Ecumene

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Nella misura in cui le religioni riusciranno ad unire le loro lotte per le grandi cause dell’umanità (uguaglianza, giustizia, fraternità, liberazione dei poveri) si riconcilieranno tra loro, renderanno più prossima la loro fede e la loro comunione con Dio e conquisteranno il grande bene della pace.

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Per un islam pacifico, aperto e costruttivo

di Andrea Pacini








E’ su questa frontiera culturale impegnativa che si gioca il futuro dell’islam in Europa.

Nello scorso mese di aprile un servizio di giornalismo televisivo, condotto in alcune moschee di Torino, ha portato all’evidenza pubblica il fatto che la predicazione degli imam di tali moschee aveva contenuti decisamente violenti in merito a questioni di carattere internazionale e conflittuali in rapporto alle relazioni dei musulmani con la società europea e italiana. Si aggiunga che nel corso del medesimo reportage giornalistico è anche emerso che nelle medesime moschee o in locali ad esse collegati e adiacenti circolavano volantini che esortavano al jihad e al sostegno attivo alle attività jihadiste (ovvero terroristiche), attuate da cellule riconducibili a movimenti dell’islam radicale. Ne è emerso un rinnovato dibattito sull’islam in Italia, sugli elementi di pericolosità presenti al suo interno e su come promuovere un efficace percorso di integrazione dei musulmani nella società italiana.

Dal momento che quanto accaduto a Torino è la spia di un atteggiamento culturale e religioso che percorre una parte delle moschee italiane, si impongono alcune riflessioni in merito. In primo luogo, il fatto che in molte moschee prevalga una predicazione di tipo antioccidentale e non di rado anticristiano, che tende a promuovere l’affermazione di un’identità islamica forte di tipo politico-religioso dispensata spesso con toni e contenuti violenti, non è una novità per chi segue più da vicino questo mondo. In questo senso le occasionali inchieste giornalistiche e i discorsi meno controllati di alcuni imam - quali il noto imam Bouchta di Torino, espulso in Marocco, o un precedente imam della moschea di Roma, poi richiamato in patria - che in alcune occasioni hanno espresso con maggiore visibilità il proprio sostegno al jihad internazionale, non sono altro che delle occasioni in cui all’opinione pubblica è dato di cogliere un fenomeno più diffuso e frequente nell’ambito di una parte del mondo delle moschee italiane ed europee. Questo non significa che tutte le moschee siano riconducibili a correnti di ispirazione fondamentalista o radicale, ma certamente all’interno di questo mondo sempre più in crescita e frammentato tali posizioni non sono rare.

Esse rispecchiano in effetti prospettive dottrinali e culturali prevalenti all’interno dell’islam contemporaneo anche di tipo ufficiale, che continua a essere egemonizzato da letture della realtà che ripropongono un’identità musulmana forte, sostenuta da un atteggiamento rigido e non aperto verso la differenza culturale e religiosa. In questo senso nelle moschee italiane non fanno che riprodursi toni e modalità di lettura che risuonano in generale nel mondo islamico, sia nell’ambito delle moschee - a maggior ragione in quelle di ispirazione fondamentalista - sia nell’ambito delle istituzioni islamiche di insegnamento universitario, in cui, se non si legittimano le letture fondamentaliste, si stenta però a proporre visioni decisamente alternative a quelle tradizionali. Le letture religiose islamiche di tipo moderno, che avvalorano l’istanza critica, che propongono il superamento dell’interdipendenza tra sfera religiosa e politica nell’islam, che fondano l’esigenza del dialogo con, l’alterità culturale e religiosa, sono infatti ben rappresentate nel mondo musulmano contemporaneo, ma non trovano. ancora spazio all’interno delle istituzioni ufficiali di insegnamento teologico e quindi non penetrano, se non occasionalmente, nel mondo delle moschee che a tali istituzioni è collegato.

In Italia e in Europa si avvertono però almeno tre importanti differenze. La prima è relativa agli imam, che si sono sempre autoproclamati, e che dal punto di vista della formazione culturale sono riconducibili a tre principali profili: una prima tipologia, oggi meno numerosa che nel passato, è costituita da persone con istruzione generale assai bassa e privi di una formazione religiosa formale; una seconda tipologia è costituita da persone con istruzione superiore, talora anche universitaria, ma di tipo civile, cui non corrisponde una formazione teologica formale: questa tipologia è oggi in crescita; infine una piccolissima minoranza di imam con formazione teologica islamica superiore. L’elemento che emerge è la generale mancanza di una formazione teologica specifica: questo del resto non è di per sé un elemento che da solo abiliti a una sensibilità verso il dialogo e l’integrazione in Europa, vista la resistenza che le facoltà teologiche oppongono alle letture liberali dell’islam. La crescita di imam con istruzione superiore di tipo non religioso può però abilitare i medesimi a una maggiore capacità di lettura della situazione europea, anche se essa può poi comparire in atteggiamenti diversificati. Gli esponenti del fondamentalismo non sono certo persone prive di formazione culturale, al contrario.

La seconda differenza è che in generale i musulmani in Europa prendono atto del fatto che vivono in un contesto che culturalmente e politicamente non è musulmano, con cui devono entrare in rapporto. Questa situazione può essere letta nei minimi di consapevolezza di essere una “minoranza” - lettura diffusa nel mondo delle moschee, in base alla quale vengono elaborati sia insegnamenti in chiave di rivendicazione identitaria forte, sia rapporti con le istituzioni civili finalizzati a ottenere riconoscimenti formali all’islam come minoranza - ma dà anche origine a letture diversificate e a strategie di inserimento più individuali da parte dei singoli. E’ quanto emerge dal basso tasso di frequentazione delle moschee in Italia e in Europa da parte della popolazione musulmana. Ma in ogni caso, anche se il rapporto viene interpretato nei termini di minoranza, si apre necessariamente uno spazio per l’interazione e il dialogo che va coltivato con fermezza da parte delle istituzioni statali e delle diverse espressioni della società civile tra cui le Chiese.

La terza differenza, conseguente alle due precedenti, è che l’insieme della popolazione musulmana in Europa e in Italia appare progressivamente più pluralista anche nelle sue prese di posizione pubbliche. È interessante che gli eventi di Torino abbiano fatto emergere all’interno del mondo musulmano locale voci autorevoli di dissenso e di condanna verso gli imam colti nella loro predicazione discutibile. Tale fenomeno è un indicatore importante che sta emergendo un pluralismo non solo de facto, ma che sta cercando di trovare espressione in un incipiente discorso pubblico formale e in organizzazioni specifiche in grado di esprimere “voci” diverse in seno all’islam. Che l’insieme della popolazione musulmana in Italia non si riconosca nell’islam fondamentalista e radicale è provato dalla scarsa frequentazione delle moschee esistenti e dal generale grado di buon inserimento. È’ però importante per il futuro dell’islam in Italia che all’interno della popolazione musulmana la corrente dell’islam liberale o moderato trovi espressione.

Le prese di posizioni ufficiali di dissenso espresse a Torino da taluni esponenti musulmani sono un primo segno di tale evoluzione, che richiede però di essere rafforzata, culturalmente e dottrinalmente elaborata e diffusa. Bisogna infatti passare dalla condanna e dal dissenso a un’aperta e costruttiva proposta dottrinale di un islam pacifico, dialogico, in piena sintonia con i valori fondamentali delle società europee. È su questa frontiera culturale impegnativa che si gioca il futuro dell’islam in Europa. E’ questa una responsabilità che chiama in causa come attori in primo luogo i musulmani stessi, ma insieme ad essi anche le istituzioni italiane e le diverse espressioni della società civile, in particolare la Chiesa, che come partner nelle relazioni sono chiamate a delegittimare gli esponenti fondamentalisti e a offrire invece supporto a quanti sono impegnati per la formazione di un islam europeo, convergente con i valori fondamentali dell’ordinamento civile delle nostre società, aperte al dialogo interreligioso e interculturale, fermo nel condannare e sconfessare ogni legittimazione religiosa della violenza e di atti e visioni lesivi della dignità dell’uomo, che trova espressione giuridica nelle Carte internazionali delle Nazioni Unite recepite nelle Costituzioni dei Paesi europei.




(da Vita Pastorale, 6, 2007)

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Giovedì, 25 Settembre 2008 00:36

La scomessa del vivere insieme (Mustapha Cherif)

Ex ministro dell’Insegnamento superiore e della Ricerca scientifica ed ex ambasciatore, Mustapha Cherif è attualmente docente all’Università di Algeri. Intellettuale arabo tra i più aperti al dialogo tra le culture e le religioni, è stato ricevuto da Benedetto XVI all’indomani del contestato discorso di Ratisbona. È uno dei firmatari della lettera aperta dei 138 leader musulmani.

