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Lunedì, 20 Agosto 2012 21:17

Paul Tillich: II. Essere e Dio (Renzo Bertalot)

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All'interno del nostro mondo finito noi afferriamo e trasformiamo la realtà secondo degli schemi, delle categorie che abbracciano ogni discorso su Dio, sull'uomo e sul mondo.

Dio è la risposta alla domanda, implicitamente posta da ciò che esiste. Di fronte all'interrogativo: «Perché esiste qualcosa anziché nulla?», si è colpiti dalla possibilità del non essere: «il brivido del non essere». La natura della nostra esperienza è quindi determinata dal nostro modo di concepire l'essere, cioè dai nostri concetti ontologici a priori. Di questi ve n'è uno basilare sul quale si fondano gli altri: è il rapporto tra se stesso e il mondo.

In ogni sua esperienza l'uomo sa di essere legato al suo ambiente e, in senso più ampio, al mondo che lo circonda. Si rende altresì conto che in ogni esperienza, implicitamente, il mondo entra in rapporto con se stesso. Bisogna, dunque, dire che v'è consapevolezza di un chiaro distacco dei due termini della polarità ed anche una loro precisa interdipendenza. L'uomo non è mai un mero prodotto del suo ambiente, perché è capace di trasformarlo. I due momenti vanno considerati insieme: non sarebbero infatti comprensibili l'uno senza l'altro.

Quando noi parliamo di soggetto e di oggetto (esempio: chi ama e chi è amato) ci riferiamo alla struttura base: se stesso-mondo, cioè alla realtà così com'è strutturata nel suo insieme e alla mente ben ordinata intorno al suo centro, o, ancora, alla ragione oggettiva e a quella soggettiva. Diciamo subito che Dio non può, allora, essere considerato come un oggetto fra gli altri, perché cesserebbe di trascendere la polarità e di esserne il fondamento. La filosofia può solo accettare la polarità senza derivarla da altre osservazioni. Ponendosi l'interrogativo: «che cosa precede la dualità se stesso-mondo o soggetto-oggetto?» non può che perdersi nell'abisso della ragione dove ogni distinzione scompare. La rivelazione soltanto può dare una risposta.

Guardiamo ora all'interno della struttura di base e cerchiamo di scoprire gli elementi (ontologici) che la compongono. Per Tillich essi sono tre polarità.

1) Individualizzazione e partecipazione. L'individuo si scopre come colui che resiste all'altro. Non c'è persona se non nell'incontro con altre. Senza individualizzazione non vi sarebbe nulla da confrontare, ma senza partecipazione non esisterebbe rapporto: o nelle nuvole o polverizzati.

2) Dinamicità e forma. Essere qualche cosa significa avere una forma. Non avere forma significa non avere essere. Ma ogni forma forma qualche cosa, ha cioè una sua dinamicità. Per esempio la nostra vitalità (dinamicità) è condizionata, determinata dalle nostre intenzioni (forme del nostro essere).

3) Libertà e destino. L'uomo esercita la sua libertà all'interno della sua situazione (destino). Non si tratta di determinismo o di indeterminismo o di necessità, perché questi si addicono alle macchine e alle cose ma non all'uomo.

Per destino Tillich non intende un potere estraneo all'uomo, ma ciò che determina la sua decisione. In altre parole esso è la base per dare espressione alla mia libertà e la mia libertà, a sua volta, forgia il mio destino. Dio non ha destino, perché è libertà assoluta. Così pure le cose.

Oltre a questi elementi ontologici composti da polarità, bisogna tener presente l'incidenza del finito. Si esperimenta la propria finitudine nella coscienza di dover morire e s'intuisce l'infinito nello sforzo di trascendersi: il coraggio che nega il nostro non-essere. Dio però non è l'infinito, ma lo precede. Scossi da questa esperienza, ci troviamo consciamente o inconsciamente assaliti dall'angoscia che non è paura (elemento psicologico), ma consapevolezza di sé come finiti, come minacciati dal non-essere.

All'interno del nostro mondo finito noi afferriamo e trasformiamo la realtà secondo degli schemi, delle categorie che abbracciano ogni discorso su Dio, sull'uomo e sul mondo.

Sono delle categorie ontologiche perché si riferiscono al nostro essere e non essere, alla nostra angoscia e al nostro coraggio. Esse sono quattro: tempo, spazio, causalità e sostanza.

1) L'angoscia di fronte alla morte, alla transitorietà, al non essere, rivela il carattere ontologico del tempo, cioè dà un valore al presente attraverso il coraggio di affermare se stessi.

2) Il tempo crea il presente in rapporto allo spazio: la base su cui ci si forma, su cui si è. Senza spazio non si è e finché c'è vita si resiste (coraggio) all'angoscia di non avere spazio.

