimentare l’ostilità. Se non si affrontano onestamente, le radici del risentimento avvelenano l’atmosfera, per cui si incolpano ingiustamente uomini e donne dei nostri giorni delle malefatte reali o immaginarie dei loro antenati. Per ristabilire l’amicizia, le comunità dovrebbero ripudiare i comportamenti attribuiti ai loro predecessori. È opportuno che esse chiedano perdono per ciò che possono aver fatto i loro predecessori e offrano perdono per le colpe che hanno patito le loro stesse comunità. Giovanni Paolo II ha coraggiosamente imboccato questa strada nei suoi rapporti con altre Chiese cristiane, con gli ebrei e con i musulmani. Queste espressioni di pentimento e di perdono sono un’importante azione interreligiosa.

In sesto luogo, a partire dal concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha posto un forte accento sul dialogo teologico. Paolo VI ha istituito un segretariato speciale, che è diventato poi il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. (6) In questi dialoghi le parti si chiariscono reciprocamente le loro credenze, esplorano strade che permettano di poter vivere amichevolmente insieme, si arricchiscono con le reciproche concezioni e si sforzano di ridurre i disaccordi cercando elementi di convergenza. Questi dialoghi si sono dimostrati molto fruttuosi per il miglioramento delle relazioni fra le varie comunioni cristiane. Essi possono essere molto fruttuosi anche nel campo delle relazioni interreligiose.

Ma per quanto prezioso, il dialogo non è una panacea. Non ci si può aspettare di superare tutti i disaccordi. Dopo aver raggiunto concezioni condivise e aver stabilito delle convergenze, in genere le parti riconoscono che non è possibile raggiungere la piena unità mediante il solo dialogo. Le religioni sono saldamente ancorate a posizioni contrastanti, che non possono abbandonare senza sacrificare la propria identità. Anche se indubbiamente i cristiani possono sperare che i loro partner nel dialogo giungano a riconoscere Cristo come il salvatore del mondo, un tale risultato oltrepassa le attese e gli orizzonti del dialogo in quanto tale. Il dialogo è finalizzato a raggiungere gli accordi che le parti possono concludere nel quadro dei loro specifici impegni religiosi.

A volte si è affermato che il dialogo è un segno di debolezza, poiché implica incertezza circa l’adeguatezza delle proprie posizioni. A mio avviso, il dialogo è invece un segno di forza. Occorre molta sicurezza di sé per ascoltare pazientemente gli altri quando ci dicono perché pensano che abbiamo torto. È facile comprendere il motivo per cui i gruppi che non hanno riflettuto in profondità sulle motivazioni delle proprie credenze rifuggono da un dialogo per il quale non sono preparati.

Abusando del dialogo si possono fare certamente dei danni. Un errore sarebbe quello di trasformarlo in un’occasione di proselitismo, cercando di convertire alla propria fede i partner del dialogo. In questo modo si stravolgerebbe lo scopo del dialogo, che differisce dalla predicazione missionaria. L’errore opposto sarebbe quello di nascondere o rinunciare alle convinzioni del gruppo al quale si appartiene, suscitando così false attese. Naturalmente i partecipanti al dialogo non sono autorizzati a cambiare le dottrine delle loro comunità religiose.

Ma, condotto giustamente, il dialogo è una delle strade più promettenti per un crescente incontro fra le grandi religioni. Non bisogna cominciare dai temi più sensibili e discussi. In genere le parti faranno bene a cominciare dai temi sui quali si può sperare di raggiungere un buon livello di consenso. Nell’enciclica Ecclesiam suam Paolo VI suggeriva di scegliere come temi di conversazione (colloquium) interreligiosa ideali comuni, quali la libertà religiosa, la fratellanza umana, la buona cultura, la beneficenza sociale e l’ordinamento civile. (7)

È possibile dialogare anche su temi più direttamente religiosi, come ad esempio il valore della preghiera e la natura dell’esperienza mistica, che sembrano presentarsi in forme analoghe in varie tradizioni religiose. (8) Si potrebbero immaginare dialoghi molto fruttuosi sulla sofferenza e la felicità, la vita e la morte, la parola e il silenzio. Per i partecipanti il risultato più importante di questi incontri sarà quello di riuscire a conoscersi e a rispettarsi vicendevolmente. L’amicizia fra rappresentanti qualificati delle varie religioni può facilitare il superamento delle ostilità accumulate e a ristabilire la fiducia.

All’inizio del terzo millennio, il dialogo interreligioso non è un lusso. Insieme alle altre cinque strategie che ho raccomandato, esso può essere necessario per prevenire disastrose collisioni fra i principali gruppi religiosi.

Nella crisi attuale, le religioni hanno una grande opportunità di passi oltre l’ostilità e la violenza fra i popoli e promuovere la stima reciproca e una cordiale cooperazione. Ma la posta in gioco è alta. Se le varie comunità religiose rifiutano di adottare programmi di tolleranza e di impegnarsi in un dialogo rispettoso, si corre il grave rischio di ricadere nelle reciproche recriminazioni e nell’odio. Allora si abuserebbe ancora una volta della religione, come è avvenuto già tante volte in passato, per giustificare il conflitto e lo spargimento di sangue. Come ha affermato Giovanni Paolo II in relazione agli avvenimenti dell’11 settembre, «non dobbiamo permettere che ciò che è avvenuto approfondisca le divisioni. La religione non deve essere mai usata come una ragione per il conflitto». (9) I seguaci delle religioni devono essere in prima fila nella costruzione di un mondo nel quale tutti i popoli possano vivere insieme in pace e fratellanza.


Note

1) J. Hick, God and the Universe of Faiths, St. Martin Press, New York 1973; God has Many Names, Macmillan, London 1980. Una buona presentazione della posizione di Hick si trova in P.F. Knitter, No Other Name?, Orbis, Maryknoll (NY) 1985, 146-52 (ed. it. Nessun altro nome?, Queriniana, Brescia 1991).

2) Questa visione è espressa in P.F. Knitter, «Towards a Liberation Theology of Religions», in J. Hick, P.F. Knitter, The Myth of Christian Uniqueness: Towards a Pluralistic Theology of Religions, Orbis, Maryknoll (NY) 1987, 178-200 (ed. it. L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Cittadella, Assisi 1994).

3) Cf. A. Toynbee, Christianity among the Religions of the World, Scribner’s, 1957, 112.

4) Pio XII, allocuzione Ci riesce: AAS 45 (1953), 794-802, specialmente 797.

5) Nell’estate del 2000 la Congregazione per la dottrina della fede ha risposto a questo fraintendimento del concilio Vaticano II nella Dominus Iesus, una dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, Regno-doc. 17,2000,529ss.

6) Il card. Francis Arinze, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, ha pubblicato un piccolo ma prezioso volume intitolato Meeting Other Believers: The Risks and Rewards of Interreligious Dialogue, Our Sunday Visitor, Huntington Ind., 1997.

7) Paolo VI, Ecclesiam suam, 6.8.1964, n. 112; EE 7/819.

8) Autori come Bede Griffiths e Thomas Merton hanno descritto il modo in cui l’esperienza della preghiera mistica può essere un vincolo d’unione fra i membri delle diverse comunità religiose.

9) Parole pronunciate da Giovanni Paolo II il 23 settembre 2001 in Kazakistan.

Pubblicato in Dialoghi

Nel magistero post-conciliare

Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Il suo spirito aleggia sui nostri giorni

di Paolo Gamberini


Le affermazioni della dichiarazione non furono per nulla scontate. E si può riscontrare una certa “dialettica” tra i documenti del Concilio. Il magistero tuttavia non ebbe tentennamenti e continuò la strada aperta dal documento. Alla luce degli ultimi avvenimenti, vediamo quanto ciò sia stato importante.

Il concilio Vaticano Il ha avviato un diverso modo di comprendere la Chiesa: non più in termini esclusivi, ma in dialogo nei confronti del mondo. In particolare, la dichiarazione conciliare Nostra aetate ha segnato l’inizio di un diverso approccio con i non cristiani. Benché il documento fosse stato pensato originariamente per ridefinire le relazioni con gli ebrei, si comprese subito la necessità di estenderlo alle altre religioni, in particolare all’islam.

A questo riguardo Paolo VI istituì due speciali commissioni, connesse ai due segretariati creati all’indomani del Concilio: una per le relazioni con l’ebraismo, collegata all’allora Segretariato per l’unità dei cristiani (ora Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani) e una per le relazioni con l’islam, connessa all’allora Segretariato per i non cristiani, il quale nel 1988 assunse il nome di Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, per sottolineare l’apertura dialogica della Chiesa cattolica nei confronti delle altre religioni.

Tensione dialettica

Secondo lo spirito della dichiarazione, «la Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (2): anche in esse è possibile non solo cercare sinceramente, ma incontrare veramente Dio. Va tenuto presente, però, che nei vari documenti del Concilio permane pur sempre una certa tensione. Se da un lato le varie religioni «non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (2), da un altro lato si afferma che questa Verità è il Cristo «via, verità e vita» (Gv 14,6). Non solo. Per la dichiarazione Dignitatis humanae: «L’unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica» (1).

La prospettiva ermeneutica, adottata dai vari documenti conciliari, lascia aperta la dialettica tra l’apprezzamento delle altre esperienze religiose e il riconoscimento della novità insuperabile di Cristo. Il Concilio comprende questa tensione secondo lo schema dei cerchi concentrici. Al centro c’è Cristo e il suo Corpo, cioè la Chiesa cattolica: della pienezza salvifica di Cristo e del suo Corpo in vari gradi partecipano le altre Chiese e le altre religioni (cf Lumen gentium 16): tutti sono ordinati al popolo di Dio e orientati alla Verità di Cristo.

Questa prospettiva ermeneutica, e la tensione che essa implica nella relazione con le altre religioni, è presente anche nei vari documenti del magistero postconciliare. Tra i testi più significativi ricordiamo: il documento del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso L’atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni, riflessioni e orientamenti di Dialogo e Missione (1984), l’enciclica Redemptoris missio (RM) di Giovanni Paolo II (1991), il documento Dialogo e Annuncio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (1991), il documento Cristianesimo e religioni della Commissione teologica internazionale (1997), la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus (2000).

In questi vari testi del post-concilio la Chiesa cattolica cerca di articolare ulteriormente la tensione cui prima si accennava. Centrale è l’affermazione della Redemptoris missio che comprende le altre religioni come mediazioni parziali dell’unica mediazione insuperabile di Cristo (5 e 29). Le altre religioni (con i loro riti e testi sacri), pur non avendo in sé stesse efficacia salvifica, possono essere mezzi di salvezza per la grazia di Cristo. Questo è un punto fermo del magistero postconciliare, che vuole appunto conciliare l’unicità e l’universalità di Gesù Cristo con la presenza dei semi del Verbo e dell’azione dello Spirito di Dio nelle altre religioni: infatti, il credente delle altre religioni non è salvato individualmente dalla grazia di Cristo, ma attraverso l’appartenenza alla propria tradizione religiosa (RM 28).

Dialogo e annuncio è certamente il testo “più aperto” tra quelli del post-concilio. Questo documento fonda il valore positivo delle altre religioni non tanto sulla dimensione antropologica (la ricerca religiosa dell’uomo) quanto sulla dimensione teologica: «I cristiani non devono dimenticare che Dio si è anche manifestato in qualche modo ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza sono chiamati a considerare le convinzioni e i valori degli altri con apertura» (48). Questa manifestazione di Dio nelle altre religioni, benché sia parziale e misteriosa, costituisce il fondamento per il dialogo interreligioso.