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L’esperienza del gesuita Albert Poulet-Mathis

Il buddhismo dalla porta del cuoredi Matteo Nicolini-Zani *







Le riflessioni di uno dei pionieri dell’incontro con le religioni dell’Oriente: « Impariamo ad aprirci per amare anche ciò che ci divide».

«Vivere il dialogo tra religioni è capire che quanti ti circondano stanno dentro la tua vita»


«Qual è il tuo cognome cinese?», mi chiede Changchi, il monaco che mi accoglie al monastero buddhista Zen di Fagu-shan a Taiwan. «Mi chiamo Ma, Ma xiushi (fratel Ma)», rispondo io. «Ah, a quanto pare voi religiosi cristiani vi chiamiate tutti Ma! Noi abbiamo un caro amico, Ma shenfiu (padre Ma), un prete cattolico che ci ha visitato molte volte... Così lui è il vecchio Ma e tu sei il giovane Ma.. ».

Con questo buffo episodio - che gioca intorno ai frequenti casi di omonimia dovuta al ristretto numero di cognomi in uso in cinese - sono stato involontariamente avvicinato a un «caro amico» dei buddhisti presso il cui monastero sto per iniziare un breve soggiorno: il padre gesuita Albert Poulet-Mathis. Mi sento così anch’io misteriosamente accompagnato nella mia iniziazione alla conoscenza della vita monastica buddhista da questo «caro amico» che non avevo mai incontrato, ma di cui avevo avuto alcune notizie. Di lui mi avevano infatti parlato Paulin Batairwa, il missionario saveriano che mi ha introdotto al monastero di Fagu-shan e che è un po’ il giovane discepolo di padre Albert, e Gianni Criveller, missionario del Pime, che mi aveva sollecitato pochi giorni prima a non ripartire da Taiwan senza aver cercato di incontrare questo grande conoscitore delle comunità buddiste taiwanesi.

L’occasione di incontro è arrivata pochi giorni dopo, ancora una volta grazie all’intermediazione di padre Paulin. Nel suo ufficio presso il Tian Educational Center dei gesuiti a Taipei, bevendo una tazza di buon tè, padre Albert, nonostante i suoi ottant’anni e la sua salute malferma, ha acconsentito a una chiacchierata insieme, nello stile del dialogo che scoprirò essere più tardi il suo stile proprio: semplice e profondo. Ho potuto così ascoltare le sue riflessioni sulla necessità di un dialogo diverso da quello teologico e più profondo, sulla sua tardiva ma ispirante scoperta degli scritti di Henri Le Saux su questo tema, sulla positività del contributo monastico al dialogo interreligioso... Poche parole, in effetti, ma pronunciate sullo sfondo di una lunga esperienza, e che io cercavo di ascoltare compaginandole con ciò che vedevo intorno: scaffali pieni di volumi in tutte le lingue sulle religioni e il dialogo interreligioso, insieme a un gran numero di fotografie di diversi uomini spirituali da lui incontrati a Taiwan e nei molti paesi dell’Asia da lui visitati (soprattutto maestri buddisti), oltre che a doni da loro fatti a Ma Tianci (suona così il nome cinese di padre Albert) in segno di amicizia e gratitudine.

AI termine della nostra chiacchierata padre Albert mi ha fatto dono di un volume in cinese fresco di stampa, che sarebbe stato presentato al pubblico di lì a qualche giorno, dal titolo eloquente: il tuo Gesù, il mio Buddha: il dialogo interreligioso in profondità, con un titolo parallelo in inglese altrettanto significativo: Open the Doors, Let’s TaIk (Apri la porta, parliamo!). Scritto da Chen Shixian, un giovane amico buddista di padre Albert conosciuto dieci anni prima, questo libro raccoglie - integrandole con proprie riflessioni - le interviste da lui fatte al gesuita francese lungo circa due anni di incontri settimanali di confronto e di dialogo, con la partecipazione anche di padre Paulin. Non è da trascurare il fatto che questo libro rappresenti la prima pubblicazione da parte del maggior editore cattolico di Taiwan (Kuangchi Cultural Group) di un volume scritto da un buddhista sul dialogo interreligioso. Certamente un «significativo e promettente segno di interesse crescente nella promozione del dialogo interreligioso», come scrive Poulet-Mathis nei suoi ringraziamenti alla fine del libro.

La lettura di questo testo è diventato così per me il prolungamento di quell’incontro di fine novembre, e mi ha permesso di scoprire l’esperienza di un operaio del dialogo , «soltanto un piccolo prete francese» - come si autodefinisce nel libro (p. 205) - che ha dato però un grande contributo all’incontro profondo tra cristianesimo e religioni orientali.

Impegnato fin dal suo arrivo a Taiwan nel 1959 nello studio delle vie spirituali orientali e nella conoscenza delle comunità che sull’isola le percorrono, padre Poulet-Mathis ha lavorato instancabilmente per la promozione del dialogo e la pace tra le religioni, oltre che all’interno della Chiesa taiwanese e degli organismi della Compagnia di Gesù, anche come segretario dell’ufficio per le questioni ecumeniche e interreligiose (Oeia) in seno alla Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc) dal 1977 al 1992, e come consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso dal 1980 al 1995. Questo ha fatto sì che «ciò per cui padre Poulet-Mathis è noto a Taiwan non sia tanto la sua identità di prete cattolico, quanto piuttosto il suo contributo al dialogo e alla collaborazione tra le religioni, per aver aperto la porta al dialogo interreligioso» (p. 30), con la sua disponibilità al rispetto, alla fiducia e all’amicizia. Tanto da essere stato definito pubblicamente in una cerimonia il «rappresentante delle religioni di Taiwan».

La reticenza a parlare di sé e soprattutto a presentare delle riflessioni sistematiche sul tema del dialogo interreligioso pervade tutto il volume quasi come una costante. Non si troverà dunque nessuna vera e propria riflessione teologica nelle sue pagine, ma una cancellata di ricordi, di incontri, di figure: «Io considero particolarmente importante il valore delle relazioni interpersonali» (p. 152),confessa. E quasi nascoste nelle pieghe di questi eventi si scoprono allora preziose intuizioni.

Innanzi tutto la consapevolezza che la Chiesa cattolica è inserita in un contesto plurireligioso: «Nel mondo non può esserci soltanto il cattolicesimo, dunque esso deve aprirsi» e «imparando ad aprici agli altri, ameremo ciò che tra noi è comune e rispetteremo ciò che fra noi è diverso» (pp. 134e 152). Per aprirsi - uno dei verbi che ricorrono più volte nelle confessioni di padre Albert - i cristiani devono uscire incontro agli esponenti delle altre religioni, cosa che lui stesso non si è mai stancato di fare, stringendo relazioni durature con uomini spirituali in luoghi che non avevano mai visto prima la visita di un prete cattolico. Sempre e soltanto con l’umile atteggiamento di voler imparare.

Suoi maestri nella conoscenza del buddhismo sono stati ad esempio il venerabile Shengyan, abate del monastero buddhista di Fagu-shan e leader buddhista mondiale, e il venerabile Chanyun, abate del monastero buddhista di Lianyin-si, che dopo più di dieci anni di frequentazione reciproca arrivò a confidare a padre Albert che all’inizio aveva sperato che lui diventasse buddista. Ma alla fine si era convinto felicemente che sarebbe rimasto cattolico, ma un cattolico buon amico dei buddhisti. In questo senso l’impegno di padre Albert ricorda ancora una volta che non esiste un dialogo tra le religioni, ma soltanto un dialogo fra uomini e donne che camminano fianco a fianco lungo vie religiose differenti.

«Il dialogo interreligioso è simile a un ponte che aiuta a mettere in contatto gli uni con gli altri», è «un’ opportunità che ci rende consapevoli del fatto che siamo una sola famiglia». Il suo scopo «non è fare missione, ma imparare gli uni dagli altri attraverso la conversazione fra appartenenti a religioni diverse» (pp. 216, 153 e 56).Se «è necessario avere un atteggiamento di accoglienza nei confronti delle altre religioni, si deve nello stesso tempo dare importanza alla propria fede religiosa e affermare il valore della religione altri; ma il primo dovere del dialogo interreligioso è di dare importanza alla propria fede» (p. 153). Fiduciosi che il dialogo interreligioso non porta affatto a diluire o smarrire la propria fede, ma «può aiutare ad approfondirla ulteriormente» (p. 154).

