Formazione Religiosa

Venerdì, 08 Gennaio 2010 21:50

Raimon Panikkar, in cerca di Dio vivendo a cavalcioni (Brunetto Salvarani)

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Padre hindu e madre cattolica, Raimon Panikkar è prete e teologo "sui generis", che ha attraversato tutte le grandi tradizioni religiose senza per questo smarrire la sua identità e la fedeltà alla Chiesa di Roma: un mistico che è anche profeta del dialogo tra le fedi.

Raimon Panikkar,
in cerca di Dio vivendo a cavalcioni

 

 

di Brunetto Salvarani

 

Alcune settimane fa si è svolto un seminario con Raimon Panikkar, organizzato da don Arrigo Chieregatti nel quadro della promozione della rivista Interculture.L’iniziativa si è tenuta in una parrocchietta dell’Appennino bolognese, nei pressi di quella Marzabotto ben carica di memorie resistenziali e di utopie dossettiane, che accoglie il visitatore con un cartello su cui – invece di magnificarne le bellezze ambientali o archeologiche – si recita lapidariamente «Ricordati!».

È stata per me un’occasione preziosa per ritrovare un amico ma soprattutto un maestro, uno degli ultimi rimasti sulla scena odierna. Panikkar è ancora lucidissimo e pieno di passioni, a dispetto – o in forza – dei suoi venerandi 88 anni. Papà hindu e mamma cattolica, catalano ma anche indiano, egli è davvero una personalità-ponte, testimonianza vivente dell’eccezionale opportunità che può derivare dall’incrocio fecondo delle due culture, scientifica e umanistica (la sua prima laurea è in Chimica, le altre in Filosofia e Teologia); così come dei due universi mentali, quello occidentale e quello orientale, che egli ha attraversato costantemente, senza mai venir meno alla fedeltà della sua identità di cristiano e prete (è stato ordinato nel 1946).

«Sono partito cristiano, mi sono scoperto induista e sono ritornato buddhista, senza mai smettere di essere cristiano», ama dire senza alcuna civetteria. Ha tenuto corsi e lezioni nelle principali università europee, americane e indiane, e ora vive ritirato fra le montagne della sua Catalogna, a Tavertet, dove prosegue la sua vita attiva e contemplativa, praticando quotidianamente yoga e contemplazione. Paul Knitter, in un volume recente che cerca di fare ordine fra le varie proposte di teologia delle religioni, scrive che «Panikkar ha trovato lo scopo e il diletto della sua lunga vita nello stare a cavalcioni fra mondi molto differenti e nel metterli in contatto fra loro». Non a caso, parla dodici lingue e scrive in almeno sei! È autore di numerosi libri, fra cui Il dialogo intrareligioso, La nuova innocenza, Pace e disarmo culturale, La realtà cosmoteandrica e La porta stretta della conoscenza.

Ancor oggi, quando comincia a riflettere a voce alta, è un fiume in piena. Difficile sintetizzare la lunga conversazione che ci ha proposto. Se provo a farlo, è perché sono consapevole della problematicità dell’impresa ma anche dell’unicità coraggiosa del suo pensiero.

 

Oggi il tema del dialogo interreligioso è molto discusso. Lo si accusa di irenismo, di mancata difesa dell’identità... Quale spazio c’è attualmente per il dialogo nelle religioni, a suo parere?

«Che spazio c’è per il dialogo? Semplice: c’è lo spazio che noi gli facciamo! Se siamo chiusi in noi stessi, non dialoghiamo né possiamo dialogare! Questo spazio comincia con l’ascolto, e l’ascolto si dà solo se c’è vuoto in noi. Non si tratta, beninteso, di un cammino puramente intellettuale, ma di un’attività religiosa, che riguarda le cose ultime, definitive, di un incontro sui problemi di tutti i giorni, che possiede anche una valenza politica. Certo, buttarsi nel dialogo non vuol dire abiurare alle proprie convinzioni, alla verità (che è ciò che si cerca, anche se non necessariamente ciò che si trova). La verità è un processo, non una realtà cristallizzata, putrefatta... Dialogare è come nuotare: posso prendere tutte le lezioni teoriche che voglio, ma poi è indispensabile gettarmi in acqua, altrimenti non c’è nulla da fare!».

 

Quest’anno è trascorso un lustro dall’11 settembre 2001, la data che molti commentatori ritengono uno spartiacque, non solo per la presente generazione. Lei che idea si è fatto al riguardo?