Eventi vicini a noi

Si risente fortemente qui l’eco dell’evento di Assisi del 27.10.1986. A commento di questa intensa esperienza interreligiosa e spirituale, Giovanni Paolo Il affermò che «ogni preghiera autentica è mossa dallo Spirito Santo». In varie occasioni papa Wojtyla ha manifestato con gesti profetici la volontà di proseguire sul cammino inaugurato dalla Nostra aetate: convocando un’assemblea interreligiosa in Vaticano (28.10.1999), visitando la moschea degli Omayyadi a Damasco (6.5.2001), indicendo un giorno di preghiera e di digiuno al termine del Ramadan all’indomani dell’atto terroristico alle Twin Towers (14.12.2001) e invitando per una seconda volta ad Assisi i rappresentati delle varie religioni a pregare per la pace (24.1.2002). Senza l’operato di Giovanni Paolo Il non si sarebbe così chiaramente affermato lo spirito della Nostra aetate nella Chiesa del post-concilio.

Anche Benedetto XVI ha riaffermato più volte l’eredità lasciatagli dal suo predecessore: Commovente è stato l’incontro con la comunità ebraica e musulmana a Colonia in occasione della Giornata mondiale della gioventù (18 e 20.8.2005) e la visita ad Auschwitz durante il viaggio apostolico in Polonia (28.5.2006). Le dure reazioni islamiche ad alcuni passaggi del discorso tenuto dal Papa all’università di Ratisbona in Germania (12.9.2006) e le precisazioni del Vaticano, hanno permesso di chiarire ulteriormente la posizione ufficiale della Chiesa cattolica in merito al dialogo interreligioso, e in particolare con l’islam. Il Papa intende incoraggiare un dialogo franco e sincero con le altre religioni, purché sia fatto con grande rispetto reciproco, nel chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza.

Il discorso di Ratisbona, incentrato sul rapporto tra logos (ragione) e religione, e l’intenzione di accorpare il Pontificio consiglio del dialogo interreligioso con quella per la cultura, nominando il cardinale Paul Poupard presidente di ambedue i consigli, rivelano la strategia di Benedetto XVI per il prosieguo di questo dialogo interreligioso: contraddistinta sia dalla condivisione di una ragione comune aperta al trascendente, che dalla comune esperienza di Dio presente nelle varie religioni.

Il gesto inizialmente non previsto, e che si è rivelato assai significativo, di sostare in preghiera nella Moschea blu, durante il pellegrinaggio in Turchia (28.11-1.12.2006), ha evidenziato come il Papa di Roma e il Gran Muftì dì Istanbul credono nell’unico Dio, pur comprendendolo in maniera differente. Già nel secolo XI papa Gregorio VII, rivolgendosi all’emiro Hammadid an-Nasir, gli ricordava che «tu e noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, e quotidianamente lodiamo e veneriamo Lui, come Creatore dei mondi e Sovrano di questo mondo».

* docente alla Pontificia facoltà teologica di Napoli, sez. San Luigi

(da Vita pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, “Dialogo e annuncio”, in Il Regno Documenti, 36, 1991, pp. 464-477 Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Jesus, EDB 2000, Bologna, Commissione teologica internazionale, “Il cristianesimo e le religioni”, in La civiltà cattolica 1997/I pp. 146 183 Cozzi A , “Le religioni nel Magistero post-conciliare Problemi ermeneutici”, in Teologia, 28 (2002), pp. 267-309; Coda P.. (ed,), L’unico e i molti, la salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, Mursia-PUL 1997, Roma.

Pubblicato in Dialoghi

Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Mutua conoscenza e stima tra le religioni

di Dario Vitali *

La dichiarazione ebbe un cammino tormentato e quattro redazioni. E’ ormai assodato che fu papa Giovanni XXIII a volere una rivisitazione del rapporto con gli ebrei. Da qui al riconoscimento del valore delle altre religioni il passo fu obbligato. Attualissime le brevi affermazioni sul dimenticare il passato e la mutua comprensione con i musulmani.

Parlare della Nostra aetate è toccare uno dei temi più delicati e sensibili del discorso teologico, che hanno suscitato un dibattito aspro e appassionato al Concilio, in aula e fuori. Si tratta, infatti, di una delle tre dichiarazioni (accanto alla Gravissimum educationis sull’educazione cristiana e alla Dignitatis humanae sulla libertà religiosa) che ha conosciuto un percorso tormentato prima di giungere alla sua definitiva promulgazione, il 28.10.1965.

La redazione definitiva

Nella sua redazione definitiva il testo si presenta in cinque numeri, che affrontano il tema delicatissimo delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane a partire da una prospettiva universalistica (2) per terminare, dopo un breve accenno alla religione musulmana (3), alla relazione con l’ebraismo (4), inquadrate in un’introduzione che fissa i motivi della dichiarazione, e in un numero conclusivo sulla fraternità universale.

Chiarissima l’intenzione, espressa anche nel titolo, tutt’altro che occasionale: «Nel nostro tempo, in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». Il motivo è certamente contestuale: il progresso tecnologico e lo sviluppo economico hanno portato a un’interdipendenza tra i popoli che ha moltiplicato anche i punti di contatto tra le religioni. E però il fenomeno contestuale ha fatto emergere una ragione più profonda di questo necessario avvicinamento alle altre religioni, certamente non praticato in precedenza, quando le società erano sistemi chiusi: «Nel suo dovere di favorire l’unità e la carità tra gli uomini, anzi tra i popoli, essa esamina qui per prima cosa quello che gli uomini hanno in comune e che li spinge all’alleanza».

E’ questa la cornice in cui viene inscritto l’accostamento della Chiesa alle religioni non-cristiane, dal momento ché la dichiarazione si conclude con il rimando alla fraternità universale. Nell’introduzione, infatti, si dice che «tutti i popoli costituiscono una sola comunità», avendo in Dio la loro unica origine e il loro fine ultimo; questo fatto fonda la condanna finale di «qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza o di colore, di casta o di religione», e l’esortazione ai cristiani «perché “la loro condotta tra i pagani sia irreprensibile” (1Pt 2,12) e se possibile, per quanto questo dipende da loro, vivano in pace con tutti, per essere realmente figli del Padre celeste».

All’interno di questa grande inclusione, la ,dichiarazione affronta il rapporto della Chiesa con le religioni non cristiane. La presentazione avviene secondo un movimento per cerchi concentrici sempre più circoscritti, in una specie di restringimento progressivo dell’obiettivo che fissa il rapporto della Chiesa con le religioni secondo un criterio di prossimità progressiva.

Il primo rapporto, illustrato al n. 2, è con le religioni che si possono ricollegare al senso religioso dell’uomo. Sotto questa caratterizzazione vengono elencati l’induismo, il buddismo e «le a!tre religioni che si trovano nel mondo intero, [le quali] si sforzano di superare in vari modi l’inquietudine del cuore umano, proponendo delle vie, cioè delle dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri».

«La Chiesa cattolica», afferma la dichiarazione, «non rigetta nulla di quanto c’è di vero e di santo in queste religioni», anzi guarda «con sincero rispetto a quei sistemi di agire e di vivere, a quei precetti e a quelle dottrine che, sebbene differiscano in molti punti da ciò che essa crede e propone, tuttavia non di rado riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini», e invita i suoi figli perché «riconoscano, conservino e promuovano quei beni spirituali e morali e quei valori socio-culturali che in essi si trovano». Senza che questo possa mai precludere l’annuncio di Cristo, «nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa».

Il passaggio successivo, scarno fin quasi alla laconicità, asserisce che «la Chiesa guarda con stima anche i musulmani», e cerca in quella religione i punti di contatto con la fede cristiana: la fede nell’unico Dio, il fatto che egli si sia rivelato, la storia della salvezza, la venerazione di Gesù come profeta, l’onore reso a Maria, la vita morale, il giudizio finale. Si. percepisce un discorso ancora embrionale, dovuto all’evidente difficoltà di coniugare due sistemi per secoli estranei e anche antagonisti.

E, tuttavia, la dichiarazione formula una presa di posizione che oggi suona profetica: «Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (3).

Sui giudei

Ma il rapporto a cui la dichiarazione si applica con più cura, con un testo assai denso e articolato che da solo è più ampio dei due numeri precedenti messi insieme, è quello «con la stirpe di Abramo» (4). Mentre il riferimento alle altre religioni appare come l’accostamento di due mondi diversi, qui il testo conciliare si apre con un «mysterium ecclesiae perscrutans», che rivela come «il vincolo» tra il popolo del Nuovo Testamento e la stirpe di Abramo è costitutivo della natura stessa della Chiesa: «Gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già nei patriarchi, in Mosè e nei profeti»; tutti i fedeli di Cristo sono anche figli di Abramo secondo la fede, e la salvezza del nuovo popolo di Dio «è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto»; la rivelazione dell’Antico Testamento proviene dal popolo dell’alleanza.

Per cui la Chiesa «si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani», gli uni e gli altri riconciliati mediante la croce di Cristo. D’altronde, è un fatto che a Israele «appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legge, il culto, le promesse, i patriarchi: da essi proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5) come pure gli apostoli e i membri della comunità primitiva. In forza della irrevocabilità delle promesse, gli ebrei sono cari a Dio, anche se non hanno riconosciuto in Gesù il Messia e non hanno accettato il Vangelo.

Si tratta qui di un primo livello di risposte le quali conducono a una prima forma di responsabilizzazione: «Poiché dunque è così grande il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, questo sacro Concilio vuole favorire e raccomandare la mutua conoscenza e stima l’uno dell’altro, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con il dialogo fraterno».

La seconda questione riguarda l’accusa di “deicidio” attribuita a quelli che, nella liturgia del Venerdì Santo, venivano bollati come perfidi iudaei, indicata come causa dell’antisemitismo montato fino alla tragedia dei campi di sterminio nazisti durante l’ultima guerra mondiale.

Il testo è formulato con la massima cautela: «E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Pertanto tutti, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, facciano attenzione a non insegnare alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello spirito di Cristo. La Chiesa, inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con tutti gli ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette conto gli ebrei in ogni tempo e da chiunque».

D’altronde, conclude il paragrafo, Cristo «si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini, affinché tutti conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è di annunciare la croce di Cristo come il segno dell’amore universale dì Dio e come la fonte di ogni grazia» (4).

L’iter della dichiarazione

Anche a una prima lettura si avverte il carattere composito del testo, frutto di tante stesure e rimaneggiamenti. Quello definitivo, infatti, costituisce la quarta redazione di un testo che ha conosciuto un iter complesso e non sempre lineare e che aveva nel numero sui rapporti della Chiesa con gli ebrei il nucleo iniziale, come dimostra anche la sproporzione del n. 4 rispetto agli altri numeri della dichiarazione.

La prima redazione risale alla fase preparatoria al Concilio. Infatti, il Segretariato per l’unità dei cristiani aveva ricevuto il compito di approntare uno schema De iudaeis, che contenesse una condanna esplicita dell’antisemitismo. Il testo nasceva probabilmente da una richiesta dello stesso Giovanni XXIII, il quale, dopo l’incontro del giugno 1960 con Jules Isaac, rappresentante del Consiglio mondiale ebraico, si era convinto della necessità di una presa di posizione della Chiesa sull’antisemitismo: la scelta poteva avere anche un risvolto apologetico per le accuse rivolte alla Chiesa di essere all’origine dell’antisemitismo con la sua predicazione sui giudei “deicidi” e di non aver fatto tutto quello che era possibile per contrastare l’Olocausto durante la seconda guerra mondiale. In questa direzione, già nel 1959 Giovanni XXIII aveva espunto dalla liturgia del Venerdì Santo il riferimento ai “perfidi giudei”.

Nel 1962 il testo era pronto e conteneva l’affermazione delle radici giudaiche della Chiesa e la condanna dell’antisemitismo. Ma le resistenze all’argomento non tardarono a farsi sentire, dentro e fuori la Chiesa. Nella stessa commissione preparatoria furono avanzate riserve: le ragioni dell’ostilità al documento furono esplicitamente rappresentate dal cardinale Cicognani, il quale dichiarava che il testo non rientrava tra gli scopi del Concilio e lo qualificava come superfluo (perché allora non un documento anche sui musulmani? - domandava il presule) e troppo esposto a strumentalizzazioni politiche di parte. In effetti, già era in atto un’aspra contestazione dei Paesi arabi .per la presenza a Roma di un funzionario dello Stato ebraico in rappresentanza del Consiglio ebraico mondiale, che aveva attirato sul Vaticano l’accusa di favoritismo nei confronti di Israele.