Fu però una visita in India nel 1981, durante la quale ebbe l’opportunità di leggere uno scritto del samnyasin benedettino Henri Le Saux (Abhishiktananda, 1910-1973) a segnare profondamente l’esperienza di padre Poulet-Mathis e il suo approccio al dialogo, come lui stesso scrive: «Quell ‘articolo mi influenzò e mi sollecitò profondamente... Spesso ritorno a quell’ articolo, le cui poche frasi cambiarono la mia vita» (pp. 156 e 162). Si tratta del saggio scritto nel 1969 e intitolato The Depth-Ditnension of Religious Dialogue (La dimensione della profondità del dialogo religioso), in cui Le Saux annota: «Ogni partner nel dialogo deve cercare di fare sua, per quanto è possibile, l’intuizione e l’esperienza dell’altro; personalizzarla nella propria profondità, al di là delle proprie idee e persino dei concetti attraverso cui l’altro cerca di esprimerle e comunicarle con l’aiuto di segni forniti dalla propria tradizione. Per un dialogo efficace è necessario che io raggiunga, per così dire, nella mia profondità l’esperienza del mio fratello, liberando la mia esperienza da tutte le sovrapposizioni, così che il mio fratello possa riconoscere in me l’esperienza da lui vissuta nella sua propria profondità».

Così padre Albert è oggi più che mai convinto che «il dialogo interreligioso non deve soltanto essere una teoria né si può limitare a un dialogo superficiale; e non è nemmeno una piacevole attività di solidarietà; esso è invece creativo e profondo riconoscimento, comprensione e amore reciproco». E proprio «questo tipoi profondità è ciò di cui oggi abbiamo bisogno nella Chiesa, anche se io non riesco a esprimerlo del tutto, non arrivo a trovare le parole più appropriate per farlo» (pp. 156 e 162). E’ quel dialogo di vita e di cuore proposto dal Concilio Vaticano II, ricordato da Giovanni Paolo II nella sua esortazione post-sinodale Ecclesia in Asia del 1999, nonché sottolineato in molti documenti della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. È quella comunione a livello profondo possibile tra ricercatori dello spirito che percorrono differenti vie religiose e di cui era convinto Thomas Merton: «Comunicare è possibile al livello più profondo. Ma quella che avviene al livello più profondo non è comunicazione ma comunione. Senza parole. Al di là delle parole, al di là del discorso e al di là del concetto» (Thomas Merton, Diario asiatico).

Più avanti, in uno sforzo per trovare espressioni adatte, padre Albert arriva a dire: «Che cos’è il dialogo interreligioso? E’ forse l’annuncio di una qualche buona notizia? No, significa piuttosto comprendere che tutti gli uomini che ti circondano stanno dentro la tua vita, che tu hai una specifica responsabilità nei loro confronti, che li devi aiutare a comprendere che essi hanno una grandiosa possibilità di essere felici [ . .] Basterebbe che noi dessimo più importanza al dialogo interreligioso in profondità [ . .]. All’inizio anch’io pensavo fosse cosa difficile, ma poi ho sperimentato come si possa non soltanto arrivare a fare esperienza della fede altrui, ma anche rendere più solida la propria fede» (pp. 172- 173). «In questi ultimi vent’ anni sono venuto in contatto con molte religioni che hanno arricchito la mia vita. Sebbene io continui a essere un prete cattolico come lo ero un tempo, tuttavia la mia fede è oggi molto più profonda di vent’anni fa, e ho ancora bisogno di apprendere dagli altri, apprendere da loro a ricercare la fonte della beatitudine [ . .]. Aprite le porte! La mia esperienza testimonia che ciò porta frutto!» (p. 172). Da qui un sussurrato auspicio e insieme un lascito di padre Albert verso le nuove generazioni, che questo gesuita si augura siano formate e preparate per il dialogo: «Se queste mie esperienze potessero aiutare i giovani a intraprendere il dialogo interreligioso.. .» (p. 205). Solo raccogliendo questo invito sarà possibile non fare di padre Albert e di altri pionieri del dialogo interreligioso delle strane, bizzarre figure che nuotano controcorrente, ma riferimenti cui guardare nel pensare una direzione del percorso futuro del cristianesimo accanto alle altre religioni. «Il mio unico sconcerto è che io diventi all’interno della mia Chiesa una figura singolare: questo il mio più grande dolore.. .» (p. 203), confessa con rammarico padre Poulet-Mathis.

L’aver dato voce alla sua decennale esperienza di dialogo in profondità con il mondo buddhista vorrebbe in qualche modo rassicurarlo, testimoniandone l’apprezzamento e la volontà di accoglienza della sua preziosa eredità: «Ciascuno secondo la propria tradizione, ma tutti immersi in un medesimo silenzio…» . (p. 171), o, come direbbe l’apostolo Paolo, «tutti abbeverati ad un unico Spirito» (1Cor 12,13). * Monaco di Bose


(da Mondo e Missione, m arzo 2008)

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Sabato, 06 Settembre 2008 21:00

Asia, scuola di pluralismo (Sandra Mazzolini)

Asia, scuola di pluralismo

di Sandra Mazzolini *





Se diversi sono i motivi per i quali sempre più persone viaggiano per il mondo, molto spesso è comune il fine conseguito: l’incontro tra persone di varie provenienze culturali e religiose. Che, per periodi più o meno lunghi e in forma più o meno stabile, interagiscono in uno stesso contesto, che per gli uni è quello conosciuto delle origini e per gli altri è un vero e proprio «nuovo mondo» da scoprire.

Le forme dell’incontro sono molte, certificate sia dall’esperienza quotidiana, sia dall’informazione, spesso concentrata sugli esiti negativi o sui fallimenti che sembrano sigillare l’impossibilità di una pacifica convivenza. Pare così giustificato, per esempio, il pensiero di coloro che ipotizzano uno scontro di civiltà o le paure e i timori di possibili «invasioni», ulteriormente destabilizzanti il già precario assetto istituzionale, politico ed economico del nostro Paese.

Se è un fenomeno sostanzialmente nuovo per il nostro Paese, non è così per altre aree continentali, la più significativa delle quali è quella asiatica. Qui il dialogo è tematizzato e praticato come modalità specifica dell’evangelizzazione, con riferimento a tre realtà che caratterizzano l’Asia: i poveri, le culture e le grandi religioni. Liberazione, inculturazione, dialogo interreligioso sono conseguentemente assunti quale terminologia specifica per descrivere i modi e gli ambiti dell’evangelizzazione in Asia.

Padre Michael Amaladoss, gesuita indiano, docente di teologia e autore di diverse opere sul dialogo interculturale e tra le grandi religioni, mette in rilievo che il dialogo interreligioso - l’interazione tra persone che appartengono a varie tradizioni religiose - può essere compreso e praticato in due modi differenti e complementari: o come dimensione della missione (e quindi con riferimento all’annuncio evangelico), o come dialogo praticato da credenti di religioni diverse che vivono insieme nella società civile, spazio pubblico multireligioso, che offre un’effettiva possibilità di collaborazione in ordine alla creazione di una nuova società giusta, libera e fraterna.

Il dialogo non esclude perciò alcun ambito della vita dei credenti e non è neppure appannaggio dei soli specialisti. La collaborazione per la difesa e la promozione di comuni valori umani e spirituali, e allo stesso tempo la condivisione della vita quotidiana della comunità di appartenenza, delle proprie esperienze spirituali, delle riflessioni sul proprio specifico modo d’intendere la vita e la realtà, sono le coordinate lungo le quali si sviluppano - certo non senza difficoltà - esperienze di dialogo tra le religioni, dalle quali può conseguire una reciproca ed effettiva comprensione e conoscenza, volta a superare quei pregiudizi che stanno all’origine delle divisioni anche conflittuali e che le mantengono vive.

Quindi l’apporto che i cristiani possono offrire al dialogo interreligioso, senza in alcun modo indebolire o negare la specificità della loro professione di fede e della loro appartenenza ecclesiale, si muove nella doppia linea della conoscenza degli interlocutori e del riconoscimento, che in ultima analisi riguarda un fattore determinante: Dio è già presente in essi e nelle loro tradizioni religiose. Destinatario dell’annuncio evangelico è, dunque, un mondo nel quale Dio non è estraneo.

