In ricordo di P. Franco

Attenzione

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Lunedì, 03 Marzo 2014 09:15

Laicità

Questo testo è liberamente tratto da un incontro tenuto da padre Franco Gioannetti sul tema della laicità. Un incontro tra pochi amici, un piccolo dono che Franco ha voluto fare ai redattori di Dimensione Speranza il 23 ottobre 2010 e che oggi, in occasione del secondo anniversario della sua morte, vorremmo condividere con i visitatori del sito da lui fondato.

Giovedì, 07 Marzo 2013 18:35

Il sorprendente cammino di Padre Franco

I veri cammini di fede non sono mai lineari, prevedibili. Di certo non lo è stato quello di padre Franco Gioannetti. Padre Franco ha scoperto piuttosto tardi la sua vocazione sacerdotale, dopo una brillante carriera in banca. Poi, attorno ai trent’anni, la decisione di entrare nella congregazione della Società di Maria (Padri maristi).

Nei cinquant'anni che ci separano dal Concilio Vaticano II molte cose sono cambiate. Anche l'atteggiamento nei confronti di Pierre Teilhard de Chardin è mutato, e profondamente.

CONVEGNO “EDUCARE NELLA SOCIETÀ DELLA COMUNICAZIONE”

L’educazione al tempo di Internet e dei nuovi media

 di Marco Galloni


Venerdì 27 maggio 2011, presso lo Scout Center di largo dello Scoutismo in Roma, si è svolto il convegno “Educare nella società della comunicazione”, organizzato da Dimensione Speranza con il patrocinio del Municipio di Roma III e della Provincia di Roma. Nell’articolo “Quando la comunicazione è nemica dell’educazione”, pubblicato in questo stesso sito, sostenevamo che educazione e comunicazione possono talvolta entrare in conflitto. Questo non significa che i nuovi mezzi di informazione digitali siano intrinsecamente nemici dei processi educativi, tutt’altro. Ma occorre imparare a utilizzarli bene, il che non è facile né scontato. È quanto ogni giorno cercano di fare, ciascuno secondo la propria professione e vocazione di educatore, i relatori che hanno partecipato al convegno: Marco Accorinti, sociologo; Giorgio Asquini, pedagogista; don Filippo Morlacchi, direttore dell’ufficio scuola della Diocesi di Roma; Mauro Del Giudice, sociologo e educatore scout; Mario Tedeschini Lalli, giornalista; ha moderato l’incontro Francesco Scoppola, assistente parlamentare e scout anch’egli.

Il titolo del convegno organizzato da Dimensione Speranza per il 27 maggio 2011, “Educare nella società della comunicazione” (vedi locandina), non è poi così esplicito come a prima vista potrebbe sembrare.

Lunedì, 09 Febbraio 2009 13:16

GARANTE DELLA VITA

GARANTE DELLA VITA
di Mariuccia Ciotta - da "Il manifesto", domenica 8 febbraio 2009
(abstract)