Il fatto che lo schema De iudaeis venisse ritirato dall’agenda conciliare sembrò sancire la fine della questione. Che tuttavia venne ripresa dallo stesso Giovanni XXIII - il quale, peraltro, era stato sollecitato sull’argomento dal cardinale Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani - e inserita, per esplicita indicazione del Papa, nello schema sull’ecumenismo, di cui avrebbe costituito il capitolo quarto, così titolato: “L’atteggiamento dei cattolici di fronte ai non cristiani e in particolare agli ebrei”.

Secondo questa impostazione, il testo fu presentato in aula durante la seconda sessione sotto il pontificato di Paolo VI. Il capitolo si componeva di 42 righe, quasi interamente dedicate all’ebraismo, dopo una breve introduzione sulle religioni in genere. In negativo, la relazione del cardinale Bea chiariva che il testo non concerneva il riconoscimento politico dello Stato d’Israele; in positivo, dichiarava che la questione trattata era di carattere esclusivamente religioso e la sua finalità era di chiarire come la Chiesa sia, in un certo senso, «una continuazione di Israele».

Importanza del documento

La necessità del testo - contestato da molti Padri conciliari - poggiava sul fatto che la Chiesa, direttamente o indirettamente, fosse accusata di aver ispirato e fomentato l’antisemitismo: «La ragione è che già da più decenni il cosiddetto antisemitismo infuriava in varie regioni e nella forma più violenta e criminosa, soprattutto in Germania, sotto il regime nazionalsocialista, il quale per odio contro gli ebrei perpetrò delitti spaventosi, eliminando più milioni di ebrei. (…) Non che l’antisemitismo, soprattutto quello del nazionalsocialismo, abbia attinto la propria ispirazione dalla dottrina della Chiesa, cosa che non regge affatto. Si tratta piuttosto di eliminare alcune idee che, forse per effetto di quella propaganda, rimangono ferme nell’animo dei cattolici». Certamente era un’illusione pretendere che la questione rimanesse circoscritta all’ambito soltanto religioso, e risultava debole l’affermazione di una sostanziale estraneità della Chiesa all’antisemitismo, di fatto non affrontando quel pregiudizio antigiudaico che è stato una costante della cristianità lungo tutto l’arco della sua storia. Né basterebbe asserire che la preclusione era un sentimento diffuso in tutta la società, dal momento che si trattava di una società cristiana, formata e regolata dalla predicazione della Chiesa.

Comunque sia, l’impostazione apparve riduttiva a molti; e se i vescovi delle Chiese orientali continuavano a sostenere l’inopportunità di una dichiarazione sugli ebrei mentre infuriava lo scontro con il mondo arabo e si ingigantiva la questione palestinese, molti altri chiesero di allargare effettivamente la trattazione a tutte le religioni non cristiane.

In merito ai contenuti, si osservò pure che la questione - come quella sulla libertà religiosa, che costituiva il capitolo V - risultava estranea allo schema De Oecumenismo, per cui il capitolo venne estrapolato e costituì la base per un documento autonomo, diviso in due parti, la prima sul tema dell’antisemitismo, la seconda sulle altre religioni.

Il documento fu presentato in aula durante la quarta sessione: per la risonanza avuta presso l’opinione pubblica - almeno così argomentava il cardinale Bea nella relatio - era impensabile togliere la dichiarazione dal programma conciliare. La discussione in aula fu aspra e andò dalla richiesta di ribadire la tesi del “deicidio” all’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa per aver alimentato un atteggiamento antigiudaico.

Una commissione del Segretariato per l’unità dei cristiani, dopo la discussione, provvide non senza difficoltà a redigere celermente un testo in cinque punti, che prevedeva, appunto, un riferimento all’origine e al fine comune dell’umanità, alle religioni non cristiane, all’islamismo, all’ebraismo, per concludere con la condanna di ogni forma di discriminazione. Era lo schema che, con alcune correzioni, arriverà alla promulgazione finale. In aula, il cardinale Bea evocò in un’ulteriore relatio l’immagine evangelica del granello di senape, per lo sviluppo del documento, nato come una dichiarazione di condanna dell’antisemitismo e diventato un albero in cui trovavano posto tutte le religioni. Le votazioni sul documento furono lontane dall’unanimità. Vennero avanzate ancora riserve, prese in considerazione per la redazione ultima della dichiarazione, definitivamente approvata con 2.221 voti favorevoli e 88 contrari.

Se l’immagine del granello di senape evocato dal cardinale Bea non sembra corrispondere all’iter così tormentato della dichiarazione, e alla sua formulazione ancora esitante, non omogenea nelle parti e acerba in alcuni passaggi, si può comunque parlare di una novità assoluta nell’atteggiamento della Chiesa. Nell’arco di cinque anni si era passati da un’ipotetica dichiarazione di condanna dell’antisemitismo all’elaborazione teologica del rapporto della Chiesa con .le religioni non cristiane, nel quadro dell’universale volontà salvifica di Dio. Si trattava di un passaggio enorme, in linea con l’ecclesiologia di comunione e con l’apertura al dialogo nei confronti del mondo, che il Concilio aveva formulato nei documenti maggiori, soprattutto nella Lumen gentium e nella Gaudium et spes. Sta qui il punto di partenza di un dibattito intensissimo e pieno di tensioni, quello sul pluralismo religioso, che nel post-concilio conoscerà uno sviluppo incredibile.

* professore di ecclesiologia alla Pontificia università gregoriana di Roma

(da Vita Pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Per un approfondimento della Nostra aetate il testo più accessibile è Stefani P. Chiesa ebraismo e altre religioni, Padova 1998: un approccio storico in Alberigo G.,Storia del concilio Vaticano II, I-V, Bologna 1995.2001; vale la pena di rileggere il testo del cardinale Bea, alla cui azione si deve di fatto la Dichiarazione Bea A., La Chiesa e il popolo ebraici, Brescia 1966.

Pubblicato in Dialoghi

ESPERIENZE DI DIALOGO

Le radici teologiche dell’hospitalitas

di Salvino Leone *

1. L’accoglienza all’ospite nella Sacra Scrittura

1.1 Nell’Antico Testamento. Nei confronti dell’ospite l’antico Israele ha avuto un atteggiamento caratterizzato da una profonda ambivalenza: da un lato, infatti temeva lo straniero in quanto portatore di diversità e, come tale, implicito e potenziale pericolo per la sua unità etnica, religiosa e culturale(1); dall’altro, si sforzava di accoglierlo individuando specifiche modalità per farlo, anche in ossequio ad una consolidata tradizione semitica che traspare in filigrana in numerosi brani scritturistici (2).

E’ interessante notare come l’unità semantica che nelle nostre lingue definisce lo «straniero» - il quale è, più specificamente, l’«altro» da ospitare - nella lingua ebraica si frammenti in almeno tre distinti sostantivi(3): il primo è zar (usato più spesso al plurale zarîm), che indica lo straniero in senso politico o, in ogni caso, l’appartenente a un’altra etnia o popolo ostile a Israele(4). Il secondo è nokrî, che è il forestiero in senso prettamente etnico-religioso; può non essere nemico di Israele, ma non ne condivide la fede e non rientra quindi nella sua comunità; il più delle volte non si trova in condizioni di marginalità economica o sociale(5). il terzo è gherîm, che indica lo straniero residente presso Israele ma senza una propria terra; tra i gherîm si trovavano principalmente gli esuli, i profughi, i rifugiati, gli emigrati, i fuggiaschi, ecc.(6).

Sono propriamente questi ultimi a essere oggetto di particolare rispetto e protezione, non essendo nemici né economicamente autosufficienti. La tipologia protettiva si esprimeva non solo nel non farne oggetto di vessazione, ma nel farli partecipare alle feste (cfr. Dt 16,11-12), nell’elargir loro la decima di ogni triennio (cfr. Dt 14,28-29), nel lasciare ad essi i residui del raccolto e della vendemmia (cfr. Dt 24,19-21) e nel riservar loro un trattamento assolutamente egualitario in giudizio (cfr. Dt 27,19). Le ragioni di tale attenzione per lo straniero o, almeno per questo tipo di straniero, sono varie(7).

La prima può ritenersi di ordine culturale e va rintracciata nella credenza popolare per cui si riteneva che, sotto le spoglie dell’ospite, si potesse nascondere una divinità. La traccia forse più famosa di questa tradizione, per quanto di epoca assai successiva, la riscontriamo nel mito di Filemone e Bauci (8), ma anche presso altre culture tale topos è ricorrente. Ne troviamo traccia indubbiamente nell’incontro tra Abramo e i tre personaggi alle querce di Mambre(9) o nella parenesi di Eb 13,2 (che non a caso si colloca in un interlocutorio di contesto semitico): «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni nel praticarla hanno accolto gli angeli senza saperlo»(10). E’ interessante notare, in tal senso, come il messaggio che si cela dietro tale narratività evidenzi nell’ospitalità l’occasione di incontro con Dio”.

La seconda ragione è di carattere storico e fa riferimento alla personale vicenda di Israele la cui storia nasce da un «arameo errante» (Dt 26,5) che viene accolto da diversi popoli e dal quale ha origine una generazione che per lunghi secoli vivrà straniera in terra straniera. L’ospitalità che adesso Israele è invitato ad offrire allo straniero si realizza proprio nel segno di quella ospitalità che un giorno ha ricevuto o, al contrario, della quale non ha potuto godere perché fatto oggetto di soprusi. Quando Dio dice «voi conoscete la vita dello straniero» (Es 23,9), non fa riferimento solo a un dato puramente cognitivo, peraltro impensabile nella mentalità ebraica, ma a una conoscenza essenzialmente esperienziale. Voi la conoscete perché ne avete fatto esperienza e quindi sapete cosa significa. E quindi «il forestiero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Proprio in tale cornice può porsi una interessante istituzione che è quella delle «città-rifugio» riservate a qualsiasi straniero avesse ucciso qualcuno involontariamente (cfr. Nm 35,15). Interessante perché costituisce la prima attestazione di un passaggio dall’ospitalità personale all’ospitalità strutturale: non più il singolo che ospita una o più persone ma un’intera comunità che si fa realtà ospitante.

La terza motivazione è quella propriamente religiosa e si radica nell’esemplarità divina che Israele è chiamato a riproporre: «Il Signore vostro Dio (...) rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10, 18). Ospitare il forestiero, l’orfano, la vedova diventa così espressione di «giustizia», cioè di perfetto adempimento della Legge (12). Il pio israelita, lo tzaddiq è tenuto a farlo nella duplice prospettiva del comandamento ma anche dell’esempio di Dio. JHWH che gli chiede tutto questo è anche Colui che per primo lo fa. Ne consegue che chi è fedele alla legge di Dio lo è anche nella prassi dell’ospitalità. In tal senso vi sono alcuni interessanti esempi da riportare dai quali emerge come la prassi dell’ospitalità, in un contesto religioso, sia premiata in vario modo. Il primo episodio è quello della prostituta Raab che accoglie gli esploratori inviati da Giosuè, fingendo che si tratti di comuni «clienti» (Gs 2,1-12). il secondo, che presenta alcuni tratti di somiglianza col primo, è relativo alla vedova di Zarepta che, accogliendo il profeta Elia, condivide con lui il suo ultimo pasto (1 Re 17,20). In entrambi i casi le due donne vengono premiate: la prima con l’incolumità per sé e la sua famiglia, la seconda con la guarigione del figlio. L’ospitalità che è accoglienza alla vita dell’altro viene ricompensata con il dono della vita. Tale dinamica retributiva diventa ancora più evidente nella storia di Rut, in cui la sua accoglienza al paese straniero, per cui lascia il proprio accompagnando la suocera Noemi, e quella di Booz alla donna straniera, che sposerà, culminerà nel premio più grande, quello cioè di diventare antenati di Davide e quindi del Messia (Mt 1,5-6). L’abbandono delle proprie certezze che si attua in questa singolare e reciproca ospitalità trova nell’accoglienza all’altro la sua nuova certezza.

