Formazione Religiosa

Lunedì, 26 Novembre 2012 22:36

Un già e non ancora (Mons. Luigi Bettazzi)

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Se lo Spirito Santo ha suscitato questa Pentecoste, saprà anche renderla sempre più viva nel mondo, non “nonostante noi” come verrebbe da dire qualche volta, bensì "anche attraverso di noi". Ed è l'impegno di tutti.

 

Una delle più grandi grazie che il Signore mi ha fatto è stata quella di partecipare al concilio Vaticano II. Diventato vescovo nell'autunno del 1963, potei così essere "Padre conciliare" per gli ultimi tre periodi dei Concilio. Oltretutto all'inizio del secondo Periodo papa Paolo VI, appena succeduto a Giovanni XXIII, aveva nominato quattro cardinali moderatori, che guidassero le assemblee generali, e fra questi c'era il cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, di cui ero vescovo ausiliare.

E il cardinale Lercaro, che voleva impegnarsi a fondo per la liturgia, argomento in cui era molto esperto e pastoralmente impegnato, aveva chiamato a Roma don Giuseppe Dossetti perché lo aiutasse nel seguire lo sviluppo delle varie tematiche, soprattutto di quella della "Chiesa dei poveri", portandolo praticamente a diventare segretario informale dei moderatori. Questo mi ha portato a seguire lo svolgersi del Concilio cogliendo aspetti che potevano sfuggire alle descrizioni ufficiali. Per questo, ad esempio, mi trovai anche a fare, per dieci minuti, il protagonista del Concilio.

Proprio all'inizio del secondo Periodo si stava infatti discutendo animatamente sul tema della collegialità, cioè di una maggiore partecipazione dei vescovi alla responsabilità papale nella guida della Chiesa. Di fronte a chi era timoroso che si volesse pregiudicare il primato pontificio stabilito dal concilio Vaticano I, la maggioranza si richiamava alla natura stessa della Chiesa, iniziata, sì, con la responsabilità suprema di Pietro, ma coadiuvato dal collegio degli apostoli. Il cardinale Frings, arcivescovo di Colonia, aveva già fatto un importante intervento (preparato dal suo teologo Joseph Ratzinger), e don Dossetti (col professor Alberigo) aveva preparato un altro intervento, che documentava come la collegialità fosse nello spirito della tradizione romana.

Il cardinale Lercaro non si sentì di fare l'intervento, per motivi contingenti, e così lo lessi io, al termine di un'assemblea, concludendo che la stessa liturgia indicava san Mattia come aggregato al "Collegio" degli apostoli e procurandomi così un applauso. Certo, avevo vissuto il primo periodo dal di fuori, seguendo le scarne notizie dell'Osservatore Romano; e quanto ci arrivava del faticoso avvio di un'assemblea, che praticamente cercava di incominciare a modificare profondamente la settantina di schemi già preparati, non era tale da entusiasmare.

Alla scuola del Concilio

Accanto alla verifica di un episcopato veramente mondiale (per la prima volta i vescovi africani erano africani, indigeni, così come lo erano gli asiatici e i latinoamericani), si coglieva che quanto era stato preparato sembrava un riassunto un po' scolastico delle maturazioni passate, mentre bisognava guardare al futuro, presentare la verità di sempre in modo adatto alla gente di oggi, proprio secondo il progetto di papa Giovanni, che parlava di un Concilio non "dogmatico" (che definisce i "dogmi" scomunicando quanti non li accettano immediatamente), ma "pastorale", che parta - come diceva lui - dai "segni dei tempi", dal punto di sviluppo cui è giunta l'umanità, per orientarla verso il regno di Dio, verso il mondo come Dio lo vuole.

Devo anche confessare che non sono stato un alunno fedelissimo della grande scuola del Concilio. Il mio arcivescovo voleva che - essendo appena nominato Vicario generale della diocesi - la seguissi da vicino, e perciò ogni settimana rubavo una giornata al Concilio per donarla alla Curia bolognese: nel primo anno era il venerdì, giorno in cui i sacerdoti bolognesi erano soliti venire in città; negli anni successivi fu il lunedì, quando mi resi conto che il venerdì era il giorno in cui si cercava di concludere con le votazioni più importanti. Inoltre venni praticamente escluso dalle commissioni in quanto ausiliare del cardinale Lercaro, che gli altri vescovi italiani consideravano troppo affine ai prelati del Centro Europa.

Non avendo quindi impegni istituzionali, approfittavo dei pomeriggi di permanenza a Roma per partecipare a iniziative di gruppi informali, come gli incontri del canonico francese Boulard o del belga Houtart per aiutare i vescovi latinoamericani a cogliere le problematiche aperte dal Concilio, o il cosiddetto "gruppo del collegio belga" (il collegio in cui si era incontrato nel primo anno) su "la Chiesa dei poveri", o il gruppetto di vescovi simpatizzanti per la spiritualità di fratel Carlo de Foucauld, chiamato argutamente "la Fraternità dei piccoli monsignori". È così che ho visto crescere il Concilio - e crescere io nel Concilio -nella rapida approvazione della costituzione Sacrosanctum Concilium sulla liturgia, nella faticosa elaborazione delle costituzioni sulla parola di Dio (Dei Verbum) e sulla Chiesa (Lumen gentium), e nell'inattesa esplosione di temi nuovi poi raccolti nella costituzione pastorale su "La Chiesa nel mondo contemporaneo" (Gaudium et spes).