Il mio potere "garantisce la vita", è questo che ci dice Silvio Berlusconi aprendo il conflitto con il Quirinale e la magistratura. E per farlo è pronto a sfidare le istituzioni così come le conosciamo. E' pronto al grande spettacolo che in queste ore divide gli italiani in una corsa contro il tempo, una specie di thriller offerto alla sua platea di telespettatori, educati al gioco di chi vince e chi perde. Un gioco macabro per "fermare il boia" tra preghiere, invocazioni, attese di un miracolo perché "tra 48 ore non ci sarà più nulla da fare".
E' uno scarto, uno slittamento simbolico dal sistema di regole democratiche, divisioni di poteri e competenze a un'interpretazione della politica come incarnazione di un'entità che controlla i cittadini, non si limita più a difenderli dalla morte ma concede loro la vita, la felicità. A chi si chiede il perché di un comportamento politico inspiegabile e al limite dell'autolesionismo, Berlusconi risponde che ha dovuto fermare "una vera e propria uccisione", e per questo è pronto a licenziare i ministri dissidenti, a rompere con l'alleato presidente della camera, a entrare in rotta di collisione con Napolitano, a negare una sentenza della Corte di Cassazione e a cambiare la Costituzione.
Berlusconi si presenta "umano" quando i giudici non lo sono, disposto per la prima volta a ignorare i sondaggi, anzi a mettersi contro l'opinione pubblica perché il popolo deve affidarsi a lui, prendere atto che non è più rappresentato dalla "cultura dello statalismo e della morte" ma dalla "cultura della verità e della vita", la sua. Il ruolo del Vaticano, il suo pressing martellante, sarà pure stato importante, ma non decisivo.
Già in altre occasioni Berlusconi ha lasciato "libere le coscienze" dei suoi in un misto di laico-anarchismo che teneva fuori le questioni etiche. Adesso no, adesso è lui il "papa" che propone una drastica riconversione della morale pubblica guidata da un principio di autorità totalizzante. Solo attraverso l'assunzione del biopotere, il potere che ha accesso al corpo, Berlusconi può scardinare le istituzioni che gli stanno strette, fare quel salto necessario per liberarsi dai lacci giuridici, governare a colpi di decreti, saltare il parlamento, essere il re.
Eluana è il terreno di questa sfida, Eluana che ha "un bell'aspetto" e mantiene "il ciclo mestruale", tanto da poter generare figli in una proiezione immaginaria aberrante della ragazza incosciente da 17 anni, privata di una vita di relazione, affetto e linguaggio, privata cioè della capacità di resistenza contro l'invasione di un dominio che trae vantaggio dalla sua persona.
E' un'operazione che sconfina nell'horror, mascherata da pietà e che sollecita i sentimenti peggiori, contro la "crudeltà dei medici", contro il padre di Eluana che "vuole togliersi una scomodità", contro il capo dello stato e il suo subdolo tentativo di sdoganare l'eutanasia. Non importa se il decreto prima e ora il disegno di legge non arriveranno in tempo a "salvare la condannata a morte", Berlusconi passerà il week-end a Cagliari in campagna elettorale e convocherà le camere lunedì, a dimostrazione del suo cinismo e della sua strumentalità. Quel che conta è l'aver disegnato uno scenario su misura per le sue aspirazioni e costretto sulla difensiva chi davvero sta dalla parte della vita intesa come espressione di una natura umana fatta di rapporti, cooperazione, amore.
Uno scenario popolato dai teo-con sconfitti dalla storia, i crociati della "guerra infinita", sferrata in questi giorni contro immigrati e clochard, e che attraverso Eluana, trofeo e simbolo di conquista, sperano di possedere i vivi.

 

Giovedì, 04 Dicembre 2008 18:51

CONDANNATI DAL VATICANO

CONDANNATI DAL VATICANO

di Aurelio Mancuso - da "Il Manifesto" di martedì 2 dicembre 2008
(abstract)

Ma perché il Vaticano ha deciso di mettersi nel novero dei paesi che concepiscono il reato di omosessualità? Quale ispirazione divina ha consigliato al rappresentante della chiesa presso l'Onu di scagliarsi contro la richiesta presentata dal governo francese, e sottoscritta anche da quello italiano, di depenalizzare l'omosessualità? Circa novanta paesi nel mondo prevedono il reato di omosessualità, una cinquantina di questi lo puniscono con il carcere, le sevizie, la tortura, i lavori forzati, di questi una decina prevedono la pena capitale. Non c'è ragione ideale, religiosa, culturale che possa giustificare una simile presa di posizione vaticana. (...) Siamo davvero raggelati da un papato che ci attendevamo arcigno, antiquato, fedele alla peggior tradizione preconciliare. Ma ora si è andati oltre, si è percorsa una strada senza ritorno. Lo stato teocratico vaticano si è messo pubblicamente allo stesso livello dell'Iran, degli altri regimi islamici, delle peggiori dittature di tutti i colori, passate e purtroppo presenti.
Da sempre l'osservatore vaticano presso l'Onu intriga, preme, blandisce decine di diplomazie del mondo affinché i diritti umani siano negati, quando non confacenti ai dettami della religione cattolica. Sull'ormai tristemente noto Lexicon, edito alcuni anni fa, summa dottrinale della curia sulle libertà e i diritti, alcune organizzazioni internazionali venivano ferocemente attaccate perché lassiste sull'aborto, sulla contraccezione e così via.
Da sempre in alleanza con i peggiori regimi, a volte stringendo pubblicamente la mano a dittatori sanguinari, il papa e i suoi emissari hanno promosso campagne internazionali di inaudita violenza. Nulla a che vedere con il messaggio cristiano e con il Vangelo. Solo pura pratica di potere, conservazione di una eretica storia di dominio sulle terre, invece che di guida spirituale delle anime.
La storia drammaticamente si ripete e se possibile riesce a stupire rilanciando una visione cattolica proprietaria del mondo, di oppressione delle libertà, di giustificazione dell'assassinio di massa, quando questo è coerente con l'impostazione tradizionale della chiesa. Non c'è sentimento di vergogna che sia sufficiente, e ora attendiamo cosa sapranno dire vescovi, sacerdoti, popolo di Dio, da molti anni silenti. Vediamo cosa sapranno inventarsi i nostri politici, soprattutto quelli del variegato centrosinistra.
Quello che è accaduto non ha giustificazione alcuna, non è ammissibile nella comunità internazionale che si dice democratica. Ma il nostro è il paese del tutto è possibile; quindi attendiamo, sperando che vi sia finalmente una reazione degna di questo nome, dentro e fuori la chiesa, nella società civile, per amore della vita, di quella esistenza etero od omosessuale che non può essere violata da nessuno.