1.2 Nel Nuovo Testamento. Il misterioso evento che sta all’origine nel Nuovo Testamento e storicizza in Cristo l’inizio della redenzione è attuato nel segno dell’ospitalità. Maria si fa ospite del Verbo che, in virtù della sua accoglienza, diviene il Gesù storico. In lei è l’intera umanità a ospitarlo(13), anche se, come sottolinea Giovanni, le tenebre non hanno accolto la sua luce (Gv 1,5). E non è un caso che la sua nascita avvenga proprio nel segno di un dramma di ospitalità: nessuna locanda ha posto per il figlio di Dio costretto a nascere per strada, in una «mangiatoia»(14). Quella terra che diventa per lui la sola realtà accogliente è ben simbolizzata, nell’iconologia bizantina, da quella grotta della nascita che si fa al tempo stesso accoglienza sepolcrale, cioè grembo del rinascere.

E, così pure, non è un caso che dall’accoglienza di Maria scaturisca un ulteriore duplice gesto di ospitalità. Il primo è quello che, paradossalmente, compie la stessa Maria che, facendosi essa stessa ospite di Elisabetta andando a trovarla cum festinatione, cioè con una premura ben sottolineata da Luca. Il secondo è quello, più evidente, da parte della cugina che accoglie «la madre del suo Signore» e quindi, in essa, lo stesso Gesù. Dietro quel sobbalzare di feto vi è proprio la gioia dell’accogliere, per primi, il figlio di Dio.

Nel messaggio evangelico, poi, troviamo almeno tre distinte tipologie che sottolineano, in aggiunta a quanto evidenziato nel Primo Testamento, il valore dato all’ospitalità.

La prima è la prospettiva di carattere etico-antropologico. Il comandamento dell’amore, sopratutto per coloro che si trovano in una situazione di precarietà esistenziale, trova nell’identificazione del «povero»(15) con Cristo la sua principale ragion d’essere. Nell’ospitare ed accogliere l’altro si accoglie Cristo stesso che, nella persona ospitata, si cela. Il tema, esplicitato nella parabola dei capri (Mt 25,31-45), verrà riletto innanzitutto nelle molte proiezioni devozionali, iconografiche e agiografiche che mostrano, con i linguaggi propri dei rispettivi ambiti, la figura di un povero che in realtà appare essere lo stesso Gesù (16). Ma poi, anche nella semplificazione catechistica, come una delle «opere di misericordia corporale» (17).

La seconda valenza è di ordine escatologico. Sempre in riferimento alla stessa parabola sopra citata l’ospitalità diventa uno dei parametri del giudizio escatologico. Ovviamente, nella parabola, l’elenco delle azioni misericordiose ha valore esemplificativo più che esaustivo ma nell’identificare solo pochi gesti-simbolo è significativo notare come Gesù vi includa proprio l’ospitalità.

La terza ragione, infine, è di carattere cristologico. I pressanti inviti vetero-testamentari ad accogliere i forestieri, unitamente ad altre persone in condizione di marginalità esistenziale, trovano il nuovo riferimento esemplare nella persona stessa di Gesù e nella sua testimonianza. Se, prima, l’israelita doveva accogliere l’altro perché glielo chiedeva Dio e Dio stesso si faceva difensore del povero, adesso tutto questo si incarna nella concretezza di un esempio visibile da imitare. Il Dio fattosi uomo si dimostra costantemente accogliente nei confronti dell’altro, ospita nel suo cuore, nel suo gesto sanante, nella sua parola guaritrice chiunque lo accosti.

Non dobbiamo trascurare, poi, i molti tratti biografici che, pur senza evidenziare in modo tematico la dimensione dell’ospitalità, di fatto presentano situazioni in cui Gesù è ospite di parenti, amici, discepoli. Anzi, molte volte, tali situazioni fanno da cornice a eventi miracolosi o insegnamenti particolarmente significativi. Basti pensare alle nozze di Cana, alle quali era presente come ospite; alla guarigione della suocera di Pietro nella cui casa di Cafarnao si fermava quando passava dalla Galilea; al banchetto in casa di Simone col noto episodio della donna peccatrice; all’abitazione di Marta e Maria in Betania, delle quali era ospite abituale, in cui sono ambientate la scena dell’unzione e i preliminari della resurrezione di Lazzaro; all’ultima cena in un sala appositamente predisposta per accoglierlo insieme ai discepoli, ecc...

Il tema dell’ospitalità verrà poi ripreso in vari passaggi degli altri scritti neotestamentari nel modo seguente: nella lettera ai Romani, la sua pratica viene presentata da Paolo come uno dei frutti della carità in un elenco che, se pur non esaustivo, ne evidenzia, tuttavia, alcuni dei più significativi: «Siate premurosi nell’ospitalità» (hospitalitatem sectantes, Rm 12,13); nella Prima lettera di Pietro se ne sottolinea la dimensione della reciprocità: «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare» (1 Pt 4,9); nelle lettere pastorali, emerge come dovere specifico del vescovo: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare (1 Tm 3,2; cfr. anche Tt 1,8); nella lettera agli Ebrei, infine, è evidenziata la sua connessione con la carità, da cui promana, correlandola ad altre opere di misericordia sulla scia di Mt 25,3 1-45: «Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo(18) Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che soffrono, essendo anche voi in un corpo mortale (Eb 13,1-3)».

2. La prassi ospitante nella tradizione ecclesiale

2.1 Ospitalità ed evangelizzazione. Quanto detto a proposito delle attestazioni neotestamentarie inerenti l’ospitalità diventa ben presto prassi ecclesiale. Sono proprio le case dei credenti, infatti, i primi centri di ascolto della Parola e dello spezzare del pane, le prime ecclesìe: «Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,4) e ancora: «Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23). Negli Atti viene ricordato come, dopo il battesimo di Lidia, questa rivolga a Paolo e ai suoi discepoli un invito: «Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa». E ci costrinse ad accettare» (At 16,15). Possiamo senz’altro affermare che la prassi dell’ospitalità presso le case dei credenti, unitamente alla predicazione itinerante costituisse non solo l’ordinaria modalità di evangelizzazione nella Chiesa apostolica, ma anche il primo nucleo di quella che diventerà l’assemblea domenicale. Questa considerazione, di per sé prettamente storico-ecclesiale, assume tuttavia una portata assai più ampia ove si consideri il ruolo che svolge la «struttura ospitante» nella diffusione del messaggi evangelico. Non si tratta, cioè, soltanto di una pia pratica o dell’esercizio di una virtù, per quanto attuata in risposta ad un’esortazione evangelica, bensì di realizzare il regno di Dio anche attraverso una specifica prassi all’interno di una spazialità accogliente.

2.2 La riflessione patristica. Sul piano della prima riflessione teologica il tema dell’ospitalità è ampiamente presente negli scritti patristici(19). Nei Padri d’Oriente, d’altra parte, non va sottovalutata la sua consonanza con un ben preciso substrato culturale. La sua prassi, infatti, non si radicava solo in una convinta assimilazione dell’insegnamento biblico, ma anche in un retroterra storico che la valorizzava in modo specifico. Limitandoci ai Padri dei primi secoli la Didachè vi dedica espressamente un capitolo dando anche chiare indicazioni operative:

venuto èdi passaggio, aiutatelo quanto potete; non rimarrà da voi se non due o tre giorni, se necessario. Se vuole fermarsi da voi, avendo un mestiere, lavori e mangi. Se non ha un mestiere provvedete secondo il vostro giudizio, perché un cristiano non viva tra voi ozioso. Se non vuole così èun mercante di Cristo: guardatevi da costoro!»(20).

Nella Lettera ai Corinti Clemente associa arditamente l’ospitalità alla fede nella motivazione della promessa di Dio ad Abramo: «Per la fede e l’ospitalità gli fu dato un figlio nella vecchiaia» e prosegue associandovi ora la pietà (per la quale Lot fu salvato dalla distruzione di Sodoma) ora di nuovo la fede, a proposito della prostituta Raab.(21)

Possiamo citare ancora Il Pastore di Ernia nel quale l’ospitalità è vivamente raccomandata perché offre l’occasione di manifestare la carità(22). Aristide che ricorda come i cristiani gioiscano a ricevere i pellegrini come se fossero loro veri fratelli(23) Cipriano che autorizza a prelevare dai suoi beni il necessario per sostenere i forestieri’(24). Tertulliano che arriva addirittura a definire l’intera cristianità come contesseratio hospitalitatis. (25). E dell’ospitalità parleranno anche sant’Ambrogio e sant’Agostino(26).

2.3 Gli xenodochi e la prima ospitalità organizzata. Sulla scia e nella consapevolezza di tutto questo la Chiesa dei primi secoli organizza in modo sistematico le prime specifiche strutture di accoglienza.(27)

Le prime di queste possono ritenersi le diaconìe istituite a Roma da papa Fabiano (240-253) e annesse agli uffici del vescovo per assistere varie categorie di bisognosi: malati, orfani, pellegrini, forestieri, vedove. Il concilio di Nicea (325 d.C.) renderà obbligatoria per ogni città l’istituzione degli xenodochi, strutture di ricovero appositamente destinate ai pellegrini e agli stranieri. Queste venivano così ad affiancarsi ad altre istituzioni che cominciavano a nascere come i nosocomi (il più delle volte costruiti accanto ai primi e destinati ai malati); i brefotrofi (per accogliere i bambini a qualunque titolo bisognosi); gli orfanotrofi; gli ptocotrofi (per i poveri), i gerontocomi (per gli anziani).

In epoca medievale assistiamo a una straordinaria ed eterogenea fioritura di «ordini ospedalieri», termine col quale non dobbiamo intendere l’assistenza ospedaliera in senso stretto bensì ogni tipologia di attività «ospitante» nei confronti di poveri, stranieri, pellegrini, malati, ecc... Tra queste istituzioni ricordiamo: gli Antoniani che curavano in modo particolare gli storpi e i soggetti colpiti dal «fuoco di Sant’Antonio»(28) i «fratelli dei ponti» e i «cavalieri d’Altopascio» che costruivano rifugi per i viandanti in prossimità dei valichi e dei tratti di strada particolarmente pericolosi o insicuri; l’Ordine di Santo Spirito, fondato verso il 1180 da un laico, Guido di Montpellier al quale si deve, per intervento di Innocenzo III che lo istituì formalmente, l’ospedale di Santo Spirito, la prima vera e propria struttura ospedaliera di un certo respiro che farà esclamare a Lutero nel suo viaggio a Roma:

«Gli ospedali in Italia sono provvisti di tutto ciò che è necessario; sono ben costruiti, vi si mangia e beve bene, e vi si è serviti con sollecitudine; i medici sono abili, i letti e le mobilia sono puliti e ben tenuti. Quando il malato vi è condotto, gli si tolgono gli abiti in presenza di un pubblico notaio che li registra; poi si mettono da parte con cura ed il malato viene ricoperto da una veste bianca e deposto in un tetto ben preparato. La pulizia è ammirevole».(29)

2.4 La Regola di san Benedetto. Parlando di hospitalitas, un posto a se stante occupa indubbiamente la Regola di san Benedetto che al suo esercizio dedica un intero capitolo, il cap. LIII: «Come debbano essere accolti gli ospiti» (De suscipiendis hospitibus):