Considerare in modo non pregiudiziale o idealizzato l’esperienza dei processi dialogici già in atto altrove permette di sottrarre dal limbo dell’utopia l’ipotesi di un’effettiva possibilità d’incontro.

Le nostre società, che si stanno configurando come interculturali e interreligiose, hanno bisogno certamente di leggi ad hoc che determinino i modi della convivenza civile, ma hanno anche e soprattutto bisogno di superare preliminarmente i pregiudizi; se questi permangono, la diversità è percepita e vissuta sostanzialmente come attentato alla propria identità. Invece occorre pervenire a una fondata conoscenza degli interlocutori, senza la quale non ci può essere un reale ed efficace riconoscimento

* Teologa, docente di missiologia alla Pontificia università urbaniana

(da Mondo e Missione, m aggio 2007)

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Voci discordi sul sito di al-Qaradhawi: “La mossa più saggia possibile”; “No, è una resa a chi vuole convertirci”.

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  Corea del Sud

A scuola di dialogo interreligioso

di Peter Njoroge Githaiga


«La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» (FelixAdler).

«La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» «La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» Mahatma Gandhi diceva che «uno studio amichevole delle religioni è un dovere sacro». Sono quindi contento di potermi dedicare allo studio comparato delle religioni, di avere l’opportunità non solo di assolvere a questo sacro dovere, ma di gustare, seppure come un semplice novizio, le ricchezze delle esperienze religiose del mondo al di fuori della sfera del cristianesimo. La realtà religiosa del mondo sta diventando sempre più pluralistica; perciò, qualsiasi religione venga professata, deve essere vissuta in un atteggiamento di incontro e dialogo con la fede del vicino. «E arrivato il tempo in cui i contatti interreligiosi basati sulla cortesia e una conoscenza generica non sono più sufficienti. È indispensabile conoscere in profondità la religione di colui con cui si vuole dialogare» (Card. .Arinze). Lo studio del mondo delle religioni non consiste puramente nel cercare possibili vie di armoniosa coesistenza o pacifica interazione, ma è molto di più: è un arricchimento reciproco.


Quando lo studio delle religioni è fatto avendo in mente il dialogo interreligioso, è importante accettare che la maggioranza di tali religioni sono «i modi di vita di immense porzioni di umanità…, l’espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani. Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi, di saggezza assimilata da popoli e culture. Sono tutte cosparse di innumerevoli “germi del Verbo” Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare,come vivere e morire, come custodire i propri defunti» (cfr Evangelii nuntiandi 53).


Infatti, il nocciolo della questione nello studio delle religioni è proprio qui: al di là dei contenuti di fede che vengono professati, esiste una realtà vissuta che è stata espressa in molti e differenti termini, come «esperienza religiosa», «esperienza spirituale», «esperienza divina», «esperienza del sacro, del trascendente, delle potenze divine» ecc. Nella tradizione abramitica possiamo chiamarla «esperienza di Dio».


Questa vasta gamma di «esperienze religiose», senza ignorare la realtà dell’errore umano, è una profonda, autentica e onesta avventura spirituale, che costituisce il cuore della storia umana di tutte le generazioni che si sono succedute nel tempo e nelle differenti situazioni geografiche. E poiché nessuno può pretendere di avere una completa e perfetta esperienza di Dio, lo studio delle differenti tradizioni religiose non può che arricchire la nostra limitata esperienza.


Noi non comprendiamo a pieno l’universo; non possiamo parlare della morte senza conoscere la vita. Almeno finché esistiamo, c’è una ragione per cui siamo al mondo, E la nostra volontà di credere in questa ragione più ampia ci aiuta ad agire in compagnia delle «potenze divine». E per affrontare la morte bisogna diventare collaboratori di cielo e terra nella creazione di un universo migliore: un traguardo raggiungibile se siamo aperti alle esperienze religiose altrui.


Lo studio delle religioni è di grande importanza anche nella stessa teologia cristiana. Senza raggiungere una prospettiva comparativa mondiale, la teologia cristiana non può né conoscere totalmente le proprie forze, né corroborare le sue debolezze. Per questo, la teologia cristiana ha bisogno di essere fondata sullo studio comparato delle religioni.


Il dialogo interreligioso è uno dei principali traguardi dello studio delle religioni. E’ importante nel nostro tempo inculcare nella mente della gente la «cultura del dialogo». «Il dialogo come attività umana e umanizzante - afferma il gesuita Raimond Panikkar, uno dei più grandi filosofi e teologi viventi - non è mai stato cosi indispensabile in tutti gli ambiti della vita quanto nel nostro tempo di individualismo accademico. Tutto il nostro loquace parlare di ”villaggio globale” si effettua su paraventi artificiali sotto chiave». Pace e coesistenza armoniosa della gente sono minacciate da estremismo e terrorismo. Per questo in tutto il mondo c’è un risveglio tra le persone di buona volontà, impegnate in uno sforzo di creare un’atmosfera di amicizia e cordialità verso le religioni altrui.


Il traguardo da raggiungere nel dialogo interreligioso è, a sua volta, quello di rimuovere le nostre maschere religiose, che non hanno nulla a che fare con la vera esperienza religiosa. Il vero dialogo religioso ha luogo solo quando raggiunge le profondità delle intime credenze religiose e affronta gli interrogativi fondamentali sul senso della vita. Quando le maschere sono rimosse una ad una e siamo immersi nel dialogo con tutta la nostra persona, allora emerge qualcosa dal di dentro e comincia il «dialogo interreligioso». A conclusione, riporto un poetico sermone di Panikkar, che contiene alcune linee-guida fondamentali per il dialogo interreligioso: «Quando intraprendi un dialogo interreligioso, non pensare in anticipo ciò che devi credere. Quando testimoni la tua fede, non difendere te stesso o i tuoi interessi acquisiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fai come gli uccelli de cielo: essi cantano e volano, e non difendono la loro musica o la loro bellezza. Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come un’esperienza rivelatrice, come tu vorresti (e dovresti) guardare il giglio nei campi. Quando prendi parte a un dialogo interreligioso, cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio prima di togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo prossimo. Beato te, quando non ti senti autosufficiente mentre stai dialogando. Beato te, quando hai fiducia dell’altro, perché confidi in Dio. Beato te, quando affronti incomprensioni dalla tua stessa comunità o da altri per amore della tua fedeltà alla verità. Beato te, quando non abbandoni le tue convinzioni e tuttavia non le poni come norme assolute».


(da MC,  marzo 2008)

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Un documento sottoscritto da personalità islamiche di 47 diversi Paesi alla fine del Ramadan 2007, l’affermazione della centralità dell’amore di Dio e del prossimo per entrambe le religioni.

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Al momento della sua pubblicazione, il documento dei 138 musulmani A Common Word è stato accolto dai media nostrani con espressioni di circostanza e timidi consensi, salvo finire archiviato, ben presto, alla stregua di una un’iniziativa curiosa, quasi eccentrica.

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Mercoledì, 18 Giugno 2008 02:22

Un presente senza catture (Raimundo Panikkar)

Un presente senza catture

di Raimundo Panikkar


L'incontro delle tradizioni religiose dell'umanità oggi è inevitabile, importante, urgente, confusionale, rischioso, purificante.

Ripeto, è inevitabile. Lo splendido isolamento dei vedantisti, dei cattolici, dei cristiani, di quelli che stanno dentro la muraglia cinese non è più possibile; l'incontro avviene già a casa nostra.

Alcuni paesi o civiltà come l'India sono sempre stati un mosaico di religioni, ma anche l'India ha creato le sue caste, caste religiose, per non contaminarsi gli uni con gli altri e da parecchi secoli spesso i cristiani hanno vissuto accanto agli indù senza avere nessun rapporto più profondo. L'Occidente ha vissuto con una certa ossessione dell'Islam durante alcuni secoli, ma poi si è accomodato in uno splendido isolamento, al punto che è stato necessario che venissero fuori i protestanti, perché altrimenti i cattolici da soli si sarebbero annoiati troppo.

L'incontro è inevitabile, ma ho detto che è importante, perché non è un incontro casuale; dal risultato di questo incontro dipende il futuro dell'umanità, che si verifichi una nuova guerra, una guerra religiosa; le guerre sono sempre più o meno religiose, perché si tratta di vita o di morte e non c'è altro modo di risolvere il problema; la definizione fenomenologica della religione: un problema ultimo.

L'incontro è così importante che il futuro dell'umanità dipende non dal capriccio di un politico o di un altro, ma dal clima che si è creato, che renda possibile che i politici in seguito ne siano influenzati.