Venerdì, 08 Agosto 2008 20:19

LA MAFIA NAPOLETANA E I ROM

LA MAFIA NAPOLETANA E I ROM

di Fabrice Rizzoli* - “Liberation”, 4 agosto 2008

(abstract)

Il 13 maggio (2008 – n.d.t.) un’ondata di violenza si è improvvisamente abbattuta sui rom che vivono nel quartiere Ponticelli di Napoli. I loro campi, i cui occupanti erano stati precedentemente allontanati dalla polizia, sono stati saccheggiati e incendiati dagli abitanti del quartiere. La popolazione di Ponticelli ha “giustificato” la rappresaglia con il tentato rapimento di una bimba di sei mesi compiuto due giorni prima da una sedicenne rumena fuggita da una casa di accoglienza per minorenni. Da rumeno a rom il passo è breve, ci sono solamente due sillabe.
In Italia, come dappertutto in Europa, i rom vivono in condizioni spaventose: i campi di fortuna installati in discariche abusive o sotto i ponti sono isole di miseria nel cortile dell’occidente. Qui come ovunque i rom vivono – o piuttosto sopravvivono - di accattonaggio e della vendita di metalli di recupero. I rom sono stanziali da ormai lungo tempo e tuttavia continuano a soffrire dei pregiudizi multisecolari che gravano sui popoli nomadi, i gitani, gli zigani, i manouche. Durante la seconda guerra mondiale i “ladri di polli e di bambini” si sono ritrovati accanto agli ebrei, sterminati nei campi nazisti.
Nel quartiere napoletano di Ponticelli oltre 1500 rom vivono all’interno di “microcampi” costituiti ciascuno da una dozzina di baracche installate su discariche illegali o sotto i ponti. Il quartiere non è immune dalle influenze della mafia. Esso è controllato dal clan Sarno. Ciro Sarno, il capo del clan, è in prigione, ma i suoi luogotenenti continuano a obbedirgli. La mafia ha autorizzato i rom a vivere sui suoi territori dietro pagamento del pizzo, un’imposta di 50 euro al mese. Il clan consente in questo modo ai rom di chiedere l’elemosina e di gestire le discariche illegali. Ogni giorno essi visitano i garage, le officine e le aziende della zona per fare incetta di batterie e di altri materiali inquinanti; le imprese pagano dai 5 ai 15 euro per sbarazzarsi di tali materiali. Il clan autorizza altresì i rom a rubare negli appartamenti. In compenso è stato loro interdetto il centro di Ponticelli, là dove gli uomini della camorra vendono droga. Cos’ha spinto gli abitanti di Ponticelli a prendersela con i rom? Dietro la popolazione c’è ancora una volta la mafia: fra le persone fermate dalla polizia in occasione delle manifestazioni e dei disordini comparivano le donne di mafiosi e alcuni complici della camorra dalla fedina penale pulita. È sufficiente che si presenti una buona occasione (il tentativo di rapimento, i cui contorni rimangono peraltro da chiarire) perché la mafia passi all’azione. Un’azione assai proficua sotto diversi punti di vista. Innanzitutto la mafia mette in ridicolo lo stato italiano, che si rivela incapace di proporre soluzioni concrete al problema dell’immigrazione rumena. Agli occhi della popolazione, inoltre, il clan – correndo in aiuto di una bimba rapita e liberando il quartiere dai “ladri di galline” – si pone come garante della giustizia. La mafia ha ulteriormente aumentato il proprio capitale di consenso sociale a Napoli. Ma queste espulsioni in chiave mafiosa potrebbero nascondere un’operazione di speculazione immobiliare. Le terre bruciate durante i disordini del 13 maggio fanno parte di un piano di urbanizzazione. Da meno di un mese sono state indette gare d’appalto per la costruzione di residenze, appartamenti, scuole e ospedali. Un finanziamento di 7 milioni di euro è già disponibile. Ma, se i lavori non dovessero iniziare prima di agosto, alcune persone perderebbero denaro. Chi?