1) Tutti gli ospiti che sopraggiungano, siano ricevuti come Cristo, perché Egli dirà: «Fui ospite e mi accoglieste»;
2) e a tutti si renda il conveniente onore, specialmente poi a quanti ci sono familiari secondo la fede, e ai pellegrini.
3) Appena dunque è stato annunziato un ospite, il superiore o i fratelli gli vadano incontro con ogni dimostrazione di carità;
4) ma prima preghino insieme, e solo allora si accomunino a lui nella pace.
5) Tale bacio di pace appunto non dev’essere offerto se non dopo che si è pregato, ad evitare le illusioni diaboliche.
6) Perfino nel modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono o partono:
7) inchinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori in essi Cristo che viene accolto.
8) Ricevuti dunque gli ospiti, siano condotti all’orazione, e dopo si sieda con loro il superiore o un fratello da lui incaricato.
9) Si legga dinanzi all’ospite la Legge divina per edificarlo, e poi gli si offra ogni segno di premurosa benevolenza.
10) Il superiore per riguardo all’ospite rompa pure il digiuno, purché non si tratti d’uno speciale giorno di digiuno che non possa esser violato;
11) i fratelli invece seguano i consueti digiuni.
12) L’acqua alle mani la versi agli ospiti l’abate;
13) i piedi a tutti gli ospiti li lavino sia l’abate che tutta la comunità,
14) e finita la lavanda dicano questo verso: «Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel mezzo del tuo tempio».
15) I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari cure ed attenzioni, perché specialmente in loro si riceve Cristo, mentre ai ricchi si porta rispetto per la stessa soggezione che incutono.
16) La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, di modo che in qualunque ora vengano all’improvviso gli ospiti, che nel monastero non mancano mai, i fratelli non ne siano disturbati.
17) A prestare servizio in questa cucina entrino per tutto un anno due fratelli ben adatti a tale compito.
18) A loro, secondo che ne abbiano bisogno, si procurino degli aiuti, perché servano senza mormorare; quando invece mancano di lavoro, vadano ad occuparsi dove viene loro comandato.
19) E non solo per essi, ma anche per tutti gli ufficiali del monastero sia questa la norma,
20) che quando hanno bisogno di aiuti, ne vengano provvisti, e quando invece sono liberi, si occupino dove vuole l’obbedienza.21) Similarmente la foresteria sia affidata ad un fratello che abbia l’anima posseduta dal timore di Dio;
22) in essa vi sia un numero sufficiente di letti arredati, e la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente.
23) Nessuno poi, se non ne ha ricevuto l’incombenza, si accompagni o parli con gli ospiti;
24) ma se li incontra o li vede, li saluti umilmente, come abbiamo detto, e chiesta la benedizione passi oltre, dicendo che non gli è permesso di parlare con l’ospite.

Il capitolo può essere nettamente diviso in due parti. I vv. 1-15 espongono in termini generali le ragioni dell’ospitalità, mentre i successivi trattano specificamente di alcune modalità pratiche per attuarla in monastero.

Il primo versetto pone l’accento sulla dimensione universalistica dell’ospitalità per cui si debbono accogliere tutti. Se una preferenza va fatta, questa riguarda i fratelli nella fede (domestici fidei) nei quali vanno ravvisati altri monaci o chierici, i pellegrini (che incontravano il monastero lunga la via del loro pellegrinaggio) e, com’è detto al v. 15, i poveri(30).

La prassi dell’ospitalità non è mai disgiunta, tuttavia, da una sua più elevata comprensione all’interno di un ben preciso universo spirituale, tant’é che il primo atto con cui l’ospite viene accolto non è quello del dargli ristoro ma del pregare insieme a lui(31).

Le ragioni teologiche dell’accoglienza non sono solo esplicitate al v. 1 in rapporto alla matteana parabola dei capri, ma vengono ulteriormente sottolineate da atti fisici di vera e propria venerazione, immedesimandosi in lui Cristo in persona, e dal sentimento di gratitudine formulato con le parole del Salmo 47,10(32).

Più pragmatiche e, certamente, di minor slancio spirituale, appaiono le indicazioni dei versetti successivi. Ma non c’è da stupirsene. La Regola, infatti, pur pervasa da un profondo affiato spirituale è pur sempre un testo normativo, per di più destinato a disciplinare la vita in un contesto monastico ben più affollato di quelli odierni e, di solito, anche culturalmente assai meno elevato. Per cui non devono disturbare indicazioni così dettagliate che non sono indice di pedanteria normativa e che nulla tolgono alla ricchezza spirituale dei precedenti versetti.

Vi sono da notare, tuttavia, due elementi di rilievo. Il primo riguarda il servizio del monaco accogliente al quale viene data molta importanza (v. 21). Tale attenzione ricorda quella che oggi, nell’ambito della gestione delle risorse umane viene attribuita ai cosiddetti servizi di front line che costituiscono il primo impatto dell’utente con una istituzione a volte determinante per la credibilità della stessa e i successivi sviluppi del rapporto.

Il secondo è relativo alla proibizione, fatta ai monaci, di intrattenersi con l’ospite. Potrebbe sembrare una chiusura contrastante con quanto affermato prima, ma non è così. Con grande saggezza e perspicacia, infatti, san Benedetto vuole evitare che persone sprovvedute e magari pettegole, come a volte potevano essere i monaci, abbiano a screditare il buon nome del monastero o della stessa vita monastica, lasciando un marchio negativo nella memoria dell’ospite. (33)

2.4 Il carisma di San Giovanni di Dio. Dopo secoli di prassi dell’ospitalità, praticata a livello individuale e soprattutto nelle foresterie monastiche, tale vissuto torna prepotentemente sulla scena ecclesiale in virtù dell’esperienza di un santo portoghese, san Giovanni di Dio (1495-1550), diventando l’oggetto specifico di un «quarto voto» per l’Ordine dei Fatebenefratelli che da lui avrà origine. (34)

Nella sua esperienza storica Giovanni Ciudad, dopo varie esperienze (guardiano di pecore, soldato di ventura, muratore, ecc.), convertitosi in seguito all’ascolto di una predica di san Giovanni d’Avila, manifesta visibilmente i segni di uno sconvolgimento profondo per cui viene ritenuto «pazzo»(35) e rinchiuso nell’ala manicomiale dell’ospedale di Granada. Lì ha modo di vedere come vengono trattati i malati, e i malati di mente in modo particolare, per cui chiede a Dio di poter avere, quando uscirà, un ospedale in cui poter curare i malati a modo suo (36). Cosa che avverrà dando origine a una ininterrotta attività «ospitaliera» che continua fino ad oggi, non limitata a quella sanitaria ma molto più ampia (case di riposo, hospices, asili notturni, unità di strada, ecc...)

3. Nuovi percorsi teologico-pastorali

In conclusione e senza volermi addentrare in trattazioni di più ampio impegno e respiro, mi limito a indicare alcune possibili vie che una riflessione sulle dimensioni teologiche dell’hospitalitas può aprire nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale.

3.1 Ospitalità e teologia trinitaria. Un primo percorso di ricerca credo sia quello di evidenziare all’interno della stessa vita trinitaria le radici fontali dell’ospitalità. Se, infatti, nell’analisi biblica ed ecclesiale si evidenzia la sua natura di virtù morale, questa va ricondotta non solo alla volontà creatrice di Dio strutturante la vita morale della persona, ma anche, e in primo luogo, alla sua stessa vita di cui quella umana dovrebbe costituire similitudine esistenziale e, soprattutto, caritativa.

E così che il Padre accoglie in sé il Figlio, anzi ancor più lo «genera» in una generazione eterna che, evidenziando l’unità di natura tra generato e generante, pone l’ospitalità nella sua dimensione di più profonda intimità e condivisione, non semplice accoglienza in seno alla propria esistenza ma comunione e unità genetica della stessa.

A sua volta il Figlio accoglie il Padre, nel suo essere generante, certo, ma - in prospettiva dell’Incarnazione - anche accettando profondamente e con amore sofferto la sua volontà. Il Padre, come dirà a Filippo (Gv 14,9), è già tutto nel Figlio e il suo ospitarlo in sé si fa segno per il mondo.

Infine lo Spirito, reciproco dono di amore ma anche sua reciproca accoglienza. Accoglienza, poi, diventa storia nell’esistenzialità umana ponendosi, come ci ricorda la sequenza di Pentecoste, quale dulcis hospes animae.

Ovviamente, in queste che sono linee appena abbozzate, non bisogna assolutamente correre il rischio di una sorta di implicito, per quanto involontario, «triteismo» sempre incombente quando si affronta il discorso sulle singole «persone» trinitarie. Il reciproco ospitarsi, in tal senso, deve costituire anzi un ulteriore elemento in grado di evidenziare, sia pure nel paradosso, il mistero del Dio uni-trino.

3.2 L’ospitalità eucaristica. È un punto di particolare delicatezza e attualità in ambito ecumenico. Il cammino compiuto dall’ecumenismo nei tempi post-conciliari è stato notevole, anche se in questi ultimi anni ha subito alcune battute di arresto che ci auguriamo possano essere presto superate.

Tra i vari problemi sul tappeto, quello della cosiddetta «ospitalità eucaristica» costituisce indubbiamente uno degli ambiti verso i quali sono maggiormente rivolte l’attenzione e le aspettative delle Chiese. Sappiamo bene, infatti, che il dialogo dottrinale si muove a piccoli passi e non sempre particolarmente significativi. La possibilità di accedere reciprocamente e in via ordinaria all’eucaristia (cosa attualmente possibile ad alcune particolari condizioni (37) e, in ogni caso, nell’ambito delle Chiese che riconoscono piena sacramentalità (38) alle rispettive celebrazioni eucaristiche), potranno costituire un significativo progresso sul piano del «vissuto» ecumenico che, spesso, precede e trascina poi la comunione dottrinale.

Non solo, ma il problema oggi è particolarmente avvertito nei matrimoni misti che costituiscono, forse, il fronte più avanzato, più problematico ma al tempo stesso più fecondo in ambito ecumenico. Di fronte a una comunione di vita e alla celebrazione sacramentale del matrimonio l’impossibilità di accedere insieme all’eucaristia costituisce, indubbiamente, un oggettivo segno di contraddizione.

Il dialogo, tuttavia, si è fatto più serrato in questi ultimi anni e non è escluso che, in tempi brevi, si possa arrivare anche a un qualche documento comune, come già avvenuto per la Dichiarazione sulla giustificazione (39).

3.3 L’ospitalità come rinnovata via di carità. Si è già detto, e più volte, che la virtù dell’ospitalità costituisce una particolare e significativa espressione della carità. Tuttavia, le sue forme storiche sono state quasi sempre esercitate, secondo modalità che oggi possono apparire desuete. Nessuno bussa più alla porta e viene accolto o si presenta come viandante, pellegrino, straniero. Anche nelle tradizionali foresterie monastiche che hanno mantenuto ininterrotta la consuetudine dell’accoglienza agli ospiti, questa si svolge oggi secondo modalità più spiccatamente «alberghiere», pur senza tradire lo spirito originario che le ha generate. Ma proprio per questo l’imperativo etico di Cristo attende di incarnarsi in forme nuove di esercizio. Molte delle quali, peraltro, sono sotto gli occhi di noi tutti.

Mi limito a ricordarne due in modo particolare. La prima, di carattere più generale e «pubblico» riguarda l’accoglienza agli immigrati. Non è questa la sede per affrontare un simile problema, ma è chiaro che lo spirito che deve animarla non può essere quello di una precostituita chiusura bensì, al contrario, quello di una fondamentale apertura all’altro. Anche se questo dovrà confrontarsi con oggettive possibilità o disposizioni legislative, queste dovranno essere sempre improntate a compiere il maggior sforzo possibile per garantire la fruizione di quei beni (terra, lavoro, casa, ecc.) che non possono essere gelosa ed egoistica prerogativa di una nazione.

La seconda modalità, più personale, segno quasi di una ferialità del quotidiano è quella che molti movimenti stanno portando avanti con la prassi di periodiche accoglienze, soprattutto per bambini vittime dei danni delle guerre o di catastrofi naturali. Anche questa è un’ospitalità in qualche modo «organizzata», ma costituisce un modo nuovo di esprimere la carità nei confronti di vittime innocenti del male, soprattutto se provocato dall’uomo. In tal senso, anzi, è interessante notare come tale prassi esuli dall’ambito strettamente cristiano essendo ampiamente diffusa anche tra chi non condivide in alcun modo la fede cristiana.

Forse, anche in questo sono ravvisabili quei semi del Verbo (spermata tou Logou) di cui parla Giustino (40), segno di perenne speranza e presenza dello Spirito nella storia dell’uomo.


