Formazione Religiosa

Mercoledì, 14 Gennaio 2015 16:05

Il sacerdozio comune (Severino Dianich)

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Nella Chiesa è ancora troppo diffusa l'idea che il sacerdozio sia questione di riti e la missione della Chiesa sia propria dei preti. Gli altri fedeli ne sono protagonisti solo quando danno la collaborazione alla vita interna della comunità. Sembra proprio che il sacerdozio comune non esista.

È una strana sorte quella del termine sacerdozio e delle sue declinazioni in sacerdote, e sacerdotale. Ancora può capitare che, se passi per la strada e un bambino grida: «Un prete!», la nonna si affretti a correggerlo: «Si dice “sacerdote”!». Puoi trasalire nell’osservare che addirittura i documenti del Vaticano II, come se i vescovi sacerdoti non fossero, usano la coppia “vescovi e sacerdoti”. Allo stesso modo si parla di “sacerdoti e laici”, come se il sacerdozio comune non esistesse.

Le parole

È anche poco logico che si parli del sacerdozio comune, per poi parlare di un munus “sacerdotale” come di una sua suddivisione particolare. D’altra parte non si può far altro che usare la lingua che si ha e le sue inflessioni, con gli umori che le accompagnano, sono infinite e, in parte indecifrabili.
La difficoltà lessicale deriva dal fatto che nell’immaginario collettivo dire “sacerdote” va insieme con l’immaginare la figura di un uomo all’altare, rivestito di paramenti sacri, mentre celebra la liturgia. Il quadro teologico di un popolo di tutti sacerdoti, ottimamente attestato dal Nuovo Testamento, non è mai passato nell’immaginario collettivo della nostra cultura, almeno di quella di ambiente cattolica.
Detto questo, se ora di “sacerdozio comune” dobbiamo parlare, sia chiaro che non vogliamo esclusivamente del sacerdozio dei laici, né solo di un sacerdozio che si esercita nella celebrazione della liturgia. Nella fede cristiana è una qualità, derivata dal battesimo, che caratterizza tutti gli aspetti della vita di ciascuno e di tutti i fedeli. solo il peccato la oscura o la distrugge.

Da Israele alla comunità cristiana

Soprattutto dopo la riforma di Giosia, con l’unificazione del culto nel tempio di Gerusalemme, nell’ebraismo i sacerdoti costituivano una casta chiusa e la ritualità sacerdotale restava rigorosamente esclusiva. Per il suo ruolo particolare il sacerdote era segregato dalla condizione comune e posto in una condizione particolare di sacralità, connotata da rigorose regole, poste a difesa della sua purità rituale. Israele però non poteva dimenticare le parole di Es 19,6-8: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa», né la risposta data allora dal popolo a Dio: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!».
Così tutto Israele si era assunta una missione “sacerdotale”, quella cioè di mediare, con la testimonianza della sua vita vistosamente segnata dall’osservanza della Torah, fra l’unico Dio creatore del cielo e della terra e tutti gli altri popoli. Non sarà, come la missione consegnata da Gesù ai Dodici («Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura»: Mc 16,15), un impegno missionario di diffusione nel mondo della propria fede, ma la costante offerta di una testimonianza a Dio, da rendere al mondo, come al solo dio dal quale vengono tutti i popoli. La casta sacerdotale, invece, avrà come suo esclusivo il servizio sacerdotale dei riti del tempio.
Gesù non apparteneva alla tribù sacerdotale né mai si sarebbe arrogato il diritto di celebrare i riti del santuario: per l’assetto socio-religioso di Israele era uno qualsiasi. Eppure la Lettera agli Ebrei lo proclamerà sacerdotale. Certamente, immaginandolo vivente alla destra del Padre, glorioso celebrante della liturgia celeste. Ma si indica anche, con chiarezza, la qualità sacerdotale della sua vita e della sua morte: «Benché fosse Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì; e, reso perfetto, divenne per tutti quelli che gli ubbidiscono autore di salvezza eterna, essendo da Dio proclamato sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (Eb 5,8-10). Anzi, per questo sacerdozio della sua vita vissuta, «egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo». È il sacrificio della sua totale dedizione al Padre, fino all’estrema immolazione di sé, per il bene degli uomini: «È appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre» (Eb 10,8-10).
Il vangelo di Giovanni estende l’idea del sacerdozio di Cristo che sostituiscequello del sacerdozio levitico a tutta l’antica ritualità del tempio, raccontando della sfida lanciatale da Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». La sua vita di uomo, vissuta nel perfetto compimento della volontà di Dio, glorificato nella risurrezione, dopo la sua uccisione, sarà tempio, altare, sacrificio e sacerdozio: «Egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,19-22).
Con questo, tutta la prospettiva del sacerdozio e del culto veniva sconvolta. Non si tratta solamente della contestazione, di cui i profeti erano stati grandi protagonisti, di pratiche rituali contraddette dai comportamenti della vita. Qui, ormai, alla vita vissuta da Gesù spetta il primato assoluto: in essa sta il culto fondamentale e la consistenza di base di ogni sacerdozio.
Paolo ne tira le conseguenze anche per il carattere sacerdotale della vita di coloro che sono “in Cristo”: il vero culto, l’unica logikè latreia, cioè la ragionevole offerta sacrificale da presentare a Dio, come Gesù, è quella della propria vita, nell’interezza delle azioni con cui l’uomo la intesse, attraverso l’opera del suo corpo, della mani, dei piedi, della parola, dello sguardo, della fatica della mente e del braccio, di ogni opera e lavoro (Rm 12,1-2). Analogamente per la 1Pt 2,4-10, il tempio “spirituale”, nel quale veramente abita lo Spirito Santo, è quello edificato con pietre viventi, la comunità cristiana, nel quale viene offerto il sacrificio gradito a Dio, cioè la professione di fede, la lode di Dio, la vita vissuta alla sequela di Gesù.

