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Mercoledì, 04 Gennaio 2012 08:23

Oltre i limiti della genetica

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Il dibattito sugli "organismi geneticamente modificati" si condensa sempre più su motivazioni ideologiche e meno su questioni scientifiche e tecnologiche. Poca chiarezza sul loro impatto, lentezza nella ricerca e ingenti interessi economici in gioco ne oscurano la reale portata, e minacciano il rilancio di una "economia reale".

 

Spesso il dibattito scientifico intorno a un particolare argomento si carica di significati più ampi e diventa il simbolo di una discussione diversa di cui, evidentemente, si sente il bisogno. È il caso degli Ogm, letteralmente "organismi geneticamente modificati", che esistono a partire dalla metà degli anni '80 e che sono stati immessi nel mercato circa dieci anni dopo. Un organismo geneticamente modificato è un essere vivente che possiede un patrimonio genetico mutato mediante tecniche di ingegneria genetica, ossia con l'aggiunta, l'eliminazione o la modifica di elementi genici. Esistono al mondo solo quattro tipi di coltivazioni Ogm: mais, colza, soia e cotone, realizzate per migliorare alcune caratteristiche come la resistenza a insetti e a diserbanti.

Ma dalla metà degli anni '90, quando le prime piante sono state introdotte, la tecnologia si è fermata e non ha dato nuovi frutti. E questo, come spiega Marcello Buiatti, professore ordinario di Genetica all'Università di Firenze nonché esperto del Comitato economico e sociale europeo per le questioni che riguardano gli Ogm, ha un significato ben preciso. «Gli Ogm sono un tipico case-study, cioè un argomento simbolo di un dibattito che va ben oltre i limiti della genetica e che deve essere affrontato se si vuol capire a fondo l'intera problematica», spiega il professore. «Dal punto di vista scientifico, sono un insuccesso clamoroso perché in 23 anni non è stato prodotto alcun nuovo risultato, ma interessante è il fenomeno culturale che vi ruota attorno e che pervade a diversi livelli la nostra società. Dobbiamo fare un parallelismo con i doni: i doni in realtà non esistono. Ci sono pochi animali nel mondo ma stanno tutti male perché l'alterazione del Dna causa effetti non controllabili. Nel 2002 lo stesso Wilmut, creatore della pecora Dolly, il primo mammifero donato, lo dichiarò apertamente ma gli fu dato poco risalto».

Il professor Buiatti è attivo nel campo dell'analisi molecolare di organismi transgenici e approfondisce da anni i rapporti tra scienza, etica e società e l'evoluzione dei concetti biologici. Ha pubblicato numerosi scritti sulle politiche di sostenibilità ed educazione ambientale e nel suo ultimo libro, Il benevolo disordine della vita, ha illustrato il ruolo chiave della biodiversità nel processo della vita. «Tecnicamente, dunque, qualsiasi forma di Ogm risente dei limiti del processo stesso che lo ha creato», prosegue il genetista. «A priori non sappiamo una serie di cose, dove si inserisce esattamente il filamento di Dna aggiunto, in quante copie, e il suo destino. I geni alternativi inseriti vanno comunque a influenzare l'armonia metabolica delle piante stabilizzatasi in un lunghissimo tempo. La rete di un organismo vivente è dinamica e complessa all'interno dell'ecosistema, quindi il primo effetto negativo è per le piante stesse, non per chi le consuma».

La tecnologia, per di più, sembrerebbe non avere nemmeno una sua utilità: le rese unitarie di mais a partire dagli anni '70 non registrano alcuna impennata stando ai dati dell'Usda, il dipartimento americano per l'agricoltura, anche se quelli forniti dalle multinazionali produttrici dicono altro. Rimane il punto interrogativo sulla salute dell'uomo, ossia se il consumo di alimenti Ogm può arrecare danni di qualche genere. Anche qui non è facile fare chiarezza: gli studi sono stati per di più commissionati dalle stesse aziende e, tecnicamente, non è semplice realizzarli perché i gruppi analizzati dovrebbero esattamente mangiare gli stessi cibi con l'unica variabile rappresentata dagli Ogm. L'importanza del dibattito, sempre acceso e attuale, deve necessariamente coinvolgere altri piani. E così risulta al professor Buiatti. «Se i doni fanno paura, perché non siamo macchine e istintivamente cerchiamo la diversità - spiega -lo stesso accade con gli Ogm: si teme la tecnologia e c'è una profonda confusione fra scienza e tecnologia che i media alimentano enormemente. La tecnologia fa paura: si ha paura di chi fa le armi, perché la macchinizzazione è simbolo di morte. Ma la natura è diversità e l'omogeneità non funziona. Il dibattito sugli Ogm è tutto ideologico dunque, e alle tre multinazionali, e non solo, fa estremamente comodo».

I prodotti visti come valori

Per capire, però, i molteplici aspetti dell'impatto reale degli Ogm, ci sono anche altre considerazioni da fare. Gli Ogm sono coltivati essenzialmente negli Stati Uniti, Canada, Argentina, Brasile e Cina, con aziende enormi, bassi costi di manodopera e politiche fondate sulla quantità del prodotto. Non sembrano proprio aiutare a combattere la fame del mondo, però, ed è questo il primo cavallo di battaglia per chi ne fa promozione. Il caso dell'Argentina è emblematico: con l'introduzione delle colture Ogm, molti piccoli coltivatori sono stati costretti a emigrare, i più poveri verso le favelas. La monopolizzazione del mercato con il regime dei brevetti, vero fattore di arricchimento per le aziende produttrici, impedisce scelte democratiche e l'autonomia dei Paesi, oltre a una distribuzione più equa del mercato. Ma esiste un rimedio?

«Il mondo è controllato dai finanzieri, non dai produttori - conclude Buiatti - e soprattutto è un problema etico per l'intera società. C'è un processo di virtualizzazione in atto che fa dimenticare che il vero benessere non è avere tanto denaro, ma tanta roba buona da comprare con il denaro. Stiamo vivendo, vendendo e comprando moneta quando in realtà siamo vivi e fatti di materia. Ma vedo che la realtà passa spesso al secondo posto anche nella divulgazione scientifica: io credo che la scienza sia un modo per conoscere la realtà, non per inventarne una virtuale. Voglio ricordare che senza variabilità e diversità il processo vitale non esisterebbe, né a livello di molecole né tra le persone. Un rimedio? Far ripartire l'economia reale, far tornare il lavoro come fonte di conoscenza, i cui prodotti siano un valore».

 

Alessandra Turchetti Giornalista

Famiglia Oggi n. 5 settembre-ottobre 2010

Letto 1842 volte Ultima modifica il Mercoledì, 04 Gennaio 2012 09:39

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