Vita nello Spirito

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Spazio sacro. Tempo mistico. L'arte e l'architettura come ponti fra origine e destino per dire l'«oltre».

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L’aspetto degno dell’arte dell’agiografo sta nel fatto d’ottenere (se l’ottiene) di narrare tramite la sua iconografia la verità evangelica nel mondo, non semplicemente di raffigurare il mondo senza l’influenza in esso della Grazia Divina.

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Il Dio biblico sta nella domanda di redenzione, molto più che nelle eterne strutture dell'essere. Il contemplante riconoscimento della presenza dell'Armonia nel mondo è il sacro, la fede è la dolorosa consapevolezza dell'assenza dell'Armonia dal mondo.

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Venerdì, 30 Dicembre 2005 20:46

Cerchi Picasso, trovi il sacro (Olivier Clément)

Anche il tema del volto nel pittore spagnolo ha risvolti interessanti. L'artista compie uno sforzo di scomposizione e di ricomposizione dei volti assolutamente stupefacente.

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La musica e la morte
Commento a Blok (Seconda parte)
di Vladimir Zelinskij



V

Cosa sappiamo noi, oggi, della teologia della lingua? Pur professando la fede nel Verbo di Dio, accogliamo il discorso nostro quotidiano con indifferenza, come uno scambio di segni convenzionali. Abbiamo soggiogato la lingua alla vanità e alla schiavitù, ne abbiamo fatto espressione del nostro umano, terreno patire e affannarci. “Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l'uomo” (Mt. 15, 18). Il mondo è profanato innanzitutto dal discorso umano, quando è usato per l'inganno, l'appropriazione, l'asservimento e la discordia. Il pathos dell'omicidio s'incarna nel discorso menzognero e promette una libertà inaudita e una straordinaria fioritura della personalità. Ciò che esce dalla nostra bocca ci impone l'ubbidienza al mondo, ci attira verso il “basso”, verso un ottenebramento e una chiusura dell'essere che non sono percepiti dal nostro sguardo comune. La lingua, nella quale usiamo esprimerci, è ferita dal peccato originale nella stessa misura della ragione con la quale pensiamo, della società in cui viviamo. Non abbiamo ragione di ricercare definizioni, sociali o altro, del volgo, giacché noi stessi esistiamo in un mondo involgarito dal peccato, giacché scriviamo e parliamo volgarmente, con parole torbide, snervate, e giacché il nostro discorso volgare è usualmente per noi l'unico, naturale.

Nel suo discorso su Puskin, Blok chiama volgo anche “chi non desidera capire, pur dovendo molto capire, giacché anch'egli serve la cultura (...)”. La serve, ma non necessariamente nelle vesti di censore bensì, spesso, anche in quelle di poeta. Poiché nel mondo, dove il poeta cerca a volte salvezza nella pazzia, gli uomini ragionevoli producono intanto una poesia volgare, facile intruglio di emozioni ritmiche, ritmologia pseudopopolare da ceto impiegatizio, bizzarro discorso-gassosa filtrato attraverso milioni di occhi e di anime, sorta di spumante sciropposo apprestato dal decotto scipito della nostra vita confusa, e che dalla poesia nel significato blokiano dista ben più dello sport e dell'industria cinematografica.

Tuttavia è vano supporre che la poesia nobile sia alcunché di sublime che sovrasta da lontano la vita, che sia solo rarità, se non lusso vero e proprio per il nostro dispendio spirituale, che sia un valore culturale prezioso cui siamo pronti ad accordare l'attenzione che le autorità civiche tributano ai bronzei classici ufficiali recando loro fiori regolamentari a nome di una simbolica massa di lettori...

Cos'è dunque il “volgo”? Noi tutti, che parliamo volgarmente. E la poesia? Purificazione della parola in nome della verità che essa nasconde e che per essa è stata creata. Ma non diventiamo forse tutti poeti, quando ci addentriamo nella poesia e ci apparentiamo con la verità che la poesia porta alla luce?