Note

(1) Tale minaccia era particolarmente avvertita nei confronti delle donne cananee, perché, proprio in virtù, dei «matrimoni misti», queste avevano introdotto culti idolatri in Israele intaccandone la purezza della fede. Tale tentazione, dalla quale non fu immune lo stesso re Salomone (cfr. I Re 1-8), diede esito, nella legislazione post-esilica di Esdra, ad una specifica proibizione del matrimonio di un israelita con donne straniere e allo scioglimento di quelli già contratti (Esd 10).

(2) Cfr. Gn 19,2;24,25-32; Gd 15,19-20; 2 Sam 12,4; Gb 31, 2.

(3) A. BONORA, Lo «straniero» in Deuteronomio, in «Parola, Spirito e Vita», n. 27 (1993) 26-28;

(4) Dt 25,5; Gb 15,9; Is 61,5; 25,15; Ger, 30,8; 51,51; Ez 7,2-11; 11,9.

(5) Dt 23,21; 14,21; 15,3.

(6) Dt 14,29; 16, 11.14; 26,11-12.

(7) Cfr. ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO, Carta d’identità dell’Ordine, Curia Generalizia, Roma 1998, p. 2.2.3.

(8) Si tratta di una toccante leggenda di cui ci parla il poeta latino Ovidionelle Metamorfosi. Un giorno Hermes e Zeus si travestirono da mendicanti per andare sulla terra a vedere come vivevano gli uomini. Ma questi rifiutarono di accoglierli usando modi rudi e scortesi. Solo due poveri anziani, Filemone e Bauci, li accolsero nella loro povera capanna e condivisero con loro il proprio povero pasto con animo lieto. A questo punto gli dei si manifestarono e trasformarono in un tempio d’oro la capanna chiedendo quale fosse il loro desiderio più grande. I due anziani coniugi chiesero di poter rimanere sempre insieme a servirli nel tempio. Cosa che avvenne morendo contemporaneamente ed essendo trasformati l’uno in quercia e l’altra in tiglio, con i rami intrecciati tra loro.

(9) Gn 18, 1-16. In tale brano potremmo rinvenire addirittura un vero e proprio parallelo letterario nel racconto della visita che i tre dei greci, Zeus, Posidone ed Hermes fanno a Ireo e, dopo averne ricevuto ospitalità, gli promettono un figlio, Orione. La narrazione biblica e il mito greco potrebbero dipendere, con modalità che non conosciamo, da un comune substrato tradizionale (G. VON RAD, Genesi, Paideia, Brescia 1978, p. 269).

(10) In tal caso il primo riferimento, indubbiamente è quello a Gn 18,1-16 ma non è esclusa l’allusione ad altre tradizioni circolanti tra i destinatari a cui l’autore della lettera si rivolge.

(11) Non a caso vi è un incedere quasi liturgico nel racconto di Abramo alle querce di Mamre: si prostra (culto), prepara il vitello e il latte (offerta), crede alla promessa (fede), li supplica di non distruggere Sodoma (orazione).

(12) Cfr. Lv 16,29 18,26; 19,10.33

(13) Mi limito a riportare, tra tutti, un brano di Gregorio di Nissa: «Il Verbo, essendosi unito all’uomo, prese in lui tutta la nostra natura, affinché, per questa unione alla divinità, tutta l’umanità fosse divinizzata in lui e tutta la massa della nostra natura fosse santificata con la prima» (Adv. Apoll 15, PG 45, 1152c).

(14) Ormai è assodato che il tema della “grotta” nasce col Protovangelo di Giacomo, scritto verso la fine del il secolo. Ma se scompare la grotta l’interpretare con “mangiatoia” il termine greco phartne fa propendere per l’ipotesi della “stalla”. L’idea del nascere “per strada”, così, non solo assai più plausibile ma è anche consona al tema degli eventi itineranti così tipico di Luca. In realtà il termine phatne indica anche la sacca che veniva deposta sul dorso del mulo nel quale si poneva gli oggetti di uso comune e il cibo. Per cui diventa non solo verosimile ma anche suggestivo che Maria abbia posto il bambino in questa mangiatoia-sacca, lui che un giorno sarebbe stato il “pane di vita”, nel “villaggio del pane” (=Bet-lehern) nascendo per strada (cfr. G. I. GARGANO, I vangeli dell’infanzia, EDB, Bologna 2004, pp. 11-14).

(15) Ovviamente tale sostantivo deve inteso in senso propriamente biblico, cioè non solo come colui che non ha, ma come colui che non è, che non ha peso sociale, che è emarginato, che patisce l’ingiustizia, che non ha voce. La triplice categorizzazione scritturistica dell’orfano, della vedova e dello straniero prescinde infatti dalle effettive condizioni economiche che potevano anche non essere precarie. La loro precarietà era più esistenziale che economica (cfr. A. GELIN, Il povero nella Sacra Scrittura, Sussidi Biblici n. 32-33, 1991).

(16) Tale simbolizzazione scenica, del resto ripropone quanto già sant’Ambrogio affermava: «In officiis hospitalibus omnibus humanitas impertienda est…., ne tu suscipias hominem, suscipias Christum. Licet in hospite sit Christus, quia Christus in papere est, sicut ipse ait» (AMBROGIO,De officiis, lib. 11, 107).

(17) Verosimilmente il loro elenco, come oggi lo riportiamo risale ai secc. XII e XIV quando costituiva un comune insegnamento tramandato oralmente. Dopo il concilio di Trento esso venne ufficialmente codificato nei catechismi, soprattutto ad uso della prima confessione e comunione.

(18) Cfr. quanto già detto alla nota 10.

19) Cfr. A.P. FRUTAZ, Ospitalità in: E ANCILLI (a cura di), Dizionario enciclopedico di ospitalità, Città Nuova, Roma 1992, pp. 1792-1793.

Didachè, XIII, 1-5 in A. QUACQUARELLI (a cura di), I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 1984. Prima lettera di Clemente ai Corinti 0.10,7; 11,1; 12,1 (ibid.). ERMA, Il Pastore, Precetto VIII, 10; Similitudine VIII, 10,3 (ibid). ARISTIDE, Apologia, t15 (Corpus apologeticum, IX, 344-348).

(24) CIPRIANO, Epistulae n. 7 (PL 4, 196).

(25) TERTULLIANO, De praescriptione haereticorum, n. 29 (PL 2, 9).

(26)AMBROGIO, De Abraham 1, 5,32 (PL 14, 435); De Officiis 2, 103 (PL 16, 131); SANT’AGOSTINO, Sermones 355, 1, 3 (PL 39).

(27) Cfr. A. CASERA, L’ospedale e l’assistenza ai malati nel corso dei secoli, Ed. Salcom, Brezzo di Bedero 1994.

(28) Il fuoco di Sant’Antonio altro non è che un malattia causata dall’herpes zoster e caratterizzata da forti dolori ed eritema cutaneo a fascia. La sua etimologia popolare non è chiara. Secondo alcuni farebbe riferimento alla iconografia che a volte raffigura sant’Antonio abate con una fiamma in mano (riferita in realtà alla leggenda agiografica del fuoco strappato al demonio e donato all’uomo), secondo altri all’ardore delle tentazioni sessuali da lui superate nel deserto e delle quali ci parla Atanasio nella biografia del santo.

(29) Riportato da G. COSMACINI, Lebbrosario, Lazzaretto, Ospedale, in «Missione Salute», n. 2 (1993), 48.

(30) Cfr. La Regola di San Benedetto e le regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Fondazione Lorenzo valla/Mondadori, Milano 1998, p. 360.

(31) Questo in realtà aveva anche un secondo scopo, cioè quello di evitare gli «inganni del demonio», che nella persona dell’ospite potevano celarsi (Sancti Benedicti regula monasteriorum, a cura dii. SCHUSTER, Pia Società San Paolo, Alba 1945, p. 313).

(32) Proprio per tale fondazione cristologica, il precetto di accogliere gli ospiti è presente in quasi tutte le regole monastiche: Pacomio, Praecepta, 51-54; Regola di san Basilio, 32-33; Regola dei quattro santi Padri, 2, 36-42; Seconda Regola dei Padri, 14-16; Regola di Cesario per le Vergini, 38; 40; Vitae Patrum Jurensium 172 (tutti citati da G. HOLZHERR, La Regola di San Benedetto, Piemme, Torino 1992, p. 387).

(33) Ibidem.

(34) La menzione di un vero e proprio «voto di ospitatiti» compare per la prima volta nel Breve Romani Pontificis di Clemente VIII (1596), cioè dopo quasi mezzo secolo dalla morte del santo, dopo che l’ordine si era già diffuso in gran parte d’Europa. La citazione non è delle più nobili in quanto è inclusa in una disposizione che consente agli Ordinari dei luoghi di espellere i frati giudicati indegni e «ab emisso per eos hospitalitatis voto absolvere» (G. RUSSOTTO, Origine ed evoluzione sotrica del voto di ospitalità dei Fatebenefratelli, Ufficio Formazione e Studi dei Fatebenefratelli, Roma 1978, p. 36).

(35) II Castro, primo e più autorevole biografo del santo, dice che il santo «fu preso per pazzo» (F DE CASTRO, Hiistoria de la vida y sanctas obras de Juan de Dios, Granada 1585), anche sei successivi studiosi, sopratutto degli ultimi due secoli, danno diverse interpretazioni dell’evento, optando chi per una semplice simulazione o espressione parossistica di uno stato d’animo, chi per un effettivo disordine mentale (cfr. G. RUSSOTTO, San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Ufficio Formazione e Studi FBF, Roma 1969, vol. I, pp. 62-64). Sia l’una che l’altra interpretazione ovviamente nulla tolgono alla genuinità della conversione e alla santità del successivo percorso esistenziale.

(36)Il Castro ha riportato fedelmente le parole del santo: «Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione e servirli come desidero io» (E. DE CASTRO, op. cit., cap. IX).

(37)Sono sostanzialmente quelle fissate dal can. 844 §§ 3-4 del Codice di Diritto canonico e dall’enciclica di Giovanni Paolo II, Ecdesia de Eucaristia, nn. 45 e 46.

(38) Sono escluse sostanzialmente quelle delle Chiese nate dalla Riforma alle quali la Chiesa Cattolica non riconosce la piena validità sacramentale per defectus ordinis.

(39) Si tratta della Dichiarazione Congiunta tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale circa la dottrina della giustificazione (Gemeinsame Erklärung) firmata il 31 ottobre 1999 ad Augsburg, in Germania, dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Tale dichiarazione pone fine a cinque secoli di reciproche incomprensioni su un problema che è stato il punto di partenza dottrinale della riforma luterana e del successivo allontanamento tra le due Chiese.

(40)GIUSTINO, II Apologia 13, 3 (PL 6).


* Docente di Teologia morale alla Facoltà teologica di Sicilia. - Palermo. Le riflessioni qui presentate nascono da una duplice contingenza esperenziale. La prima fa riferimento a lunghi anni di frequentazione della foresteria monastica di Camaldoli, la seconda trae spunto dall’aver operato per circa vent’anni tra i Fatebenefratelli che professano, nell’ospitalità, il loro quarto voto religioso.

(da Vita Monastica, n. 233, Gennaio-marzo 2006)

Pubblicato in Dialoghi
Giovedì, 03 Maggio 2007 00:54

Le «tavole del dialogo» (aa.vv.)

Islam e cristianesimo

Le «tavole del dialogo»




Il documento qui riprodotto è stato elaborato da: Paolo Branca, docente di Lingua e letteratura araba nell’Università Cattolica di Milano; Stefano Allievi docente di Sociologia nell’Università di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle Università di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale-Italia e del suo direttore, Giovanni Sarubbi. E’ caduta tradizionalmente alla chiusura del periodo di digiuno e purificazione previsto dalla religione islamica (ramadan). Per conoscere le iniziative connesse alla Giornata (oltre che accedere a numerosi articoli e documenti sui temi del dialogo cristiano-islamico) si può consultare il sito www.ildialogo.org


E’ necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza.

Il diritto alla differenza non può mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.