Se le tradizioni religiose del mondo - e per tradizione religiosa intendo non soltanto quelle che hanno l'etichetta di religione, ma anche il marxismo, l'umanesimo, - non trovano in questo incontro un qualche cosa di positivo, l'umanità è condannata a sparire, i popoli a distruggersi a vicenda.

L'incontro è importante, non è un lusso, ma è anche urgente. Il culmine della saggezza in certo senso, anche in quello più volgare. consiste nel sa-per combinare l'urgenza della cosa con la sua importanza. Ci sono cose molto urgenti, ma non importanti, mentre al contrario, ci sono cose molto importanti, ma non tanto urgenti. A volte dimentichiamo le cose importanti e facciamo soltanto quelle urgenti, rovinando così la nostra vita; altre volte cerchiamo soltanto l'importante, senza accorgerci che questa cosa importante è rovinata perché quella urgente è già avvenuta e tutto è finito. La saggezza personale di ogni individuo consiste precisamente nel combinare l’urgente con l'importante. E urgente perché non c'è molto tempo. Non siamo preparati, dunque dobbiamo prepararci. L'incontro fra le religioni è confusionale. Io prima sapevo dove sono stato e adesso... sono confuso; chi non si sente confuso vuol dire che non ha capito, vuol dire che è superficiale, vuol dire che non gli importa niente di niente. Dunque anche la confusione fa parte del cammino, perché poi questa confusione è tanto più profonda in quanto tocca i pilastri stessi della nostra sicurezza. Abbiamo sentito una delle frasi più belle di Sartori, che se uno non muore alla sua fede non è degno della sua fede. E tutte le nostre sicurezze? Questa grande ossessione post-cartesiana dell'umanità, che fa sì che si cominci con la certezza e si finisca con la sicurezza, che si cominci con la certezza epistemologica e si finisca con la sicurezza politica delle armi?

È dunque confusionale questo incontro e lo deve essere; inoltre è rischioso. E rischioso perché quello che io metto in gioco è la mia fede, è la mia vita, è tutto quello che io penso sia la verità, è la cosa più importante e più centrale di tutta la mia esistenza, è quello che finora non si toccava. E rischioso, detto in linguaggio storico religioso, perché tocca il tabù. Come dice Avinava Gupta e dopo di lui Giovanni della Croce, (gli estremi si toccano) c'è un momento dove non c'è sentiero: anupaya, y en la fin no hay camino. Una in sanscrito, l'altra in spagnolo, ma vogliono dire la stessa cosa. E dunque rischioso. E rischioso, perché là dove non c'è un sentiero c'è pericolo.

Ultimo, è purificante. Forse proprio oggigiorno che siamo così sofisticati con la psicologia e con tante altre cose, questo incontro è l'unica scuola di vera umiltà. L'umiltà specifica che da solo non ce la faccio, che non sono autosufficiente, che non so tutto, che quel poco che sapevo e ritenevo che fosse certo, nemmeno questo lo è. E purificante, perché ci fa vedere nello stesso tempo i nostri errori personali e quelli del passato. E purificante, perché non giustifica che io mi lavi le mani perché durante le crociate io non c'ero, e quindi la mia visione personale, fantastica, del Cristianesimo va molto bene, ma non vuol sapere niente di altre pagine nere. E l'Induismo, il Buddhismo, per limitarmi a queste tre religioni, hanno anche loro le pagine nere. Se io fossi unjaìna, e lo sono un po' quasi onorariamente vi potrei parlare delle persecuzioni indù ai jaina. Quindi nessuno ha il diritto di scagliare la pietra su nessuno. E una purificazione collettiva, che riguarda i buoni, i cattivi, i giusti, tutti quanti. Sostengo dunque, come introduzione, che l'incontro fra le religioni ha queste caratteristiche.

le catture

Ma veniamo al tema le catture. La mia riflessione è che noi ci dobbiamo liberare, e liberazione vuol dire nirvana, vuol dire moksha, vuol dire soteria, vuol dire anche teologia della liberazione, se volete. Ci dobbiamo liberare dalle possibili catture che ci tengono o ci possono tenere prigionieri durante questo pellegrinaggio verso il futuro, perché mi si chiede che parli del futuro senza catture. Io preferirei questa volta disubbidire, soltanto parzialmente, e sognare un momento con voi, un presente senza catture. Se riesco a spezzare alcune di queste catture per il presente, avrò fatto - penso - il migliore servizio per il futuro.

Io ne vedo troppe di catture, ma ne vorrei segnalare quattro.

La prima ci viene dal di dentro, dalle nostre reazioni viscerali, da ciò che non è stato mai sognato, mai pensato, che è stato giudicato impossibile e quindi costituisce una specie di resistenza passiva, incosciente la maggior parte delle volte. Esiste un'inerzia dello spirito, favorita da tutta la parte pesante del nostro essere, dal costume, dalle consuetudini. Si dovrebbe e si potrebbe fare una psicoanalisi di questa nostra inerzia, che non è formulata, perché non è nemmeno cosciente, ma che è normale; là si fa così, ma qui si fa in questo modo e basta. Dobbiamo superare questa reazione viscerale.

le idee comandano?

La seconda cattura è ancora più forte. Se fossi in sede accademica direi che ci tiene prigionieri da Parmenide in poi. Siamo prigionieri del pensiero. Le idee comandano e ci dominano. E la prova più straordinaria che il pensiero è così potente, è che io calcolando con numeri irrazionali e facendo pura matematica costruisco un ponte e il ponte sta in piedi. In Occidente - e questo è il grande miracolo, se diabolico o divino, lo lascio da parte adesso - il pensiero ha dominato l'essere. Forse, però, siamo diventati schiavi dei nostri pensieri, dei nostri schemi intellettuali. Detto in un'altra forma, il logos ci domina. Già da principio i Padri greci avevano capito che c'era pericolo in Occidente, del cosiddetto subordinazionismo, cioè di subordinare nel fare teologia lo Spirito al logos e che il logos fosse tutto; mentre lo Spirito soffia non soltanto dove vuole, ma anche come vuole.

L'esempio più chiaro è la prigione dell'ortodossia. Io non ho niente contro l'ortodossia, dico soltanto che è una prigione, anche se alcuni la trovano confortevole perché si trovano sicuri. E interessante vedere questa specie di degradazione dall' ebraico, al greco, alle lingue che già i latini chiamavano volgari, de] termine kabot, la gloria del Signore, doxa, la potenza della gloria e doxa, la ortodossia, che ha molte poco di questa rifulgenza, di queste lume, di questa luminosità interna che si è convertita in schemi chiari precisi, distinti, cartesiani, sicuri forse certi, dentro un certo limite. Ci si è dimenticati che anche grandi pensatori, come il divus Thomas, sostennero che l'atto di fede non consiste nei dogmi, negli enunziati, ma punta direttamente alla cosa e che i dogmi sono soltanto canali per arrivare a quella, come nella metafora orientale in cui è il dito che punta la luna; se tu non guardi il dito, non vedrai la direzione della luna, ma se pensi che la luna stia nel dito, allora ti sbagli. Quindi, una volta che hai visto il dito, lo devi dimenticare.

Tutte le spiritualità, quando arrivano alla ultima formulazione forte, hanno una omogeneità straordinaria. Dice il Mahayana: «Se vedi il Buddha, uccidilo», perché quello che era il tuo aiuto per arrivarci, può dIventare il tuo ostacolo. Dopo Emmaus, penso che i cristiani possano egualmente dire: «Se vedi il Cristo, mangialo, non chiuderlo sotto chiave in qualche parte; fallo tuo, mangialo».

Le dottrine sono necessarie. La dottrina è una cosa straordinaria. Viviamo tutti in una società di consumo sulle dottrine, ma la dottrina non è la vita, lo scheletro non è l'individuo. Io non ho niente contro le dottrine, critico soltanto l'assolutizzazione delle dottrine e la confusione tra dottrina e realtà.

la contingenza delle culture

C'è un'altra cattura più sottile ancora, perché meno cosciente. La parola che forse la può descrivere meglio sarebbe l'ambiente, mentre il termine più appropriato sarebbe la cultura. Tutti quanti noi ci muoviamo dentro un ambiente, dentro una cultura. Abbiamo delle limitatezze che sono necessarie, di cui non possiamo far a meno; tutti noi siamo radicati dentro una cultura.