* Fabrice Rizzoli è consulente di criminologia presso il “Centro francese di ricerche sull’informazione”.

Sabato, 21 Giugno 2008 00:04

APPELLO ALLA MOBILITAZIONE

APPELLO ALLA MOBILITAZIONE

di Nando dalla Chiesa - Comitato milanese per la legalità - 19 giugno 2008

(abstract)

Rompiamo gli indugi. Il nuovo assalto di Silvio Berlusconi ai principi di legalità e alla giustizia non può vederci testimoni immobili e dunque complici. Ancora una volta il potere politico viene usato per tutelare posizioni processuali personali, senza alcuno scrupolo né verso i principi costituzionali né verso gli effetti che si producono a cascata sull’amministrazione della giustizia, sulla sicurezza e sulla libertà d’informazione. Le scelte accomodanti dell’opposizione si stanno rivelando semplicemente sciagurate. L’idea che l’acquiescenza verso Berlusconi sia segno di maggiore consapevolezza e maturità politica sta portando il Paese alla deriva, privandolo di una voce forte e coerentemente risoluta nella difesa della Costituzione e della decenza repubblicana in parlamento.
Noi crediamo che la logica alla quale Berlusconi sta assoggettando l’azione del suo nuovo governo e della sua maggioranza meriti una forte risposta democratica, libera dai complessi di colpa che la politica e l’informazione hanno cercato di gettare su chi negli anni passati si è mobilitato contro le leggi-vergogna e contro la manomissione della Costituzione. Non è stata la difesa dei principi di legalità costituzionale a fare perdere il centrosinistra, il quale anzi dal 2002 ha sempre vinto tutte le prove amministrative, fino alle politiche del 2006. Non è la nettezza dei principi che fa perdere, come ha dimostrato il divario tra i risultati di Rita Borsellino in Sicilia e i disastrosi risultati successivi. A far perdere voti è l’incapacità di governare emersa tra rivalità, ambizioni, narcisismi e rendite ideologiche ai danni del governo Prodi. Ed è, oggi, l’incapacità di rappresentare i propri elettori, sempre più inclini a non partecipare al voto.
Per questo invitiamo i cittadini milanesi a una prima mobilitazione in difesa della Costituzione e della giustizia per lunedì 23 giugno alle 18 davanti al Palazzo di giustizia, luogo simbolico per l’opinione pubblica legalitaria della città. Del tutto consapevoli che non siamo noi il “già visto”. Il “già visto”, la ripetizione infinita della storia, una storia di arroganze istituzionali, è Silvio Berlusconi. Davanti a noi c’è solo una scelta: se tacere per stanchezza o mettere una volta ancora le nostre energie al servizio della democrazia repubblicana e dello spirito delle leggi.

Giovedì, 19 Giugno 2008 00:54

LE “TRAVOLGENTI” OLIMPIADI CINESI

LE “TRAVOLGENTI” OLIMPIADI CINESI

di Alessandra Cappelletti – MC marzo 2008

(abstract)