3) La causalità esprime l'impossibilità di basarci su noi stessi e quindi la costante minaccia di non essere, con la sua relativa angoscia. Il coraggio ignora la categoria della causalità. Ma com'è possibile?

4) La sostanza indica ciò che è immutabile del nostro essere nonostante tutti i cambiamenti. Da qui l'angoscia, dovuta all'incognito del nostro divenire, come minaccia del non-essere.

Le quattro categorie mettono in evidenza la tensione continua tra essere e non essere, tra l'angoscia che assale l'uomo e il coraggio di affermarsi. Dio è la risposta alla possibilità di questo coraggio.

La consapevolezza del nostro limite, della nostra finitudine, crea all'interno delle categorie delle tensioni di disturbo e di pericolo. È questo limite infatti che trasforma: la polarità individualizzazione-partecipazione inserendovi la minaccia della solitudine, la polarità dinamicità-forma in un pericolo costante e la polarità libertà-destino nel rischio di perdere il proprio significato. La filosofia si ferma a questo punto della sua indagine. Non può superare il limite del contrasto tra essenza ed esistenza, tra quello che siamo e il nostro modo di esistere nell'ambiguità.

Tillich si sofferma quindi a considerare le prove dell'esistenza di Dio e nota subito che v'è una contraddizione nei termini usati. Dio infatti è al di là dell'essenza e dell'esistenza e non può essere ridotto ad una di esse. Perciò non si può parlare di prove o di dimostrazione di Dio come se Egli fosse il ricavato dalla nostra realtà. Se non si può dimostrare nulla, si può tuttavia dire che l'analisi tradizionalmente fatta in questo settore indica il riconoscimento di un elemento incondizionato nella struttura stessa della realtà (argomento ontologico). Il secolarismo ha perso di vista tale indicazione e perciò Dio gli è diventato estraneo.

Cosi ancora ponendoci la domanda su come sia possibile il coraggio di fronte alla continua minaccia del non-essere, noi troviamo un'indicazione dell'esigenza di un fondamento dell'essere. Nello stesso modo s'impone la necessità di trovare un significato di base che garantisca tutti i nostri significati particolari. In tutto ciò non v'è né dimostrazione né prova, ma solo un interrogativo che non trova risposta se non nella rivelazione.

* * *

Tillich passa ora ad esaminare la realtà di Dio dal punto di vista del significato e dell'attualità. Dio può essere descritto come la risposta alla domanda implicita nella finitudine umana, oppure come ciò che ci impegna in modo ultimo e definitivo. Non bisogna però perdere di vista la concretezza del discorso. Gli uomini hanno visto negli dèi ciò che li impegnava in modo definitivo, ma hanno confuso ed identificato l'esperienza del sacro con quella del divino. Ora quando il sacro cessa di indicare, oltre se stesso, il divino, diventa demoniaco e stimola l'idolatria. Se invece rimane nei suoi giusti limiti s'avvicina al secolare.

Per secolare Tillich intende l'area dell'impegno preliminare o penultimo. Si deve allora notare che il sacro, per esprimersi, deve servirsi del secolare, di ciò che è finito, e che, quindi, quest'ultimo rimane aperto alla possibilità di trasmettere un'esperienza religiosa e, in termini più precisi, può essere consacrato.

Quando ciò che è preliminare non trova più corrispondenza o correlazione con ciò che è definitivo, quando il secolare è totalmente svincolato dal sacro, allora ci troviamo a vivere nel peccato, che è appunto separazione.

Facciamo ora alcune considerazioni tipologiche. Occorre innanzi tutto precisare che la rivelazione finale è preparata e manifestata nella storia, ma non da essa derivata. Così la nozione di Dio non è spiegabile indipendentemente dalla situazione culturale e politica, ma non deriva da essa.

Il cristianesimo non sfugge a questa legge: anche il suo concetto di Dio è datato. Inoltre anche il buddismo e l'induismo hanno un concetto di Dio come ciò che impegna definitivamente, altrimenti sarebbero filosofie e non religioni. Tutte le religioni hanno elementi universali che preparano la rivelazione. Ne consegue che abbiamo — parallelamente alle indicazioni ultime dell'area secolare e filosofica (concetti ontologici) — le indicazioni ultime dell'area del sacro (i concetti di Dio). Le une e le altre sono interdipendenti, anzi v'è una trasformazione della tipologia religiosa in quella secolare.

Il politeismo esprime l'esigenza della concretezza; in esso v'è sempre un preciso riferimento alla situazione. Diventa demoniaco quando i singoli aspetti pretendono di essere definitivi ed universali. Nessun aspetto infatti offre una base di universalità. Tutti i tentativi fatti per evidenziarla si sono esauriti in una serie indefinita di contrasti interni.