«Beh, l’11 settembre è anche la ricorrenza dell’indipendenza della Catalogna, nonché una data decisiva nell’esperienza di Gandhi a Johannesburg nel 1906 (esattamente un secolo fa), la prima volta in cui egli parla di nonviolenza e in qualche modo l’atto di nascita del Satyagraha... Ci sono poi date che nell’Occidente sono passate del tutto sotto silenzio, come il 7 dicembre, anniversario della completa distruzione – da parte di estremisti hindu – della moschea di Ayodhya, in India. Si trattò di un atto, per molti versi, assai più grave dell’attentato alle Twin Towers! Sarebbe fondamentale non lasciarsi dominare dallo sguardo dei mass media, che è fortemente condizionato... Spesso dimentichiamo che, se è un luogo comune affermare che viviamo nell’era della tecnologia, in realtà la maggioranza degli abitanti del nostro pianeta non ha telefono né accesso a un computer; e che metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno, e metà di tale metà con meno di un dollaro. La globalizzazione della tecnologia, del resto, ha avuto come precursore il cristianesimo, col suo appello universalistico. Cattolico, in effetti, significa appunto universale; ma per essere davvero tale, il cristianesimo è chiamato a fare kenosis, a fare vuoto su se stesso. Ogni uomo ha una fede, nel senso della coscienza del mistero, dell’infinito, dell’ignoto; la fede è coscienza della nostra ignoranza, come ricordava il padre della Chiesa Evagrio Pontico per il quale sono "beati quelli che sono giunti all’ignoranza infinita". Ogni uomo ha fede, crede in qualcosa, non esiste il non-credente... È l’esperienza mistica il fatto religioso fondamentale, costituito di tre componenti: il Divino, l’umano, il mondo, che stanno in una relazione tanto stretta da avere il proprio stesso essere ciascuno nell’altro. L’esperienza mistica, dico con un neologismo che amo parecchio, è una realtà cosmoteandrica, e tutto ciò che esiste è una realtà cosmoteandrica».

 

Parliamo del futuro delle religioni, e in particolare del cristianesimo. Qualche anno fa, il teologo domenicano canadese Jean-Marie Tillard scrisse un libretto intitolato Siamo gli ultimi cristiani?, fornendo una risposta alquanto intrigante... Secondo lui, infatti, noi siamo gli ultimi testimoni di un certo modo di essere cristiani, di un certo modo di essere cattolici...

«Parto con una battuta, "Dio è morto, grazie a Dio!", ma poi passo a tracciare le tre tappe attraverso cui si è sviluppata la vita della religione cristiana. La prima è stata la tappa della cristianità: una visione totalizzante, geniale, che ha plasmato una cultura e una civiltà, dalle cattedrali all’Inquisizione, e che ormai è morta (per tutti tranne che per il presidente Bush). C’è stato poi il cristianesimo: una dottrina che si esprime attraverso un proprio credo. Infine, la cristianìa, un’esperienza che ha penetrato l’attuale civiltà nella sua coscienza profonda. La cristianìa vive ancora i naturali dolori del parto, e avrà nomi che forse non saranno propriamente cristiani...».

 

Tornando alla domanda provocatoria di Tillard: "Siamo gli ultimi cristiani?"

«Quanto al futuro del cristianesimo, capisco la domanda e comprendo l’inquietudine che vi è sottesa, ma ritengo si debba in primo luogo pensare al presente, perché parlare continuamente del futuro è già una forma di colonizzazione dell’immaginario.

Nel mondo, è assai diffusa una concezione del tempo che è molto distante da quella comunemente accettata in Occidente. Gesù, al cosiddetto buon ladrone, dice: "Oggi tu sarai con me in Paradiso!".

Il Paradiso è oggi! Il futuro delle religioni è dunque uno pseudoproblema! La mia proposta riguarda la conversione delle religioni, che hanno sempre pensato a convertire gli altri: ora, sono loro a essere chiamate a convertirsi! Questo è il kairòs del millennio che si è appena aperto, per tutte le religioni: continuare con piccole riforme non ha senso, occorre una grande trasformazione, nonviolenta, lenta ma profonda, una metànoia! Tale conversione dovrebbe rendere le religioni consapevoli sia di quanto male hanno fatto nella storia, sia che ora l’infedele è il vicino di casa, che tutte le cose le vediamo – anche – con la lente d’ingrandimento dell’altro. È una sorta di nec cum te nec sine te...».

 

Può esemplificare?