Pechino. Il cuore pulsante di Pechino, gli spazi urbani più vivaci e intimi della megalopoli si chiamano hutong, termine che ci riporta indietro nel tempo: da hottog, che in mongolo significa “pozzo d’acqua”, ricordano la “città del khan, Khonbaliq, e le prime aggregazioni urbane in prossimità dei pozzi. La traduzione “vicoli” ne riduce l’importanza: gli hutong sonoluogo di incontro, comunicazione e socialità. Costituiscono una rete labirintica di stradine su cui si affacciano gli siheyuan, tradizionali complessi residenziali costituiti da quattro edifici disposti intorno a un cortile, di cui dal vicolo si vede solo l’alto muro grigio che li racchiude e i portali lignei d’ingresso finemente intagliati, decorati con scritte augurali e lanterne di un colore rosso acceso. l chioschi e le bancarelle fanno da sfondo agli anziani che mangiano jiaozi, iravioli ripieni, e giocano a mahjong, seduti su bassi sgabelli, mentre i bambini giocano e uomini in pigiama e vestaglia discutono sulle novità del quartiere. Il chiacchiericcio delle donne, le grida dei bambini e il parlottare degli anziani, il fruscio delle foglie degli alberi che abbelliscono e proteggono le corti, vengono interrotti solo dallo sferragliare dei risciò a pedali, gli unici a turbare la quiete di luoghi in cui la vita familiare, sociale, amministrativa e religiosa si svolge prevalentemente nello spazio comune che è la strada o il cortile. Oggi negli hutong il nemico temuto non è più lo sfrecciante risciò a pedali guidato da un affaticato ciclista, ma la ruspa. Le Olimpiadi del 2008 rappresentano la fine di questi antichi distretti e infliggono alla città ferite permanenti.

Dazhalan, morte di un distretto

Sono proprio queste ferite che preoccupano Ma Lian: «I bulldozer stanno cancellando centinaia di anni di storia. Tutta la mia famiglia ha sempre abitato nello stesso hutong, qui a Dazhalan. Anche io sto aspettando che la mia casa venga demolita». Circondato da cumuli di macerie e case sventrate, ogni mattina il 60enne Lian continua ad alzare la saracinesca del chiosco dove vende sigarette, bevande fresche e semi di zucca. Gli occhi vispi, in bocca solo due denti, dalla sua voce trapela rabbia: «Il turista dovrebbe rimanere colpito dalla ricchezza artistica di Pechino, ma ciò che vi troverà per le Olimpiadi sarà solo una città rifatta e priva di carattere».
Nessuno sa cosa sorgerà al posto di Dazhalan, un distretto popolare a cinque minuti da piazza Tiananmen, intreccio di hutong a sud della Città Proibita. La sua storia testimonia la peculiarità dell’area: il suo nome, in pechinese Dashilar, “grandi cancelli”, risale al 1670, quando per editto dell’imperatore fu ordinata la chiusura notturna dei vicoli. Mentre l’intero complesso della “Città Proibita” era circondato da alte e spesse mura e sottoposto al ferreo controllo del potere, a Dazhalan si garantiva la libertà di commerciare e divertirsi. Inoltre, in epoca Qing, quando l’imperatore vietò l’apertura di attività artistiche e commerciali all’interno delle mura della sua residenza, Dazhalan divenne il luogo che meglio di tutti gli altri accolse il fermento culturale e imprenditoriale degli abitanti di Pechino. Teatri, case da tè, antiche farmacie, cappellerie, templi, negozi di giada e seta, e “case dei fiori”, i tradizionali luoghi di divertimento notturno, resero Dazhalan un’attrattiva per mercanti, pellegrini e viaggiatori. Ancora oggi vi si trovano antiche librerie e antiquari, ristoranti dove si degustano le specialità di Pechino come l’anatra alla pechinese, attività artigianali di ogni tipo e teatri tradizionali. Ancora per poco.
Lo sguardo dell’anziano Feng si perde tra alti cornicioni di legno finemente intagliati, ormai scoloriti e rovinati dal tempo e dall’incuria. Barba bianca e canottiera nell’afa dei vicoli, così ricorda il passato del quartiere: «Questi erano tutti palazzi di artigiani della giada. Dopo le riforme di Deng Xiaoping, negli anni ‘80, sono cominciate ad apparire piccole attività commerciali, ristorantini e negozietti. Ho più di 70 anni e questo è sempre stato il mio mondo». La giada arriva nella capitale dal lontano Xinjiang, la provincia nord occidentale a maggioranza musulmana. Minerale considerato quasi sacro per le sue presunte proprietà medicamentose e taumaturgiche, era il preferito alla corte dell’imperatore.
«Non so quando me ne dovrò andare» - continua Feng - «le ruspe arriveranno sicuramente nei prossimi mesi, prima delle Olimpiadi: tutto deve essere rinnovato. C’è altra soluzione? Noi laobaixing (gente comune)possiamo solo obbedire». A Dazhalan ci sono edifici che risalgono al XVI secolo, palazzi che portano con sé la storia di due dinastie imperiali, quella dei Ming e quella dei Qing.