Il monoteismo assoluto esprime l'esigenza dell’universalità ed in questo senso è una preparazione alla rivelazione finale. Diventa demoniaco se ritiene incondizionati degli aspetti che invece sono condizionati. Difetta però di elementi concreti. Il Dio d'Israele fa eccezione a questa regola nella misura in cui è capace di distruggere il suo popolo — il mezzo di cui si serve — per affermare la sua giustizia.

Il monoteismo trinitario, effettivo in Cristo, tenta di esprimersi in modo definitivo, universale e concreto.

Se è vero che la teologia si occupa dei significati e la filosofia si occupa dell'essere, è pur vero che la teologia, per esprimersi, deve servirsi del materiale filosofico e la filosofia deve appellarsi ad un significato che la precede. Non c'è dunque da stupirsi se vi sono delle trasformazioni filosofiche del sacro. Tillich presenta e discute alcuni esempi significativi. Aspetti mitologici del politeismo risorgono sotto il pragmatismo e sotto la filosofia della vita. Il politeismo dualista si trasforma in dualismo metafisico come la distinzione greca tra forma e materia. Il monoteismo monarchico emerge nelle gerarchie ontologiche come le monadi; quello mistico nell'idealismo, quello assoluto nel realismo e quello trinitario nella dialettica.

Al seguito di queste trasformazioni, diventa evidente che la filosofia si appella ad una esperienza religiosa che la precede, in base alla quale avvia il suo discorso sulle strutture dell'essere. La teologia, di conseguenza, deve accertarsi della validità dei punti di partenza della filosofia e cercarne il significato esistenziale che costituisce l'area religiosa.

Per quanto riguarda il concetto di Dio, abbiamo già notato che non bisogna confonderlo con la nozione di essere, perché Egli ne è piuttosto il fondamento e la forza. Non si deve neppure confonderlo con l'essere universale (politeismo) proprio perché trascende ogni cosa. Tra l'essere e il suo fondamento v'è partecipazione, si, ma anche rottura e la rottura richiede un salto.

Ciò che è finito può essere una base per esprimere l'infinito, ma quando si parla di Dio s'impone un passaggio dal segno, staccato da ciò a cui si riferisce, al simbolo, che partecipa invece a ciò a cui si riferisce. Non è lecito confondere segno e simbolo.

I simboli sono teonomi, non possono essere semplicemente fabbricati, sono veri solo se esprimono adeguatamente la correlazione, il rapporto con la rivelazione definitiva.

Dio è il fondamento della vita. In Lui non v'è quindi la polarità di base, se stesso-mondo, perché Egli ne costituisce il fondamento. Gli elementi ontologici costituiscono invece materiale appropriato per i simboli. Per esempio la polarità, libertà-destino, può simboleggiare il fatto che un dio condizionato, non libero, non è Dio; e che Dio racchiude in sé il proprio destino come mistero dell'essere e come partecipazione nella storia.

Dio come Spirito è l'unità di tutti gli elementi ontologici con il fine ultimo della vita; o ancora è l'essere stesso, trascendente ogni essere, che si attualizza come vita. Parlare di Dio come Spirito significa applicare simbolicamente alla vita divina la nostra esperienza dello spirito, cioè dell'unità di significato e di potere nelle strutture del nostro essere. Dio come Spirito è allora l'unione definitiva e ultima di ciò che il nostro spirito indica. È lo Spirito che attualizza ciò che è potenziale in Dio.

Quando parliamo di Dio creatore noi diamo una risposta all'interrogativo posto dalla nostra finitudine, che va pertanto intesa come creaturalità correlativa all'azione creatrice di Dio. In questa sua azione Dio esprime la sua libertà e il suo destino, non solo perché l'ha voluta, ma anche perché la sostiene e la dirige.

La fede cristiana parla di creazione dal nulla e con ciò intende respingere ogni dualismo tra bene e male. Ne deriva che gli elementi tragici della nostra vita non sono fondati in Dio anche se v'è un limite che Egli trascende, cioè la nostra creaturalità, la nostra fine, la nostra morte. Incarnandosi, Dio ci fa sapere che la nostra finitudine non contrasta con la Sua volontà e che non potrà assurgere a valore definitivo e ultimo. Bisogna inoltre insistere sulla distinzione tra l'essenza e l'esistenza dell'uomo. Realizzandosi la creazione, esse si separano; e con la caduta sorge la polarità esistenziale di libertà e destino. Dio solo è essenzialmente creativo, noi lo siamo solo sul piano dell'esistenza e quindi della caduta e dell'ambiguità. Anche le categorie ne sono coinvolte, per cui il nostro tempo è un tempo esistenziale e non essenziale come quello di Dio.