Fu proprio al mio arrivo

Nell'autunno del 1963, arrivando a Roma, trovai i vescovi scossi dal successo della Pacem in terris, promulgata da papa Giovanni poco prima della sua morte, ma quasi sconcertati che il Papa l'avesse pubblicata a Concilio aperto senza farne parola ai vescovi. E forse fu proprio quell'enciclica e il successo da essa provocato nel mondo a indurre i vescovi a raccogliere materiali sparsi in un documento che mettesse la Chiesa in dialogo e in collaborazione con "gli uomini di buona volontà", ai quali, oltre che ai cattolici, si rivolgeva la Pacem in terris. Un'altra novità che sperimentai fu di trovare gli altri cristiani (i "fratelli separati", prima quasi condannati alla perdizione) presenti come "osservatori", attenti e sorpresi di vedere il dialogo aperto e libero tra i vescovi (dunque non si era costretti dal Papa "ad obbedir tacendo"!), e, attraverso i loro raduni settimanali, messi in grado di osservare e di suggerire.

Credo che noi vescovi siamo stati i primi "convcrtiti" dal Concilio, nel senso che abbiamo chiarito e maturato posizioni che in antecedenza non avevamo, camminando sempre in sintonia col Papa, che faceva sentire la sua opinione, che suggeriva, talora frenava, e che alla fine ha firmato per primo tutti i documenti. E così ne abbiamo concluso che la Chiesa è popolo di Dio, che cammina guidato dalla gerarchia, ma che ascolta e accoglie quanto lo Spirito Santo sollecita dove e come vuole: il carisma della gerarchia - a tutti i livelli - è di dire l'ultima parola, che però è l'ultima se prima ce ne sono state delle altre. Credo dunque che il Concilio abbia portato la Chiesa dove la stessa maggioranza dei vescovi non pensava; forse dove non pensava lo stesso papa Giovanni, che credeva all'importanza di un Concilio (e per questo l'aveva indetto) ma che sembrava già soddisfatto della settantina di documenti preparati in antecedenza, che poi i vescovi sostituirono con i nuovi!

Se volessimo fare un bilancio del Concilio, dovremmo dire che le quattro costituzioni già costituiscono il segno della «Pentecoste del nostro tempo», come si espresse papa Giovanni: la parola di Dio è tornata in mano ai fedeli, la liturgia è diventata la preghiera della comunità, la Chiesa non si sente luogo esclusivo della salvezza in quanto «sacramento» (cioè «segno e strumento») di Cristo che salva anche al di là dei suoi confini visibili, e che deve esserlo soprattutto nella realtà e nella testimonianza della "comunione" a tutti i livelli. E i cristiani dovranno dialogare e collaborare con tutta l'umanità nel cammino verso il Regno, cioè verso il mondo come Dio lo vuole.

Accanto alle costituzioni e da esse nascono sia l'ecumenismo fra tutti i cristiani sia il dialogo interreligioso, a cominciare da quello con gli ebrei; e ne sono venute puntualizzazioni importanti, quali la libertà religiosa, prima guardata quasi come una rinuncia alla fede: i vescovi nordamericani fecero aperte pressioni, perché si giungesse alla dichiarazione sulla libertà da garantire alla religione (a tutte le religioni), come garanzia di una vera fede personale, avendo promesso che non sarebbero tornati in patria senza quella dichiarazione). Nel loro grande Paese infatti essi godono di un grande rispetto, mentre sanno rispettare tutte le altre religioni, senza chiedere particolari privilegi.

Un bilancio onesto sul Concilio

Volendo fare un bilancio, si dovrebbe forse concludere a un "già e non ancora". Nel senso che se guardiamo al passato dobbiamo dire che molto è stato fatto; ma se pensiamo a quello che avrebbe potuto essere dobbiamo riconoscere che ancora molto resta da fare; e questo può derivare non solo dal freno di chi non vuole modificare le proprie posizioni, di sicurezza più che di potere (e questo appariva già nella preoccupazione della minoranza - tra cui emergeva monsignor Lefebvre, ma non solo lui - che... abbandonando la "tradizione" si finisse col "tradire" la rivelazione), ma anche dal fatto che una Chiesa così estesa e così varia ha bisogno di tempo per accogliere e fare propri rinnovamenti tanto profondi, non tanto sul piano dogmatico quanto di atteggiamenti personali e comunitari, inserendosi vitalmente nelle molte mentalità e nelle varie culture.

Credo ci si debba rendere conto che se la tradizione ci garantisce il contatto con la rivelazione, il latino tradere (da cui "tradizione") non vuol dire bloccare sul passato, quanto "trasmettere" la verità di sempre in forme adatte e comprensibili da chi le deve ricevere e vivere. Bisogna far sì che la parola di Dio diventi veramente lo spirito che anima evidentemente la Chiesa, e che la liturgia - come dichiara il Concilio - diventi sempre più il momento più alto e la sorgente della vita della Chiesa e del cristiano. Soprattutto ci dev'essere uno slancio ancor più grande per quelle che qualcuno ha voluto indicare come "rivoluzioni copernicane" e che corrispondono alle evidenti proposte del Concilio: non il mondo per la Chiesa, ma la Chiesa per il mondo, al servizio di tutta l'umanità; e, nella Chiesa, non una pratica identificazione della Chiesa con la gerarchia, di cui il laicato sarebbe passivo beneficiario, ma la centralità e la corresponsabilità dell'intero popolo di Dio, al cui servizio (ministero!) è, nei vari livelli, la gerarchia.

Luigi Bettazzi vescovo emerito di Ivrea

(da Vita Pastorale, n. 8, 2009, pp. 34-36)

 


 

Letto 5230 volte Ultima modifica il Mercoledì, 10 Aprile 2013 09:11
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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