Per le ruspe il lavoro non finisce mai

L’agenda politica della “Commissione per la pianificazione e lo sviluppo” della Municipalità di Pechino dedica un capitolo a parte alla tutela della città storica: le aree coinvolte sono 25, il 17% della Pechino antica, ma, dietro la retorica, sono in agguato speculazione edilizia e perdita di identità culturali.
Zhao Lianmiao è un artista che vive nel suo studio-abitazione di meno di 10 metri quadrati, ancora per poco di sua proprietà. Alle pareti sono appesi i suoi dipinti, davanti a una tazza di tè al gelsomino racconta la sua vita a Dazhalan, le persecuzioni subite durante la “rivoluzione culturale”, e quanto gli piacerebbe comprare una nuova casa in quella zona: «Stanno distruggendo tutto, è un vero peccato, io vivo qui da sempre e sono molto affezionato a questo quartiere. A un certo punto appare un foglio appeso a un muro nei vicoli che ci intima di sgomberare nel giro di un mese». Anche Fu Zheqing, giovane donna che conduce un’attività commerciale per i cui locali paga l’affitto, non sa quale sarà il suo destino: «Io e la mia famiglia viviamo nel retro del negozio, ma non essendo proprietari le cose sono un po’ diverse. Dovrò semplicemente cercare un altro locale ma di certo non a Dazhalan: dopo il rinnovamento del quartiere i prezzi saliranno alle stelle, sicuramente non riuscirò più a trovare nulla per i 150 yuan che pago qui!».
Secondo Hu Xinyu, responsabile del gruppo "Friends of Old Beijing" (Amici della vecchia Pechino), già nel 2003 la metà dei 3.000 hutong della città storica era stata demolita, e migliaia di persone trasferite in sobborghi anonimi, mentre un alto rappresentante del governo - citato in forma anonima dal Financial Times - ha paragonato i danni causati dalle odierne politiche urbanistiche alle distruzioni della “rivoluzione culturale”.
Nel 2005 più di 800 edifici giudicati vecchi e pericolosi sono stati demoliti nella caratteristica via del Carbone, e centinaia di siheyuan risalenti al XIV secolo hanno lasciato il posto a nuovi palazzi. Ma le ruspe non hanno ancora finito il loro lavoro. Il piano del governo prevede un dislocamento di 5 milioni di residenti dal centro di Pechino alle periferie nell’arco di 5 anni. Motivazione ufficiale: traffico urbano e alta densità di popolazione.
Dietro al progetto di ristrutturazione e modernizzazione delle aree storiche e fatiscenti fanno capolino dinamiche di discriminazione sociale. «Ci stanno rubando i nostri soldi!», grida Li Wu. «Per andarmene mi daranno 10.000 yuan al metro quadro, ma i nuovi edifici saranno rivenduti a 50.000! Il governo ci sta ingannando: ha potuto attuare le sue politiche senza incontrare resistenze, qui la gente è povera, quel poco che ci danno per andarcene è sufficiente per ottenere il silenzio. Ci trasferiamo in quartieri dormitorio in nuovi appartamenti al ventesimo piano e ci illudiamo che la nostra vita migliorerà». Wu vive e lavora in uno hutong tra i più vivaci e trafficati, dove in un piccolo spazio ripara di tutto, dai vestiti agli orologi. Il rumore delle ruspe che demoliscono la casa vicina è assordante. Di fronte alla sua officina i resti di un ristorante musulmano, una vecchia targhetta in caratteri arabi a ricordare la presenza nel quartiere della minoranza islamica degli hui.