La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale «massa critica» da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, sia da parte italiana sia da parte islamica, con numerose iniziative conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo, ma proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri Paesi europei, ci sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini - italiani e non - coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.

Per questo (…) riteniamo doveroso richiamare alcuni punti che ci paiono di cruciale importanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiranno come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica. La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende a enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.

Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità ci spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune. Per questa ragione pensiamo che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospetto e di rivalsa che in taluni - da entrambe le parti - sembra purtroppo prevalere. I punti che ci pare necessario richiamare sono:

1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per promuovere una reale partecipazione. dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo è utile in particolare partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche. Interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia, ecc.) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci. 

2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalità per evitare il formarsi di società parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino come corpi estranei: il diritto alla differenza non può e non deve mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.

3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della condivisione di valori, interesso e impegno comune al servizio della collettività.

4. Dare priorità alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria specificità culturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi condivide i loro problemi e le loro aspirazioni, attività che favoriscono contatti, scambi e integrazione. 

5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione a quanti intendono svolgere funzioni di servizio alle comunità, specie nei ruoli di orientamento e di guida. Non si tratta ovviamente di formare i ministri del culto, ma di favorire l’emersione e il consolidamento di competenze e capacità specifiche tra coloro che già operano nei diversi gruppi, affinché la loro azione sia maggiormente adeguata alle finalità dell’integrazione e della partecipazione alla vita del Paese in cui risiedono.

6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle differenti culture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civiltà. Laddove siano presenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la conservazione e lo sviluppo della lingua d’origine (del resto già in atto, in forma sperimentale) andrebbero diffusi e sostenuti. Tali interventi non sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immigrati, ma contribuirebbero alla trasformazione dell’intero settore scolastico non sarebbe adeguato che alla realtà di un mondo sempre più interdipendente se restasse ancorato a forme di istruzione centrate soltanto sulla cultura locale.

7. Incoraggiare i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa e imparziale.

8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle società di provenienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione economica ma anche allo sviluppo della società civile, al rispetto dei diritti umani e alla valorizzazione del pluralismo ad ogni livello.

9. Valorizzare l’azione delle istituzioni locali, che sono a contatto diretto con le realtà di base, nel promuovere iniziative che - per la qualità degli interventi e le loro ricadute positive sul territorio - possono costituire dei modelli validi anche per analoghe situazioni, in stretto contatto con le agenzie culturali e religiose che già operano in tal senso.

10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza rinunciare allo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche iniziative informative, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di gruppi che affrontino insieme tematiche specifiche di comune interesse. Ciò favorirebbe inoltre lo sviluppo di prospettive professionali che facciano tesoro delle competenze e delle capacità di chi si distingue nel lavoro interculturale.

(da Popoli, ottobre 2006)

Pubblicato in Dialoghi

Dialogo ecumenico

Spiritualità e mistica: frontiere esigenti

di Andrea Pacini

Il dialogo della spiritualità è formalmente riconosciuto come un livello importante attraverso cui si è chiamati a sviluppare il dialogo interreligioso. A questo esorta il documento Dialogo e annuncio. Al dialogo della spiritualità sono riconducibili, tra le altre, le iniziative promosse dall’Interfaith Monastic Dialogue negli Stati Uniti o, a livello locale, il dialogo orante attuato dai monaci trappisti di Tibhirine con i membri di una confraternita sufi algerina, di cui rimane memoria nei loro scritti.

Tuttavia, accanto a tali esperienze di alto livello, non si può non notare la diffusione di un generico richiamo al dialogo a partire dall’esperienza spirituale che presenta non poche ambiguità: spesso prende infatti la forma di una sorta di invito al superamento della dottrina che divide, a favore di un incontro a un livello più profondo, spesso denominato "mistico". Ma proprio sulla mistica occorre un chiarimento.

In effetti una corretta comprensione del dialogo della spiritualità rimanda certamente all’esperienza religiosa vissuta dai seguaci delle diverse tradizioni religiose e rinvia al ruolo della mistica come ambito di dialogo. Per muoversi in tale prospettiva occorre essere consapevoli che la dimensione mistica rappresenta il nucleo fondamentale di ogni tradizione religiosa specifica.

In quanto tale, il suo concetto generale dovrebbe piuttosto essere declinato nell’accezione plurale di "mistiche": proprio perché la dimensione mistica svolge il ruolo di riferimento esistenziale fondante e di orientamento fondamentale dell’esperienza religiosa proposta dalle diverse tradizioni, ogni religione ha una specifica espressione mistica, che riceve senso e conferisce senso all’interno della religione specifica.

Questa prima precisazione è fondamentale, perché riconduce la mistica alla sua realtà più vera: quella cioè di esprimere sul piano dell’esperienza religiosa vissuta l’orientamento più profondo sotteso alla specifica tradizione religiosa praticata.

Nello stesso tempo viene corretta una possibile interpretazione erronea della mistica, quella cioè di essere una sorta di religio perennis (religione perenne), che come un fiume carsico scorre nella vita spirituale dell’umanità ed emerge concretamente nelle religioni storiche. In effetti, nel rapporto religione/mistica è la religione specifica che ha la priorità: quest’ultima con la sua dottrina e i suoi precetti (spirituali e morali) definisce la visione di Dio (o Realtà assoluta), del mondo e della realtà, nonché l’orientamento dell’uomo in rapporto alla globalità dell’esistente, e quindi definisce l’orientamento mistico.

Le mistiche esprimono quindi la tradizione religiosa di riferimento; per questo si possono suddividere almeno in due grandi categorie rispetto alle religioni di cui sono espressione: le mistiche interpersonali e le mistiche fusionali.

Le mistiche interpersonali esprimono l’esperienza spirituale nelle cosiddette religioni profetiche (ebraismo, cristianesimo, islam), caratterizzate – sia pure con differenze tra loro – dalla fede in un Dio unico e "personale", con il quale l’uomo è chiamato a sviluppare un rapporto interpersonale, anche se le modalità e il termine ultimo di tale rapporto differiscono per le tre religioni.

Le mistiche fusionali sono espressione delle grandi religioni orientali (hinduismo, buddismo) la cui finalità è far compiere al soggetto l’esperienza della non dualità, ovvero di sperimentare la propria coincidenza con il "tutto esistente" (la realtà assoluta) in cui la consapevolezza individuale si annulla. Si tratta di due orientamenti spirituali molto diversi e ci si può chiedere fino a che punto esprimano una stessa esperienza: si tratta di una questione cui può rispondere solo un dialogo della spiritualità assunto in modo rigoroso.

All’interno delle cosiddette religioni profetiche occorre poi notare un accento forte sulla dimensione morale, che crea un campo di tensione con l’esperienza mistica. Nell’ebraismo la mistica cabalistica si è sviluppata in tensione con l’insegnamento rabbinico tradizionale, più preoccupato di offrire una formazione morale e religiosa di tipo normativo.

All’interno dell’islam ortodosso ufficiale la mistica (il sufismo) ha una collocazione problematica per almeno due motivi: per la possibile relativizzazione in termini di superamento del ruolo della legge (la shari’a), considerata mediazione ineludibile per attuare la sottomissione a Dio in cui consiste il nucleo della religione musulmana; e per l’orientamento finale che i maestri sufi propongono, ovvero l’esperienza dell’unione con Dio. Questo concetto è assai poco condiviso all’interno dell’ortodossia ufficiale, che radicalizza la categoria di tawhid, unicità, per la quale non si può definire il rapporto dell’uomo con Dio, assolutamente trascendente, nei termini di "unione".

Occorre infine evidenziare come all’interno del cristianesimo la mistica riceva un’accezione propria, in quanto si presenta come mistica cristologica: infatti coincide con l’esperienza stessa della fede cristiana, in cui "morale" e "mistica" sono funzioni interdipendenti dell’unica caritas. Ma la caritas, prima di essere esperienza morale e spirituale dell’uomo, è la stessa identità (natura) del Dio uno e trino, che precede ogni risposta ed esperienza umana e ne costituisce la condizione di possibilità («Dio ci ama per primo»).

La mistica è cristologica perché trova in Cristo il suo luogo personale di manifestazione e di esperienza: in lui, vero Dio e vero uomo, si attua in sommo grado la comunione tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo. Propriamente parlando, la mistica cristiana coincide con la persona di Gesù, che nella sua unicità è mediatore universale della "comunione" tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio. Qui è l’essenza del mistero cristiano.

La mistica cristiana è dunque cristologica, perché implica la mediazione ineludibile di Cristo ed è suo "dono", e perché consiste nella trasfigurazione in Cristo della vita personale dei credenti, cioè assumere il pensiero, i sentimenti, l’amore, la volontà di Cristo. Ne consegue un rapporto indissolubile tra mistica e morale, e tra mistica e storia in prospettiva escatologica.

Poste queste troppo sintetiche precisazioni, nel considerare il rapporto tra le diverse mistiche in vista del dialogo interreligioso, occorrerà evitare con cura sia il sincretismo, cui rimanda ad esempio il concetto di religio perennis sopra menzionato, sia l’esclusivismo. Il sincretismo confonde ciò che è generale con ciò che ha valore supremo, ciò che è comune con ciò che è specifico, scambiando gli aspetti comuni con il sostrato ultimo. In definitiva finisce per dissolvere le identità delle diverse religioni con il rischio di "inventare" espressioni religiose nuove e quanto mai vaghe, di cui la galassia delle varie forme religiose riconducibili alla New Age sono un possibile tipo di espressione accanto ad altre di ispirazione esoterica.

L’esclusivismo è l’errore opposto, che implica il considerare le mistiche non cristiane in netta opposizione con la fede cristiana, vedendone solo gli elementi di differenza e sottoponendoli a un giudizio puramente negativo.

Si tratterà invece di valorizzare, pur nella loro differenza, gli orientamenti mistici presenti nelle diverse tradizioni religiose per avviare a partire da essi un dialogo di scambio e di riflessione sulle reciproche esperienze spirituali, verificandone la sintonia con i valori evangelici e avendo, da parte cristiana, il criterio cristologico come elemento fondamentale di valutazione e di discernimento.

In questa prospettiva il dialogo della spiritualità è certamente la frontiera più affascinante e significativa del dialogo interreligioso, ma proprio per questo rappresenta il livello più impegnativo e più delicato in cui il dialogo può spingersi, rispetto al quale occorre evitare ogni tipo di banalizzazione.

(da Vita Pastorale, n. 2, 2007)

Pubblicato in Dialoghi
Martedì, 13 Marzo 2007 23:55

Mio fratello musulmano (Samir Khalil Samir)

Mio fratello musulmano

di Samir Khalil Samir


Il dialogo con l’islam richiede amore sincero. Non gesti ambigui.

Subito dopo Natale è scoppiata una polemica a Cordoba, orchestrata dalla stampa internazionale: il vescovo Juan José Asenjo Pelegrina ha osato rigettare la richiesta della Giunta islamica di Spagna presieduta dal convertito Mansur Escudero, che chiedeva che i musulmani potessero pregare nella cattedrale. Il motivo è che otto secoli fa la cattedrale era una moschea, senza ricordare che tredici secoli fa era una basilica. Il vescovo ha spiegato che una cosa simile avrebbe «generato confusione tra i fedeli» e «non contribuirà a una coabitazione pacifica tra i credenti». «Noi, cristiani di Cordoba, desideriamo vivere in pace con i credenti di altre religioni, ma non vogliamo essere sottomessi a pressioni continue che non contribuiscono alla concordia». Allora Mansur ha steso il tappeto davanti alla cattedrale e vi ha pregato.

Poco prima, i musulmani di Colonia avevano chiesto di poter pregare nel famoso duomo della città, e il cardinale Joachim Meisner vi si era opposto. A novembre, lo stesso porporato aveva vietato ai professori di religione cattolica della diocesi di organizzare preghiere interreligiose, perché i bambini non erano in grado di fare le dovute distinzioni. È stato vivamente criticato da politici e insegnanti. A quando il prossimo scandalo europeo?