(1). I “suoni ricondotti all'armonia” sono la poesia. Questa poi ci porta il singolare annuncio, che “il mondo è incantato e l'uomo libero” (2) che “il mondo è segretamente meraviglioso” (3). Il mondo si espande in armonia, e noi conosceremo in esso quella verità, che ci incorpora totalmente, per amor della quale ci siamo spinti in noi stessi, superando vecchiume e sc<> ne. In un libro ho avuto la ventura di trovare una riflessione sul paradiso che l'autore, senza tanto pensarci, attribuisce anche alla poesia. Vorrei riportarla qui:

“Ciò che, per quanto poco, si è impadronito seriamente della nostra anima non è che un barlume, una promessa inesaudita, un'eco inafferrabile. Ma se questa eco coagulasse in suono, voi la riconoscereste immediatamente e direste con ferma convinzione: "Sì, proprio per questo sono stato creato". A nessuno possiamo parlarne. E l'arcano suggello di ogni anima, del quale non si può raccontare, anche se vi abbiamo aspirato ancora prima di trovarci la moglie, l'amico, un'occupazione, e vi aspireremo nell'ora della morte, quando ormai per noi non ci saranno più né occupazione né amico né moglie. Finché ci siamo, c'è anche questo. Se lo perderemo, avremo perso tutto” (4).

La poesia è vendica, perché mette a nudo la verità riposta e la bellezza segreta. Poesia e verità sono congiunte dalla musica e sono ontologicamente un'unica cosa. Pavel Florenskij era nel giusto quando sottolineava che la creazione del poeta partecipa di una certa realtà spirituale; non è pienamente nel giusto, forse, quando divide tutta la realtà esclusivamente in realtà sofianica e realtà demoniaca. Uno spiritualismo tanto categorico e senza compromessi può talvolta essere troppo rigido per questo mondo, dato che ritiene autentico solo ciò che si trova al di là della percezione nostra corporale. E se il visibile non è che “riflesso di ciò che è invisibile all'occhio” (5), se ogni “qui e ora” è fortuito, sospetto, transeunte, il poeta non è allora, nel migliore dei casi, che un visionario privo di precise coordinate mistiche, che a mala pena sfiora con il suo “sesto senso” ciò che richiede invece un occhio fermo, esercitato. Ma il rendere alle cose il loro autentico nome - renderne la verità - non merita forse una benedizione?

Scopo della poesia non è solo d'esprimere l'invisibile nel quotidiano, bensì di rivestire il visibile della luce dell'invisibile, di rendere la risonanza a ciò che abbiamo disimparato a percepire col nostro morto orecchio. Far sì che le cose permangano nella forma che avevano uscendo dalle mani del Creatore. La definizione di fede che Paolo dà nell'Epistola agli ebrei paradossalmente può essere applicata anche alla poesia. “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.” (Eb. 11, 1). La sostanza della definizione è che l'“invisibile” è da noi atteso e presagito, che l'anima nostra anela all'invisibile, che è ammaliata dalla nostalgia per esso e lo scorge con sicurezza nella speranza. Le “cose”, il mondo nel suo insieme, il creato e l'esistente, autentico e originario, si fanno d'un tratto visibili. Non si tratta di un platonico mondo delle “idee” che la nostra anima deve concepire o “ricordare”, si tratta invece del mondo che la circonda, invisibile e visibile, per questa espressamente creato e che questa attende, ma celato in una percezione consueta, non epurata.

In poesia la parola sembra a volte strapparsi inopinatamente qualcosa, diventare d'un tratto spoglia, e ogni tanto giungiamo a cogliervi un certo “strano movimento illustrativo, sempre lo stesso guizzante ardere di vesti (...)” (6). Così, sembra che un raggio di luce strappi alle tenebre qualcosa che sta in agguato, e ci chiama, e nel cielo stellato, o nel “granello di polvere di terre lontane” (7) appariranno d'un tratto l'armonia e la creaturalità, e forse un pizzico di benedizione si verserà dall'umana parola...

Noi uomini esistiamo perché possediamo la parola. Ma solo la poesia può ricondurci alla sua autenticità, può purificarla dalla mancanza di forma, dalla torbidezza. Essa ci riconduce a quella verità che portiamo nella memoria e nel cuore, la verità della lingua. Quando la poesia scompare (e questo avviene, secondo un'osservazione di Mandel'stam, solo nei periodi di idiozia sociale), con quanta rapidità sbiadisce la lingua e ingrigiscono le cose che essa nomina. Ricordiamoci che Puskin e Blok, Tolstoj e Gogol' restarono per tanta gente l'ultimo focolare, mai estinto: della favella russa, che non lasciarono raggelare quand'essa già pareva non echeggiare più un discorso umano.