L'uomo è il fine della creazione e ciò è espresso nel concetto di immagine di Dio. Per Tillich esso significa che l'uomo, a differenza del resto, è ben strutturato razionalmente e la sua logicità, il suo logos, è analoga a quella di Dio, il Logos, per cui Egli può essere presente nell'uomo senza distruggerlo.

Dio sostiene la sua creazione. Agostino si espresse in proposito parlando di creazione continua. Non v'è altra soluzione soddisfacente. S'intende dire che Dio dà il potere, la capacità di essere, a tutto ciò che è. Come descrivere allora questo rapporto con il creato? Si parlerà di immanenza o di trascendenza di Dio? Va rilevato che i termini si riferiscono al nostro concetto di spazio e sono perciò inadeguati, ma contengono delle indicazioni giuste nella misura in cui affermano Dio, come fondamento delle strutture, e la sua indipendenza (totalmente altro).

Dio dirige la sua creazione: ciò è detto esplicitamente nella nozione di provvidenza. È la protesta della fede contro la fatalità e la tragicità dell'esistenza. V'è una condizione di Dio presente in tutte le condizioni finite. Questa permanente attività divina è la risposta al significato delle preghiere di supplicazione e d'intercessione. La fede infatti trasforma la nostra situazione esistenziale. Come giudicheremo i mali fisici e morali del nostro vivere? V'è giustizia in Dio? Cosa vuol dire essere predestinati? Con la creazione, Dio ha accettato dei rischi e ci ha dato una libertà finita. Ma il destino degli altri è anche il nostro, poiché tutti siamo partecipi del mistero e del fondamento della creazione. Se non è dunque possibile dividere l'umanità in eletti e reprobi, ciò vuol anche dire che Dio partecipa agli aspetti negativi della creatura e non certamente come colui che ne è sottomesso.

Dio è in rapporto con noi, ma non diviene oggetto senza rimanere soggetto: è santo. L'uomo fondato nella vita divina non è solo mezzo, ma anche fine della creazione: lodando Dio non loda mai se stesso, ma solo la gloria alla quale partecipa.

Quando parliamo della onnipotenza di Dio diciamo che Egli ci dà il coraggio necessario per superare e vincere l'angoscia. Per questo Egli è eterno: vince il non-essere della nostra temporalità, è l'unità dei nostri attimi singolarmente presi, è il segreto della nostra storia.

Dio è inoltre onnipresente perché elimina l'angoscia che ci deriva dal non aver più spazio. L'esperienza della sua onnipresenza cancella ogni differenza tra sacro e profano. Tant'è vero che se questa esperienza fosse continua non avrebbe più senso usare i due termini, come certamente essi non hanno senso all'interno della vita divina.

Dio è onnisciente. Noi abbiamo una coscienza frammentaria e spezzettata dei significati finiti. Abbiamo cioè dei dubbi sulla verità e sui significati, ma questi sono incorporati e assunti nella fede mediante il simbolo dell'onniscienza divina.

In rapporto con noi Dio è descritto come amore. I tre termini tradizionali, libido, philia ed eros, sono inadeguati anche se contribuiscono in qualche modo ad indicare Dio come amore. Il primo esprime il movimento verso ciò che ci serve, il secondo verso ciò che ci è simile (comunione), il terzo dal più debole al più forte. L'agape è il solo termine adeguato perché afferma l'altro senza condizioni preoccupandosi soltanto del suo compimento finale e definitivo.

L'amore è stato più volte visto in contrasto con la giustizia, la condanna e l'ira di Dio, ma non dev'essere così. È ancora un atto d'amore divino l'abbandonare all'autodistruzione ciò che resiste all'agape. Si tratta di negare ciò che nega l'amore. Il simbolo che esprime in modo adeguato l'unità di amore e di giustizia in Dio è la giustificazione che si manifesta nel perdono dei peccati.

Anche il termine grazia ha subito delle forti e divergenti interpretazioni, soprattutto perché si era tradizionalmente distinto tra grazia creatrice e grazia salvifica. Per Tillich i due aspetti trovano la loro unità nella nozione di grazia preveniente che è ancora provvidenza. Si tratta di provvidenza in rapporto al destino ultimo e definito della creatura. Ciò vale anche per la nozione di predestinazione che particolarmente afferma la precedenza dell'agire di Dio e la certezza che ne deriva dal guardare a Lui solo. In altre parole essa esprime in modo sublime l'amore di Dio. Infine nel suo rapporto con noi, Dio è Signore e Padre insieme e non separatamente. Il suo potere e il suo amore si manifestano insieme e sarebbe un errore esaltare un aspetto a scapito dell'altro, cadendo ora nella ribellione ora nel sentimentalismo.

Renzo Bertalot

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Letto 3472 volte Ultima modifica il Domenica, 21 Ottobre 2012 11:23
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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