Nonostante questi casi, a me sembra che il dialogo con l’islam stia entrando in una fase più autentica. Questi due rifiuti si capiscono. Negli anni Settanta-Ottanta si è un po’ diffusa la pratica di prestare ai musulmani - non senza ambiguità - luoghi di culto cristiani, ma già il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, l’aveva vietato nella sua diocesi. Oggi tutte le città europee in cui ci sono musulmani hanno una moschea, e dunque questa pretesa non si capisce più. Un conto è pregare insieme in un’aula, su testi non sacri, un conto è farlo in una cattedrale.

Ma il Papa, si dirà, ha pregato con il gran muftì d’Istanbul nella moschea blu, il 30 novembre scorso. È stato un gesto bellissimo, spontaneo, su proposta dello stesso Mustafa Cagrici: ambedue si sono raccolti in preghiera per un minuto, orientati verso la Kaaba, e il Santo Padre ha adottato l’atteggiamento del muftì. Personalmente, quando mi succede di entrare in una moschea, la prima cosa che faccio è di pregare per i musulmani, affinché Dio li sostenga e li colmi di benedizioni. Dopo tutto, una moschea è un luogo dal quale salgono milioni di preghiere verso il Padre di tutta l’umanità.

Una cosa è un gesto personale e puntuale, un’altra è un atto collettivo e organizzato. E se, per qualche motivo legittimo, un altro vescovo decidesse di far cessare questa pratica, come ci riuscirebbe senza suscitare ancora più veleno? Nel 1974 Saddam Hussein, allora vicepresidente del Consiglio della Rivoluzione, in visita a Cordoba, pregò nella cattedrale: non fu un precedente, ma un’eccezione. Che i musulmani, entrati in un luogo cristiano, preghino discretamente e silenziosamente, è bello. Ma se si mettessero a compiere la salât, cioè la preghiera rituale musulmana, sarebbe irriverente. Lo stesso andrebbe detto se io celebrassi la nostra salât, cioè la Messa, in una moschea: sarebbe una provocazione!

Il dialogo richiede discernimento. Ogni gesto ambiguo porta più danno che beneficio, anche se l’intento è buono. Il dialogo richiede amore sincero. Il musulmano è mio fratello. L’islam può essere un progetto sociologico, culturale, politico o militare, oppure spirituale e religioso; ma il musulmano non è un progetto, è un uomo come me, che va rispettato nella sua dignità di persona e di credente, e amato con lo stesso amore che nutro verso il cristiano. Amore e verità, affetto e discernimento sono inseparabili e ci permettono di basare il dialogo interpersonale su fondamenta solide. Trattandosi di musulmani, il fondamento è Dio stesso. Anche per questo il vero dialogo non può fare a meno dell’annuncio del Vangelo, come d’altronde il musulmano sincero e pio che mi vuol bene mi annuncia Dio come l’intende lui. Lungi dall’essere un’aggressione, l’annuncio è amore servizievole. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s’impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà. In questo senso, i dialoghi di cui ho parlato si compenetrano a vicenda.

(da Mondo e Missione, Febbraio 2007)

Pubblicato in Dialoghi

Nei rapporti con l’ebraismo e l’islam

Sincero rispetto e lucido realismo

di Enzo Bianchi

Le tre religioni professano il monoteismo e si rifanno tutte e tre al Dio di Abramo. Il cristianesimo, però, presenta dei tratti che non sono ascrivibili al monoteismo delle altre due confessioni di fede. È allora ovvio che il dialogo a livello teologico sia asimmetrico e difficile, ma va incentivato tra i credenti il confronto sui temi che interessano l’umanità.

Il monoteismo, cioè la confessione di un Dio uno e solo, è un dato innanzitutto ebraico, ma poi, con il sorgere del cristianesimo e dell’islam, è stato declinato al plurale ("i monoteismi") a indicare le tre grandi religioni ebraica, cristiana e islamica.

È vero che esse riconoscono un Dio unico che identificano con il Dio di Abramo e di conseguenza tutti i loro credenti si sentono figli di Abramo, ma va detto con chiarezza che il cristianesimo presenta dei tratti che non sono ascrivibili al monoteismo delle altre due confessioni di fede.

1 Innanzitutto perché i cristiani non confessano solamente un Dio unico, ma un Dio fatto uomo in Gesù Cristo: Dio non è piu il "distinto", il "Santo" e quindi non uomo, non mondano, ma è invece Dio fatto carne, umanizzato nella storia e sulla nostra terra in Gesù, suo Figlio. Di conseguenza, i cristiani confessano Dio quale unico e uno, ma anche comunione (koinonia) del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Si potrebbe quindi porre la domanda: può il cristianesimo dirsi ancora un monoteismo? Sì, ma con delle specificazioni che mettono in evidenza la sua singolarità rispetto a ebraismo e islam.

2 Una seconda osservazione deve chiarire che proprio l’eredità della fede condivisa è diventata, come spesso accade nelle famiglie, motivo di gelosia, di opposizione e perfino di violenza. Ciascuno dei tre è stato persecutore e perseguitato dall’altro monoteismo – certo in misure molto diverse, anzi sproporzionate, e da valutarsi storicamente in modo differenziato, perché gli ebrei hanno perseguitato i cristiani solo nei primi decenni del cristianesimo – o comunque si è sempre trattato di un rapporto conflittuale e di rivalità. Così, la storia dei tre monoteismi è purtroppo segnata da opposizioni e violenze reciproche e quindi il dialogo intrapreso da alcuni decenni abbisogna di una "purificazione della memoria" e di una volontà di riconciliazione che ancora oggi paiono assai difficili e dense di contraddizioni.

Cristiani verso gli ebrei...

Quale atteggiamento si esige allora da parte dei cristiani nei rapporti con gli altri due monoteismi? Con l’ebraismo, innanzitutto. Un primo problema sorge con la definizione del partner dei cristiani in questo confronto: chi è l’Israele con cui tessere il dialogo? Infatti, è risaputo che l’ebraismo si presenta come una realtà complessa ed eterogenea.

Certamente è l’Israele credente, quello che l’apostolo Paolo chiama «l’Israele di Dio» (Gal 6,16), quello che noi possiamo chiamare ancora "popolo di Dio" in alleanza con lui. Ma attenzione, a rigor di termini, gli ebrei dell’epoca successiva alla nascita di Gesù non sono "fratelli maggiori" perché sono figli dell’Antico Testamento come lo sono i cristiani.

La Chiesa non si è sostituita al popolo di Israele in alleanza con Dio, quindi non è figlio minore, né figlio adottato: potremmo dire che ebrei e cristiani dei popoli dell’era volgare sono due "figli gemelli" dell’antica alleanza, due interpretazioni diverse dell’unico patto. Tra di essi, come scriveva già l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani (11,11-15), regna gelosia ed emulazione, ma occorre che questa sia vissuta non gli uni contro gli altri bensì come "zelo buono" per l’unico Dio vivente e per la promessa che egli deve ancora portare a pieno compimento.

Sì, da parte dei cristiani a volte c’è il rischio di "giudaizzare", conducendo con gli ebrei un tipo di dialogo che diminuisce e svuota la singolarità cristiana. Ora, l’Antico Testamento ci unisce, Gesù "ebreo per sempre" ci unisce e tuttavia, nel contempo, ci divide, perché per noi cristiani non è solo un profeta o un rabbi, ma l’uomo che ha "narrato" (exeghesato, Gv 1,18) il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, l’uomo che è la stessa parola di Dio fatta carne. Oggi, ed è questa la novità, alcuni grandi rabbini o studiosi rileggono da ebrei la vicenda di Gesù di Nazaret e dissipano l’antico e tradizionale disprezzo verso di lui. Sarà possibile intraprendere un dialogo veramente interreligioso, cioè un dialogo che riguardi la fede di Israele e della Chiesa per condurre insieme una ricerca attorno all’identità di Gesù di Nazaret?

Certo, sappiamo che questo dialogo non è teologicamente simmetrico: gli ebrei possono leggere l’Antico Testamento senza i cristiani – cosa che noi cristiani non possiamo fare – ma anche questa asimmetria può avere una dinamica nella pratica dell’ascolto cordiale reciproco. Il dialogo, infatti, resta necessario e non vi è spazio all’autoreferenzialità dell’«io non ho bisogno di te». L’essere fratelli "gemelli" ci chiede di accedere a una fase nuova del dialogo in cui ebraismo e cristianesimo, nati dallo stesso ceppo, imparino a percepirsi capaci di interrogarsi l’un l’altro.

...e verso l’islam

Per noi cristiani l’islam resta un "enigma": come può esserci per volontà di Dio una "nuova profezia" dopo Gesù, unico e definitivo mediatore e rivelatore di Dio? L’islam resta una realtà che non si può giustificare a partire dalla fede cristiana, una realtà esterna e, in un certo senso, non necessaria ed estranea. Non a caso, alcuni padri della Chiesa, da Giovanni Damasceno in poi, lo hanno letto come una "eresia cristiana".

Ma oggi noi cristiani riusciamo forse a leggere nell’islam una profezia anti-idolatrica, che ha portato la fede monoteistica alle genti attraverso la lotta contro l’idolatria presente in chi non conosce il Dio unico. Tuttavia le difficoltà del dialogo – dovute alla storia vissuta, alla non contemporaneità tra Paesi musulmani e Occidente, alla presenza aggressiva di componenti fondamentaliste nel mondo musulmano – permangono e stiamo solo muovendo i primi passi: giustamente monsignor Henri Teissier, arcivescovo di Algeri, ha osservato che nel dialogo con l’islam siamo all’età della pietra.

Anche in questo campo il dialogo, pur necessario, non è teologicamente simmetrico perché, mentre l’islam si considera continuazione autentica della rivelazione di "Gesù profeta dell’islam" e giudica il cristianesimo esistente come un’alterazione del messaggio evangelico, per noi cristiani tutto è stato detto e rivelato in Gesù Cristo, Signore e salvatore dell’umanità. Quale dialogo, allora, con l’islam? Certo, il dialogo teologico è molto difficile e va pensato come «ricerca sulla rivelazione di Dio» da entrambe le parti, ma per giungere a questo occorre un dialogo franco, rispettoso, che voglia essere un autentico servizio all’umanità, alla giustizia, al rispetto di ogni essere umano, alla pace.

Occorre cioè un dialogo che si nutra della "ragione", come ha richiamato Benedetto XVI, un dialogo che accetti il confronto sui temi che interessano l’umanità, condotto da credenti nel Dio unico che si propongono di camminare insieme sulle vie dell’umanizzazione. La libertà di professare la propria fede, la laicità delle istituzioni politiche, il confronto che rifugge la violenza e rigetta il terrorismo, la capacità di rileggere insieme la storia sono tutti temi sui quali oggi esistono differenze e anche conflitti, ma essi devono diventare nuove occasioni offerte ai credenti per mostrare, una volta spogliato dalle proiezioni perverse che alcuni ne fanno, il volto autentico del Dio unico e vivente.

Certo, con l’islam noi cristiani dovremmo comunque avere l’atteggiamento e i sentimenti di Gregorio VII che, nell’XI secolo, così scriveva ad Anzir, re della Mauritania: «Non c’è nulla che Dio approvi più del fatto che un uomo ami un altro uomo e che ciò che uno non vuole sia fatto a lui, non lo faccia a un altro. È questo amore, dunque, che noi cristiani e voi musulmani dobbiamo avere tra di noi in modo speciale, più che nei confronti di altre genti, perché crediamo e confessiamo, sebbene in modo diverso, un solo Dio che ogni giorno lodiamo e veneriamo come creatore dei secoli e reggitore di questo mondo» (PL 148, 450).

(da Vita Pastorale, 2 2007)

Bibliografia

Khoury A.T. (a cura di), Dizionario comparato delle religioni monoteistiche. Ebraismo - Cristianesimo - Islam, Piemme 1998, Casale Monferrato; Fumagalli P.F. (a cura di), Fratelli prediletti. Chiesa e popolo ebraico, Mondadori 2005, Milano; Caspar R., Pour un regard chretien sur l’Islam, Bayard 2006, Paris.

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