La lingua non è solamente “la patria viva e trepida dentro di noi” (come mi è capitato di leggere non so dove), ma, ancora è la realtà particolare della nostra esistenza, la sua recondita musicalità. Il dono della poesia non fa semplicemente affiorare questa musicalità della lingua, ma ci unisce alla fonte stessa della musica, al Verbo. Poiché il Verbo, per la cui forza si regge il mondo, è fonte della luce. Esso è la scaturigine attraverso la quale tutto il creato giunge all'essere e all'armonia. “Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, (...) di tutto ciò che esiste” (Gv. 1, 3).

Il poeta ci incorpora, nella parola, a ciò che è stato elargito dall'essere. Mentre s'affatica sull'armonia, egli opera per la purificazione del mondo creato. Egli cerca di ricondurre al Padre il creato, spoglio e sonoro, “segretamente meraviglioso”. Questo segreto egli è chiamato a manifestare in tutta la sua musicalità, in tutta la sua autentica verità. Proprio in questo denudarsi dell'essere, in questa fioritura dell'essere, invisibili ancora sotto la fuliggine del peccato, si svela un aspetto della vocazione cristiana dell'uomo. Questa vocazione, però, non si scinde in singoli aspetti, ma è integrale. La santità, nelle sue vette, si cobra di poesia e la poesia, compiuta in sé l'opera di purificazione interiore, trova nella Chiesa la via che conduce all'azione sacra. Ma ciò che la Chiesa vede con sguardo chiaro e veggente, la poesia arriva a presagirlo solo come il sogno

“(...) vivo e fugace,
che la felicità giungerà inattesa
e sarà finalmente perfetta”.

Ma il poeta è affascinato dai propri sogni, si lascia coinvolgere nei loro riflessi e reciproci giochi. In un mondo di disarmonia e pesantezza egli si sottomette all'ineluttabile forza d'attrazione del dono elargitogli. Ma quanto più grande è il dono, tanto più stretto è il legame con il mistero che ne sgorga e vi si rivela. Quanto più grande è il dono, tanto più si spalanca e si volge all'esterno, verso le cose, verso i fratelli. Donde si origina poi la resistenza che afferra l'artista, la tensione tra l'umana grevità del dono e la sua divina levità, la scissione tra “l'opera del Signore” (8) e l'accaparramento umano. Il poeta si preoccupa di preservare dalla plebe il proprio mistero, vuole fuggire con questo verso il mare e nel bosco, dove si “sciolgono i veli” e dove diventa alfine intelligibile il linguaggio delle forze naturali; ma una volta solo di fronte a queste forze il poeta si rivela inerme davanti a esse. Forze micidiali e selvagge si scagliano contro il suo luminoso mistero, tentando d'impadronirsene. A ogni passo ci ricopre l'ombra “del ricordo mortale”, della “creatura gemente”, della croce che è nel destino di tutto ciò che vive. In ogni cosa e in ogni luogo ombra e luce si cimentano nella loro interminabile contesa. Destino del cristiano è questa lite tra due visioni, due intuizioni, due verità. E questo contrasto si scolpisce con particolare forza nella parola e nel mistero che essa esterna. La musica della benedizione che si estende a tutto il creato e a tutto ciò che esiste si scontra qui con le “selvagge passioni” e lo “splendore del non essere”, (10) con l'attrazione notturna della morte e l'obbedienza al suo angelo. In una poesia così strettamente legata alla profondità dell'esperienza cristiana, ancorché non rasserenata, com'è la poesia blokiana, questo contrasto trova una nuova soluzione e un nuovo collocamento nell'armonia.

Comprendere e dar senso a questo contrasto si può solamente ponendosi - in comunione e sacrilegamente - nel cuore stesso del dissidio, cioè nella disputa su Cristo. Cristo come sorgente d'armonia è a un tempo musica e tormento della poesia blokiana.

“Folle, inebriante galoppo imbrigliato!” scrisse nel 1904 a E. P. Ivanov. “Ma le briglie erano lente, come si vedrà ancora. Dunque vien voglia di andare a briglia sciolta e darsi al bere. Dite che in un momento qualsiasi potrebbe sorgermi innanzi il Galileo, benissimo! Solo, per amor di Dio, non ora!

“Solo nella quiete vedremo l'Alba. Noi invece siamo in rivolta, siamo imbrattati di sangue. Io sono sporco di sangue. Soprattutto la scissione. Giacché io "a volte" mi tormento anche per Cristo. Ma lasciamo tutto questo a domani.”