«Vorrei dire che forse le religioni dovrebbero concentrarsi meno sul nirvana, la mukti, la salvezza, il cielo e così via, e concentrare i propri sforzi sull’obiettivo di guarire le ferite umane, curare le piaghe storiche dell’umanità: in una parola, sulla cultura della pace più che sulla predicazione della salvezza. C’è molta saggezza, ad esempio, in alcune religioni africane che non si preoccupano particolarmente del Dio Supremo, e invece dirigono la loro attenzione verso gli dei minori che creano problemi od offrono rimedi. Senza voler essere paradossale, si potrebbe affermare che le religioni hanno fallito perché questo è il loro karma, o piuttosto la loro natura: infatti, costantemente esse ci ricordano la rinuncia ai frutti, l’azione disinteressata, la morte dell’io, e così via. Le religioni non sono la panacea umana, e come l’uomo stesso sono itineranti, provvisorie, imperfette. Mostrano la luna riflessa nello stagno, non la luna nel cielo, per utilizzare una metafora buddhista: non offrono la soluzione; ci offrono, piuttosto, la speranza sempre rinnovata di proseguire a vivere, a lottare, a scoprire e a non rinunciare all’autentica condizione umana... Debbono, in sintesi, fare continuamente metànoia!».

 

Qual è il ruolo di Gesù di Nazaret in questa prospettiva di metànoia, di conversione, delle religioni?

«In primis: Gesù è stato ridotto a un individuo... Gesù è una persona concreta, un ebreo vissuto in Palestina duemila anni fa.

E poi, Gesù è Cristo, ma Cristo non è esclusivamente Gesù! Cristo era prima di Abramo, come recita il Vangelo di Giovanni, ed è in ogni persona che soffre (Mt 25). Cristo trascende interamente l’individualità di Gesù. Solo così si può cominciare a capire che di Cristo non ne abbiamo una conoscenza esclusiva. Mi piace immaginare, in tale direzione, la possibilità di un ecumenismo ecumenico non limitato agli affari interni dei cristiani! Io parlo più volentieri di una cristofania che di una cristologia: Dio è relazione, una relazione in cui stiamo noi uomini, di cui Cristo è il modello.

C’è una dignità divina in ogni persona, in ogni cosa. Al terzo millennio cristiano è riservato il compito di superare una cristologia "tribale" con una cristofania che permetta ai cristiani di vedere dappertutto l’opera di Cristo senza presumere di avere una comprensione migliore o un monopolio di quel Mistero che è stato rivelato loro in una maniera unica!».

 

Da molto tempo tu sei è una figura rilevante della teologia pluralista delle religioni, una posizione oggi quanto mai discussa. Qual è, dal tuo punto di vista, il suo statuto fondamentale?

«Innanzitutto, occorre dire che il pluralismo non è la pluralità delle verità: la verità è unica! Mi colpisce il silenzio di Gesù di fronte alla domanda di Pilato: "Cos’è la verità?". Qualsiasi risposta, di Gesù o di qualsiasi altro, sarebbe una bugia: la risposta è il silenzio. Qualunque discorso sulla verità non tocca la verità: la verità è un simbolo per affermare che tutti noi siamo in pellegrinaggio verso una meta. Ricordo un commento di Gregorio di Nissa a proposito di Abramo: "E ora sono certo che era la voce di Dio che mi chiamava, perché non so dove vado!". Nell’incontrare gli altri, incontriamo la parte nascosta di noi stessi. Ad esempio, è vero che gli immigrati scombussolano la nostra forma di vita, ma spesso dimentichiamo che essi si muovono spinti dalla fame, sia quella materiale sia quella specifica fame e sete di giustizia! C’è una storiella indiana che spiega il motivo per cui l’Occidente possiede il benessere e l’Oriente la spiritualità: è perché, quando Dio ha diviso le ricchezze del mondo, l’Occidente ha potuto scegliere per primo. E noi, in fondo, siamo infelici perché ci proiettiamo sempre su un domani, mentre, evangelicamente, "a ogni giorno basta il suo affanno"».

 

Qual è dunque la sfida che il cristianesimo deve affrontare?

«Mi piace dire che solo il mistico potrà sopravvivere nella società attuale senza divenire terrorista o cinico, che solo lui può conservare l’integrità del suo essere, perché è in comunione con tutta la realtà. Una volta, incontrando Paolo VI, egli mi chiese cosa stessi facendo in quel periodo. Gli risposi: "Sto continuando a domandarmi se per essere cristiano occorre essere spiritualmente semita e intellettualmente greco. È così, vero? Se è così, ecco perché il cristianesimo è lontano dai due terzi di questo mondo". 
Lo ripeto, dunque: la grande sfida del terzo millennio per il cristianesimo è diventare realmente cattolico!».

 

(da Jesus, dicembre 2006)

Letto 4684 volte Ultima modifica il Lunedì, 16 Aprile 2012 22:25
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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