Un esempio banale, ma almeno chiaro: quando io ho cominciato a parlare, sicuramente tutti quanti di voi avete percepito che io parlavo con un accento piuttosto strano. La mia cattura dell'ambiente, non può essere vinta dicendo: «Beh, io non mi lascio imprigionare!». Ma soltanto essendo consapevole che io sono dentro un ambiente, che sto dentro una cultura, che sono contingente, limitato, che la mia visione non esaurisce l'esperienza umana, che io non posso in nessuna maniera avere la pretesa che le mie parole, le mie verità, le mie idee, le mie rappresentazioni, siano la totalità, che il mio mondo sia il mondo, la verità, l'ambiente, la realtà. Esse sono tinte del mio accento, delle mie limitatezze, della mia contingenza, della mia cultura, della mia forma di vedere, di tutto. Dobbiamo precisamente dire: «Sì, sto dentro un ambiente e questa è la mia condizione, questa è la condizione umana». Questa stessa pretesa d'universalità, di neutralità è ovviamente un'allucinazione possibile soltanto a colui che non ha avuto il correttivo dell'altro.

Perciò la quarta cattura è quasi il rovescio. Volendo uscire dal mio ambiente, volendo uscire dalle mie limitazioni, finisco per lasciarmi condizionare dall'ambiente e dalle limitazioni degli altri. Quindi parlo per gli altri, mi lascio alienare, in certo qual modo, da quello che penso sia il mio ruolo, (c'è un ruolo che consiste nel fare un po' il teatro). Non dimentichiamolo: il giansenismo, il manicheismo ci sono dappertutto. E in questo campo possono chiamarsi xenofobia come xenofilia, possono voler dire che tutto quello che viene da fuori dell'Italia è migliore o che soltanto noi cattolici o noi italiani siamo i migliori del mondo. Quello che dobbiamo realizzare non è un esercizio di pensiero, non è un esercizio di filosofia, di teologia, di acutezza, non è un esercizio di carità, (la tentazione di fare del bene è molto sottile, ma già Cristo ci ha avvertito: «lascia che le pietre rimangono pietre e non volerle convertire in pane»). Dentro la tradizione cristiana, (non l'indiana, perché qui la parola sarebbe molto diversa) si potrebbe dire che è una questione di santità, di purezza di cuore, di audacia, di libertà di spirito, di docilità alla grazia. E una questione che abbiamo avuto l'audacia di toccare sia l'anno scorso che quest'anno, e richiesta in maniera esigente di una donazione totale, di una docilità assoluta, una purezza trasparente. Diceva la Ung Ciung... «soltanto la sincerità più pura, soltanto la purezza più trasparente può effettuare un cambiamento». Qualsiasi cosa che venga da un cuore totalmente trasparente, da una intenzione completamente irriflessa, senza che nessun'altra cosa l'accompagni, può effettuare un mutamento.

Lasciate che vi racconti questa piccola storia di Bapuji Gandhi. Una buona donnetta del suo asram Damedavat che lo vedeva di tanto in tanto, un giorno va, tocca i piedi di Bapuji e gli dice: «Bapuji, dite alla mia ragazzina, (aveva una ragazzina di otto dieci anni) che non mangi tanti dolcini che le rovinano lo stomaco, che sia un po' più buona e che mi ascolti. Diteglielo per favore!». Gandhi non rispose niente, sorrise, lei capì e se ne andò senza dire altro. Settimane più tardi lo trovò un'altra volta e allora la donna, che non aveva più questo desiderio di far del bene a sua figlia, disse: «Bapuji per curiosità, perché non mi avete risposto quando vi ho fatto quella richiesta per mia figlia?» e Gandhi le rispose: «Sai, in quel tempo piacevano anche a me un po' troppo i dolci» e quindi le sue parole non avrebbero avuto nessun senso, nessun effetto. Soltanto la più pura sincerità, la più totale trasparenza può effettuare il minimo cambiamento, dice la saggezza cinese. Questo è il corollario: non si tratta di una buona teologia, si tratta di un'altra cosa; questo è il Kairòs, questa è la sfida.

l'avventura della fedeltà

Il primo problema è teologico. Intendo anzitutto teologico nel senso tradizionale della parola, cioè che implica santità, fedeltà E qui vorrei essere molto chiaro. Non si tratta in alcun modo di diluire, debilitare la propria convinzione, la propria fede, la propria religione; non si tratta di cercare un comune denominatore facendo concessioni qua e là, a motivo della pace, dell'ecumenismo, della convenienza, della tolleranza tra i popoli. Non si tratta dunque dì creare una specie di ecumenismo alla bière, come io lo chiamo parlando con gli ecumenisti francesi. Dinanzi a un bicchiere di birra tutti quanti siamo ecumenici. E il problema che mi sta a cuore non è domandare un'apostasia; non è che io diluisca le mie convinzioni e che a motivo degli altri sia traditore, cerchi un comune denominatore e voglia fare dei compromessi. Non si tratta, per ripetere le parole di Paolo, di svuotare lo scandalo della croce, di essere meno cristiani per essere più ecumenici; si tratterebbe, semmai, di essere migliori cristiani per essere migliori ecumenisti. Il dialogo non è un segno di insicurezza, ma è un segno di maturità e soprattutto di assenza di paura. Se vado al dialogo con paura, tutto quello che ho paura di perdere è bene che lo perda quanto prima, perché allora sarò liberato dalla paura. Tutto quello che può morire muoia quanto prima e più presto verrà la risurrezione. Quindi il problema teologico consiste nel non minimizzare le differenze, non evitare i problemi scottanti imbarazzanti, ma nel penetrarli più dal di dentro e dì compiere quello che io posso.

Lasciatemi qui stabilire tre punti fermi che prendo da: 1° Timoteo, 2° Timotero, e 3°, tutta l'epistola agli Ebrei e ai Romani, tre punti fermi garantiti dalla stessa Scrittura fondamentale del cristianesimo. «Deus vult omnes homines salvos fieri, Dio vuole che tutti gli uomini si salvino»: questo dicono i cristiani ripetendo la loro Scrittura. Dunque, se Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e questa non è una velleità divina, questo stesso Dio, parlo il linguaggio cristiano tradizionale, deve concedere agli uomini dei mezzi di salvezza che siano alla loro portata di mano. E quello che sta a portata di mano di tutti gli uomini sono precisamente le tradizioni religiose. Quindi le religioni dell'umanità sono i mezzi ordinari voluti da Dio per la salvezza degli uomini; sto facendo teologia cristiana. Ogni autentica religione è cammino di salvezza, e prima già ho detto che io non limitavo il nome di religione a quelle che ne hanno l'etichetta, che in fondo sono soltanto le religioni abramiche, perché né il Buddhismo né l'Induismo sono contente se le chiamano religioni. Non possono «religare» niente, è tutto un altro universo di discorso; comunque possiamo utilizzare questa parola, se gli indù e i buddhisti l'ammettono, perché la utilizziamo tra virgolette. Questo è così pacifico - non voglio fare qui autobiografia – che anche il Concilio l'ha accettato.

Seconda, e forse il più difficile di questi punti fermi. «Unus mediator, un unico mediatore» dice anche l'epistola a Tito. Sì, i cristiani non possono fare a meno di credere che c e un unico e solo mediatore. Se rinunciano a questa intuizione per motivi di ecumenismo tradiscono venti secoli di tradizione cristiana. Da parte mia credo che c'è soltanto un unico mediatore (con questo mi rendo più vulnerabile, se volete), che c'è Cristo e soltanto Cristo come simbolo per i cristiani, che è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, che è l'alfa, l'omega, il ricapitolatore di tutto l'universo, il monoghenés, il protoghenés, il primogenito, l'unigenito, la luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo, colui per cui tutte le cose sono state create, in cui tutto risiede, consta e ha la sua forza, in modo tale che io filosoficamente direi che l'essere è una cristofania. Quindi, ci credo. Continuo però dicendo che: 1°) Il Cristo, (vi faccio questo riassunto neotestamentario assai rapido) non è identico a Gesù. Gesù è il Cristo e chi dice questo credendoci è un cristiano, ma Cristo, pur essendo Gesù, è molto di più, (il «più» qui non va) e non si può identificare con Gesù. L'eucarestia per il 90% dei cristiani è il Cristo, ma nella eucarestia non si mangiano le proteine di Gesù di Nazaret. «Lo avete fatto a me», ho commentato prima. Gesù è morto, quello che è risorto è il Cristo, che è un'altra cosa; che è la stessa da un certo punto di vista, ma che non si può identificare. 2°)1 cristiani non hanno il monopolio di Cristo. 3°) I cristiani non conoscono del mistero di Cristo che una piccolissima parte, non lo possono manipolare per i propri fini, questo Cristo li trascende totalmente; il Cristo ha altre dimensioni, aspetti, forme, di cui i cristiani non sanno assolutamente niente, non sono loro i padroni di Cristo, loro conoscono del Cristo qualcosa che per loro è essenziale, che per loro è centrale, ma questo Cristo-Mistero trascende da tutte le parti quello che i cristiani pensano, credono in Cristo. Perciò io mi per-metto di dire che il Cristo, in questo terzo senso, è nascosto, sconosciuto, presente e effettivo in ogni autentica religione.