E all'indomani, attraverso anni di “scissioni”, ecco I dodici:

VI

“(...) perché Cristo? Ma più scrutavo, più chiaramente scorgevo Cristo. E allora annotai: purtroppo è Cristo”, dice Cukovskij.

“L’emozione dionisiaca ha tratto a riva dal suo abisso un sacro nome inatteso, forse, allo stesso poeta” (12).

“Qualunque sia stata la logica del progetto blokiano, qualunque siano state le analogie storiche di cui il poeta abbia caricato il "suo Cristo", non si può non riconoscere che l'immagine del salvatore e redentore, per secoli strumento d'ipocrisia e inganno nelle mani del pretame, introduce una certa dissonanza nella musica fiammeggiante del poema. Il lettore di I dodici ha ben diritto di condividere l'iniziale sincero dubbio dell'autore stesso: "Perché Cristo?"” (13).

“Anche adesso egli ha veduto qualcuno, però, naturalmente, non Colui che egli nomina, ma una scimmiottatura, un impostore che si sforza d'assomigliare in tutto all'originale e si distingue per un unica lettera del nome (14), così come alla bella di Gogol' non è rimasta internamente che un'unica macchia oscura. E notate che l'apparizione del "Cristo di neve" non allieta ma spaventa.”(15). “Questo Gesù Cristo appare come scioglimento di un'orribile paura (...)” (16) .

“Non piace nemmeno a me il finale di I dodici. Avrei voluto che questo finale fosse diverso. Quando arrivai in fondo io stesso mi meravigliai: perché Cristo? (...)”, dice C'ukovskij.

Chi potrà rispondere alla perplessità che prende lo stesso autore? A chi, in fin dei conti, spetta l'ultima parola? Agli studiosi di letteratura? ai teologi? alla rivoluzione russa, cioè a quella stessa forza della natura cui Blok si consegnò ciecamente (sono parole sue) nel gennaio del 1918? Tutta la poesia blokiana è solcata dal tema di Cristo: l'ultima strofa di I dodici non fa che raccogliere in unità una moltitudine di motivi sparsi. Il Cristo di I dodici rappresenta lo scioglimento, la nuova riproposizione del sordo contrasto musicale latente che, se volessimo svolgerlo e identificano in persone, vede l'ateo combattere contro l'asceta, ma il ribelle non ha la forza di sconfiggere in sé il mistico. Musica e morte si contendono l'un l'altra la verità su Cristo. Ed era Blok per primo a tormentarsi moltissimo per questa inarticolata equivocità.

Certamente, mai Blok avrebbe potuto riferire a sé quanto aveva detto un giorno Dostoevskij, e cioè che avrebbe preferito rimanere con Cristo al di fuori della verità, piuttosto che con la verità al di fuori di Cristo. Cristo non era per Blok che un frammento di quella “leggenda canora”, di quella “lirica grandezza” che era per lui la Russia. Cristo non era che un frammento di quella verità che prendeva in lui il nome così vago di “musica”. Il poeta, nonostante sia anche “di parole sacrileghe creatore”, percepisce questi nomi come qualcosa di inscindibile. Leggendo attentamente alcune sue poesie, tentiamo di cogliere cosa esattamente stia al cuore della sua creazione:

la musica, la Russia, Cristo, oppure tutti questi temi che in lui si fondono in un tutto unico:

“Fitte erte boscose,
Là un tempo, nell'alto
Si tagliarono gli avi ceppi ardenti
E cantarono il loro Cristo.

Ora la pastorale sferza più non colpisce
E più non suona canti la siringa,
Solo l'umido muschio pende dalle balze
Come il logoro capecchio delle streghe.

Per l'eternità, come in un torpore profondo,
Si son abbassate le ciglia del muschio
E dormono, cullate dal torpore
Della quiete, nemica delle genti.

E dall'uomo il mesto airone
Non è più atterrito sulle paludose balze.
Ma in ogni quieta e rugginosa goccia
Prendono forma fiumi, laghi e paludi.

E le rugginose e silvestri gocce,
Nascendo in arcane scurità,
Portano alla Russia impaurita
La nuova del Cristo fiammeggiante”.