Il coraggio della protesta

Ou Ning, che ha dedicato particolare attenzione e impegno al caso di Dazhalan, è un affermato regista e videomaker originario di Canton, ma che da anni vive e lavora a Pechino. Il giovane artista non giudica direttamente l’operato del governo, ma preferisce porre l’accento sul concetto di scelta: tutti dovrebbero avere il diritto di decidere dove e come vivere, non è giusto imporre dall’alto modelli di vita, né di città.
Dazhalan Project,
organizzato assieme a “Kulturstiftung des Bundes”, fondazione tedesca che si occupa dei processi di allargamento e sviluppo dei centri urbani. Zhang Jinli è una figura chiave di questo esperimento che monitorerà l’esito delle Olimpiadi e si chiuderà nel 2008: «Abbiamo conosciuto Zhang mentre stavamo filmando la situazione a Dazhalan» - ricorda Ou Ning seduto sul divano al ventesimo piano di un edificio moderno e colorato che fa parte del complesso residenziale Xiandai Soho, vicino alla city pechinese. «Stava affiggendo cartelli di protesta. Un mese dopo aveva in mano una telecamera, per riprendere la sua vita nel quartiere alla vigilia dello sgombero». Jinli conduceva una osteria frequentatissima in uno hutong chiamato Meishi jie: la sua forza è stata quella di mettere in atto forme di resistenza pubblica per difendere i suoi diritti in quanto residente in attesa di essere rimosso. «Il governo gli aveva imposto di lasciare la casa e l’attività, ma lui riteneva che la compensazione offerta fosse inadeguata» - racconta ancora Ou Ning - «e che sarebbe stato giusto ottenere l’assegnazione di un altro ristorante nel nuovo quartiere». La telecamera è stata usata come arma per criticare le politiche governative: l’esperimento di Zhang Jinli ha dato vita a un video (Meishi street) e a una pubblicazione (The Story of Zhang Jinli). Il prezzo pagato per aver attuato queste forme di protesta è alto: Jinli è stato sottoposto a una fortissima pressione psicologica. Inoltre, nonostante le numerose richieste, le autorità non hanno mai concesso un incontro ai responsabili di Dazhalan Project.
«Jinli ha avuto il coraggio di denunciare l’ingiustizia delle compensazioni e ha contribuito a far nascere una certa consapevolezza nel vicinato». Uno degli obiettivi principali di Dazhalan Project (www.dazhalanproject.org) è analizzare l’influenza delle politiche governative sulle diverse realtà urbane, fino ad arrivare a quelle più piccole, all’individuo. «Nel marzo 2006, dopo mesi di protesta e sensibilizzazione della comunità, le ruspe hanno distrutto la casa e il ristorante di Jinli». Ou Ning non è contrario alla modernizzazione: «Le città devono migliorare, ma noi ci preoccupiamo di quale influenza abbia questo sviluppo sulle persone, di quali siano gli spazi per la gente nel contesto di una città nuova. La storia di Zhang JinIi rappresenta la rottura dell’equilibrio tra tradizione e sviluppo», prosegue l’artista. Secondo Ou Ning, «a Dazhalan ogni proprietario avrebbe ristrutturato le case gradualmente, lasciando invariata la zona. Invece il cittadino non ha possibilità di scelta, né sa come si trasformerà il quartiere, davanti agli occhi ha solo quelle fotografie sulle transenne che lasciano immaginare un ricco distretto commerciale». Politiche urbanistiche che distruggono il senso di comunità, cancellando la vita di strada e la vivacità delle città cinesi. «Per la Costituzione cinese la terra appartiene al popolo, ma in realtà è del governo, che si muove solo in base a valutazioni di tipo politico-economico», conclude il videomaker. «Studenti, ricercatori, studiosi e gente comune in Europa e in America si sono interessati al nostro progetto, ma le autorità non ascoltano, a meno che non ci siano scontri e dei morti. Il nostro obiettivo è far conoscere questa situazione sensibilizzando e coinvolgendo il maggior numero di persone, solo così il futuro potrà essere diverso».
Il traffico e lo smog di Pechino ricoprono di suoni e polvere una città in continuo mutamento, come mutevoli e incerte sono le vite degli abitanti di queste aree. Un tempo ricche e fiorenti, si sono impoverite con l’ingresso del Paese nel mercato globale: le manifatture artigianali sono state soppiantate da quelle delle fabbriche della Cina sud orientale, teatri e “case dei fiori” sono stati sostituiti da night club e da centri per massaggi.

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