Quindi il mistero di Cristo è mistero di Cristo e, se noi utilizziamo la parola nel suo senso reale, non possiamo in alcun modo pretendere di avere conoscenza, manipolazione di questo mistero.

Qui c'è una cosa che io ho chiamato «pars pro toto effecto». Ciascuno di noi vede il mondo da una finestra e non può non vederlo che da una finestra e quanto più trasparente e bella è la finestra meno si vede, meno consapevoli siamo di vedere attraverso la nostra finestra. E noi vediamo tutto il mondo, tutto. Io non sarei cristiano se pensassi di appartenere ad una piccola setta che esiste soltanto da due millenni; io non voglio appartenere a nessuna setta, io non voglio consacrare la mia vita soltanto a una cosa che è avvenuta duemila anni fa, quando l'umanità esisteva per lo meno da mille anni prima e aveva fatto tante cose belle... No, la mia appartenenza al Cristianesimo non è l'appartenenza settaria a una forma; io riconosco le mie limitatezze e so che non posso fare a meno di dire che per me il Cristo è il simbolo di questo, che gli altri chiamano con altro nome, che vedono in modo diverso, che ha anche dimensioni per me completamente sconosciute e per me anche inaccettabili dal mio punto di vista. È il «pars pro toto effecto». Io vedo il totum in parte e ho bisogno dell'altro per dirmi che sto guardando attraverso l'apertura di una finestra, perché io non la vedo; quanto più la finestra è pura finestra tanto meno è visibile, ma qui», e io gli dirò: «Anche tu». Ebbene, noi due vediamo la stessa cosa, non vediamo due punti diversi. La mentalità scientifica ci ha contagiato in modo tale che tante volte l'ecumenismo consiste nel dire: Beh, qui c'è il grande dolce, facciamo una parte per te, una parte per me, la mia è un po' più grande della tua, è un po' superiore, ma tutti insieme facciamo la torta. Non è una torta. Io non mi accontento di avere una parte di torta, io la voglio tutta, ma la voglio tutta con la mia limitatezza. Quindi, vedete, non si tratta di un po' plus bon marché, di fare un cristianesimo più facile; al contrario, «unus mediator». Il cristiano cesserebbe di essere cristiano, se non pensasse che nel Cristo sta tutta la pienezza, la ricchezza della divinità, ma questo mi trascende; perciò qualsiasi discorso cristiano, ecumenista, che taccia sul Cristo evita il problema. Quello di cui c'è bisogno è una cristologia umile e perciò capace di non voler essere né universale né onnicomprensiva, ma non per questo cessa d'essere la mia visione. I cristiani non possono fare a meno di dire che questo Cristo loro lo hanno tutto, nella loro forma, nella loro limitatezza. Le mie premesse adesso si capiscono forse meglio.

Ho detto che non volevo parlare troppo di questo excursus teologico. La terza grande verità, che non sarebbe solo cristiana, ma anche di tante altre religioni: sola fides. La salvezza non è un atto automatico, un happy end e quindi è necessaria la fede. E questa la dottrina cristiana; senza fede uno non si può salvare, senza entrare ora nel merito di cosa sia la salvezza. Se noi manteniamo questi tre punti penso che anche il teologo più esigente non può dire che nell'incontro delle religioni si faccia un eclettismo più o meno superficiale. Devo subito aggiungere che quando dico fede, dico fede, non credenza, non l'articolazione della fede secondo un linguaggio, secondo una cultura, secondo una prospettiva, secondo «una finestra». Gli articoli di fede non sono la fede, sono quel bagaglio dì cui c'è bisogno perché io possa, come essere intelligente e intellettuale, più o meno formulare una cosa che mi permetterà poi dì saltare in una realtà che non ha formulazione possibile. Anzi, io direi - e qui non lo sviluppo da un punto di vista esclusivamente teologico, cattolico, apostolico, tridentino - che la fede non ha oggetto; sarebbe idolatria. La fede è una dimensione costitutiva dell'uomo, la fede è la capacità di essere aperto, di essere non-finito, infinito, di più, d'essere capace di trasformarmi, di crescere e, che io sappia, questa capacità dì «più» tutta la tradizione cristiana l'ha chiamata theosis, la divinizzazione dell'essere e dell'essere umano, io direi di tutte le cose. Quindi la fede è necessaria, ma la fede non sono le mie idee sulla fede o il mio articolo di fede o tutto il mio credo. Il mio credo è là dove io deposito il mio cuore, che è quello che la parola credo vuol dire: credo, cardia, in sanscrito stradda, la donazione del mio cuore. Ma devo esser breve, quindi passo al secondo punto dei tre problemi fondamentali. Il primo problema fondamentale, ripeto, è il problema teologico nel suo doppio versante di santità, di fedeltà e di elaborazione intellettuale, per poter esprimere il più correttamente possibile questo mistero. In questo caso di una religione che, essendo concreta, si apre a tutto il possibile.

Il secondo problema è il problema ermeneutico. Ermeneutico è una di queste parolacce che i teologi, i filosofi inventano e che vuol dire interpretazione. Io devo saper interpreta-re le altre tradizioni religiose, devo saper interpretare cosa è l’induismo, cosa è il Buddhismo o cosa sono gli altri. Il metodo ermeneutico non può essere mai a senso unico; cioè a me piacèrebbe sapere come se la cavano questi indù, buddhisti in queste cose, ma non sono disposto a che loro mi facciano la stessa domanda. Se l'incontro delle religioni non si fa sempre a doppio senso, non è un vero incontro. Seconda regola ermeneutica: non posso fare la caricatura d'una religione e confrontare l'inquisizione, le crociate, le guerre di religione con il dammapala, le Upanishad, la mia grande filosofia indiana; o non posso mettere a confronto le superstizioni e tutte quelle cose che capitano nel Gange e il sermone della montagna, la purezza del Vangelo... Non si può fare la caricatura dell'uno e confrontare aspetti eterogenei. Se vogliamo confrontare la superstizione confrontiamo la superstizione, se vogliamo confrontare una cosa buona, facciamolo con un'altra cosa buona.

C'è un malinteso direi quasi costitutivo nell'interpretazione vicendevole delle tradizioni religiose. I cattolici hanno interpretato i poveri indù, cominciando col dar loro un nome che non avevano; l’Induismo è stato un'etichetta che hanno dato loro, ma loro non si chiamavano indù, erano molto contenti senza questo nome. Io direi che più del 90% di tutti i libri scritti in Occidente sulle religioni dell'Asia fanno una descrizione inadeguata e, se ne volete la conferma, provate a leggere qualcosa che alcuni indù o alcuni buddhisti hanno scritto sul Cristianesimo: sì, dicono delle cose vere, ma non capiscono. È chiaro, perché qui sta il grande problema ermeneutico: non si può capire una religione soltanto dal di fuori, non si può capire una cosa, se allo stesso tempo uno non è convinto che quello che capisce è verità. Non posso capire qualsiasi cosa dell'ordine della fede, se io non credo in certo qual modo che quella è la verità; non posso capire l'Induismo, se io non sono convinto che l'Induismo è un veicolo di verità.

In sede accademica io ho sviluppato tutta una teoria sulla fenomenologia religiosa che dice che la fenomenologia religiosa è sui generis e così sui generis che non ha «noema», come ben sanno quelli che sono specializzati su Husserl. Non c'è noema, ma c'è una cosa che io ho battezzato col nome di pistema, cioè la fede del credente appartiene essenzialmente al fenomeno religioso. Perciò io debbo descrivere quello che il credente crede, non quello che io credo che lui creda, e io non posso descriverlo se non ci credo, perché allora non descrivo quello che lui crede, descrivo quello che io credo che lui dovrebbe credere o che lui non crede. Si capisce che le autorità, al plurale, siano così preoccupate, perché tu non lo puoi capire se non ci sei dentro, quindi se, in un certo modo, non ti puoi convertire, altrimenti fai una caricatura. La necessaria conversione. Io non posso dire: «questo è verità», se è sbagliato, perché, se lui non crede a quello che io credo che lui creda, è tutta un'altra cosa.