Il sacerdozio del vivere quotidiano

Sulla base fondamentale del sacerdozio comune e al suo interno si manifesteranno, poi, i doni diversi dello Spirito, vocazioni differenti e, quindi, modi diversi di esercitarlo. La differenza più significativa sarà quella determinata dal sacramento dell’ordine, che deputa coloro che lo ricevono alla predicazione, alla celebrazione dei sacramenti, con un ruolo che, secondo il concilio Vaticano II, differisce «essenzialmente e non solo di grado» dal ruolo sacerdotale degli altri fedeli (LG 10).
Con tutto ciò i pastori della Chiesa restano parte, come credenti e battezzati, del sacerdozio comune: anche per loro il primo sacerdozio è quello dell’offerta del proprio corpo, cioè di tutto il loro agire, del resto consacrato al servizio della comunità cristiana. Anche per loro vale l’esortazione paolina: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10,31).
Ma anche gli altri fedeli, all’interno del popolo di Dio, si differenziano fra di loro per le forme diverse dell’attuazione del loro sacerdozio. Monaci, religiose e religiosi lo qualificheranno con i loro voti e con gli impegni di lavoro determinati dai loro rispettivi carismi. Per moltissimi laici, come anche per molti diaconi e per molti preti di rito orientale, il sacramento del matrimonio, con la sua grazia specifica, determina ulteriormente il loro sacerdozio, da vivere nell’esercizio delle responsabilità della vita di famiglia, con la dedizione, le gioie e i sacrifici che essa impone.
Tutti i laici, poi, trovano lo spazio sacro del loro sacerdozio nei loro luoghi di lavoro e negli impegni della vita sociale e politica. Se tutto ciò che si fa è vissuto nella fede, inteso come servizio al bene comune, compiuto con attenzione e competenza, per l’operaio la catena di montaggio, per lo scienziato il suo laboratorio, per l’insegnante la cattedra, per il medico la corsia d’ospedale, per il politico il seggio al parlamento, questi sono il tempio e gli altari del sacerdozio del popolo di Dio. Solo il lavoro mal fatto e l’opera compiuta senza fede, destinati alla soddisfazione del proprio egoismo, sono realtà profane.
Bisogna constatare che ancora oggi nella Chiesa troppo è diffusa l’idea che il sacerdozio sia questione di riti e la missione della Chiesa sia propria dei preti, per cui gli altri fedeli ne sarebbero protagonisti solo quando danno la loro collaborazione alla vita interna della comunità. La missione, se di missione si tratta, non è il servizio reso alla comunità, ma quello reso al mondo. La si vive, oltre ai vecchi confini del puro e dell’impuro, del sacro e del profano, là dove si rende testimonianza a Cristo, con le parole e con i fatti, dentro il tessuto della vita sociale.
Il laico non vive il suo sacerdozio solo se fa il ministrante nella liturgia o il catechista in parrocchia, come se con ciò egli realizzasse la sua vocazione cristiana e non, invece, soprattutto con l’impegno della sua fede, professata con le parole e accompagnata dalla testimonianza dei fatti, nella dedizione al bene comune, all’interno della grande rete dei contatti umani, di cui è intessuta la vita di tutti.

Severino Dianich

(da Vita Pastorale, n. 9, 2010, pp. 79-80)

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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