Ho passato 40 anni a fare questo lavoro, quindi vi potrei parlare del sistema, pistis-fede, pistema, corrispondente a noèma, da noùs. Se possa prendere il pistema del credente di un'altra tradizione religiosa per poterlo prima descrivere e poi valutarlo in certo qual modo, è un problema ermeneutico formidabile.

E terzo, sempre a proposito dell'ermeneutica: c'è un'altra cosa che appartiene a quello che io dicevo con il logos (almeno il mio sistema è coerente). Non è necessario di capire tutto. Perché vogliamo capire tutto! Io penso che questa è la sindrome maschile più perniciosa. Voi ricordate Luca, il maschio Luca evangelista, per tre volte con una condiscendenza maschile ci dice che Maria non aveva capito ma conservava le cose nel suo cuore. Meno male! Conservare le cose nel cuore senza capirle forse appartiene a una saggezza superiore.

La situazione attuale non ha modelli

Il problema filosofico è ugualmente serio. Sono convinto - e qui faccio un discorso eminentemente occidentale, - l'Occidente non deve dimenticare una delle sue forze più importanti, lo spirito critico, lo spirito d'analisi, il senso di dubbio, uno spirito critico che direi post-illuministico. Perciò prima ho detto, e non mi sono voluto correggere perché non ho visto nessuna mano che mi domandasse un chiarimento, che le religioni sono mezzi ordinari di salvezza. Il filosofo e lo spirito critico correggerà questa frase e dirà che le religioni sono progetti di salvezza, non mezzi. Hanno il progetto e tutte le religioni ce l'hanno, ma un progetto non è necessariamente un mezzo. Il discorso filosofico, che è quello dello spirito critico, vuoi dire, in altre parole, che la situazione di questa nuova costellazione umana delle diverse tradizioni religiose dell'umanità che cominciano a riconoscersi le une con le altre, non va risolta con l'esclusivismo: Io, e se non sono unico, sono almeno un po' superiore. La superiorità cristiana è un peccato contro lo Spirito Santo. Non va risolta nemmeno con l'inclusivismo: in fondo diciamo la stessa cosa, tu sei un cristiano anonimo, tu sei un credente che si ignora, nel fondo più profondo, nella mistica siamo tutti la stessa cosa, nella notte tutti i gatti sono neri… Siccome ebbi la fortuna di essere il primo ad ascoltare, il contributo a Salisburgo di Karl Rhaner (eravamo Alexander von Rondl, Vareno, io e un altro) io gli chiesi, quando lui sviluppò la teoria dei cristiani anonimi, se lui sarebbe stato contento che io lo chiamassi un buddhista anonimo. Quindi, né esclusivismo ne inclusivismo. L'unica parola che qui forse servirebbe è quella di pluralismo, e pluralismo non è pluralità, non e considerare ciascuno come il piccolo pezzo di tutto il grande meccanismo; no, pluralismo è quel pars toto che dicevo prima, pluralismo vuoi dire che nessuno può esaurire, tutto lo spettro dell'esperienza umana. Che non si può racchiudere la realtà in un solo schema, perché la realtà non è schematica, non è nemmeno trasparente a se stessa, cioè uno non ha bisogno di essere aristotelico, monoteista o hegheliano per credere nella noesis, nella riflessione totale o in un Dio trasparente a se stesso, onnisciente rispetto a tutto il reale. La verità stessa è pluralista che non vuoi dire plurale. E un altro spunto che non sviluppo di più. Passo subito al mio quarto e ultimo punto di questa quaternitàs perfetta. Questo è il mio ultimo e breve punto, quello che mi piacerebbe chiamare la fecondazione mutua. Non possiamo soltanto guardare indietro, non possiamo soltanto ritornare alle fonti, non possiamo credere che la storia sia finita, non possiamo accontentarci di rifare gli sbagli degli altri o correggerli. Siamo in una situazione nuova e non sarei originale se io citassi della Bibbia che lo Spirito fa nuove tutte le cose. La situazione attuale non ha modello, non si tratta soltanto di andare indietro odi predicare tolleranza, o di fare tutte queste piccole cose che ho cercato di fare. Siamo dinanzi a una situazione medita, perciò ho cominciato dicendo che tutto il mio discorso voleva essere una preghiera, perché è pieno di questo senso di precarietà, dato che non sappiamo dove andiamo, ma non c'è nemmeno bisogno di saperlo, purché si sappia quel è il prossimo passo.

senza preservativi spirituali

La conseguenza di tutto quello che ci è stato detto è che non dobbiamo aver paura, paura dell'ignoto, paura del nuovo, paura dell'insospettato, paura del pericoloso, paura del rischio, paura di perdere la fede o la vita, paura di non sapere qual è il prossimo passo. Il nuovo è nuovo perché è sconosciuto, perché rischioso e quando parlo della fecondazione mutua tra le diverse religioni penso che la maggioranza di voi ha capito che non c'è fecondazione senza amore, che non c'è fecondazione se mettiamo preservativi spirituali e preservativi religiosi. La fecondazione deve essere naturale e deve essere figlia dell'amore; e il figlio che nasce malgrado tutte le cautele è sempre un rischio, è sempre insospettato, è sempre più bello in ultima istanza, almeno per i genitori, di quello che si aspettavano. Se noi non siamo coscienti che facciamo qualcosa di storico, allora non vale la pena. Se tutta la nostra vita, la nostra fedeltà, tutta la nostra storia è soltanto per fare un piccolo scherzo per passare il tempo, allora non vale la pena.

Non sappiamo dove andiamo. Niente è più difficile che gestire la libertà vogliamo sempre le cipolle d'Egitto e quando ci dicono: questa sicurezza no, quell'altra no, allora cerchiamo di guardare indietro per tornare un'altra volta a qualcosa che ci dia almeno un appiglio. Se parlasse il buddhista direbbe che non si tratta nemmeno di prendere rifugio nel Buddha, che il Buddha è sparito. Racconta una bella leggenda mahayana, che un grande bodhisattva dopo la sua vita se ne andò nel settimo cielo per vedere dove abitava l'Adibuddha, Gautama, il Buddha primigenio; non stava nel primo cielo, nè nel secondo nemmeno, nel terzo. Percorre tutto il Paradiso di Dante e finalmente arriva nel settimo cielo, animato dalla sua curiosità di vedere dove si trovi questo grande, il primo dei bodhisattva, l'Adibuddha. Tutte le stanze sono vuote, non c'è niente da trovare, finalmente un angelo se volete gli dice «Che cerchi?» «Cerco il Buddha, Adibuddha». Lo guarda con questa faccia di angelo innocente. «Ma non sai che il Buddha è sceso sulla terra e starà là fino a che l'ultimo essere vivente sia riuscito ad avere la liberazione!».

La fecondazione mutua vuoi dire, conoscenza, che non è possibile senza simpatia e senza amore; dopo il rischio che nasca un figlio, il rischio che venga qualcosa di nuovo. L'atto della libertà: se la fede non ci fa liberi, non so cosa sia la fede.

Diceva Gregorio di Nissa, vecchio cappadociano, padre della chiesa, commentando l'atto fondamentale di tutte le religioni abramiche, quando Abramo con un atto di fede ubbidisce a Javeh che gli dice di andarsene, lui e tutta la sua tribù, fuori della città di Ur: «e allora Abramo sapeva che andava per un buon cammino, perché non sapeva dove andava». Soltanto se noi sappiamo dove andiamo, se non programmiamo dove andiamo, se non abbiamo bisogno di una intelligenza artificiale o di un computer che ci dica i passi da fare, faremo la continuazione dell'opera creatrice. Questo è il programma che io penso che abbiamo dinanzi di noi. Questo mi ha portato in altra sede a invocare la necessità non di un Vaticano III, né di una Chicago 1, ma di una Gerusalemme II°, cioè di adunare tutti gli uomini e io direi, dato che sono troppo buddhista, tutte le cose, gli animali, le piante e di fare un concilio questa volta veramente ecumenico, per vedere se l'umanità sa reggere la sua libertà, questo dono di cui finora abbiamo abusato. Io credo che il destino sta nelle nostre mani e questo, almeno per me, è una sorgente di gioia.

(da Rocca, 1 ottobre 1987, pp. 54-59)
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