La poesia, come spesso succede in Blok, inizialmente pare avviluppata e chiusa nel tessuto sonoro: per riuscire a entrarvi occorre rimuovere la sua cortina musicale. La struttura del verso immediatamente cattura certi ritmi e certe espressioni dentro di noi, cosicché finiamo inavvertitamente per trovarci avvinti dai suoi vincoli canori. Restiamo come impigliati in quell'imponderabile materia semitrasparente di cui la poesia si fa un sipario. Sul sipario è raffigurato un bosco alla Vasnecov (17) appena stilizzato, oltre il quale si spiega l'azione visibile della poesia, il suo “soggetto”. Questo si schiude come la reminiscenza musicale dei raskol'niki (18) russi. Con la Rus' dei vecchi credenti Blok entrava in contatto, probabilmente, soprattutto attraverso l'arte. Tre anni prima di scrivere questa poesia, aveva veduto la Chovans?ina, l'opera di Musorgskij, che nel finale vede i vecchi credenti bruciarsi in massa perché braccati fin nel cuore della foresta dalle truppe zariste. Questo “Cristo fiammeggiante” egli poté sentirlo anche nella stessa musica dell'opera. Scrisse allora alla madre:

“La Chovans'cina non è ancora geniale (ossia non è ancora soffio dello Spirito Santo), come non è ancora geniale la Russia tutta, nella quale appena si prepara il futuro. Pure essa sta al centro stesso, nel punto preciso in cui balena il soffio dello spirito (...)”.

Il “soffio dello spirito” è percepito dal poeta attraverso “onde sonore”. E Blok si sforza d'indovinarne la fonte. Al di là della musica dell'opera, al di là del respiro della Russia, va maturando un futuro geniale: armonia incarnata. Mentre aspira a trovare una denominazione puntuale e arcana della sua sostanza: armonia, genialità e Russia, a Blok torna alla memoria una delle ipostasi della Trinità. Là dove balena il soffio dello spirito, ritrova anche il “Cristo fiammeggiante” purificatore...

La scena “aperta” della poesia ci presenta la Rus' scismatica. Essa viene rimossa nella profondità del tempo e dello spazio, là dove ciò che è stato è stato, in un angolo pigro e remoto. Il percorso musicale che vi conduce ha inizio ancor prima, quasi affonda nell'antichità epica. Al Cristo scismatico, al Cristo ribelle dell'ultima strofa ci riporta il canto degli avi, da tempo ammutolito. Ma il suo silenzio serba ancora in sé luce e quiete. I primi versi della poesia ci riconducono un canto, iniziatosi un giorno e perduto chissà dove, ci uniscono allo spirito, luminoso e recondito, della musica. A far di Blok un grande poeta è questa capacità di percepire l'essenza musicale del mondo, di coglierne l'autentico suono, che il tempo non spegne, “nell'anima o fuori: questo Blok non lo seppe mai” (19) .

Un tempo questa musica era veramente risuonata nella Rus'. Forse era essa stessa la Rus'. E raccolse i propri fedeli, coloro che la udivano, chiunque sapesse percepirne col cuore il misterioso, imperativo richiamo. Ma anche allora il mondo non era sufficientemente musicale, e già, sembra, gli agglomerati umani nelle città del XIV-XV secolo e anche prima, spegnevano nei cuori i segni celesti della musica. Coloro che venivano attratti dal richiamo lasciavano le città per romitaggi impervi dove potersi applicare alla preghiera e vivere dell'opera spirituale, sottomettendosi alla musica. Solo preghiera e musica li univano, non sapevano nulla l'uno dell'altro. Ma le voci del loro solitario ascetismo attraevano altri; nasceva così la comunità, così sorgevano la regola, il monastero; poi, a coronamento del tema musicale, si ergeva tra i boschi la cupola di un piccolo tempio fatto di tronchi dove, probabilmente, aleggiava a lungo il buon odore della resina e del legno tagliato di fresco. Là i monaci ponevano l'altare, e lo consacravano nel nome della Trinità Santa e Vivificante

e cantavano il loro Cristo.

Magari tutto ciò non è penetrato nei versi, ed è rimasto un enigma, ma questo antico canto era intelligibile anche all'anima blokiana, recatole dal fluire di quelle preghiere, dalla schiera di quei santi che si innalzano sopra la Rus', e per sempre partecipa - “là, un tempo, nell'alto” - della memoria del poeta, memoria musicale ed ecclesiale.

Ora però queste lontananze sono impenetrabilmente serrate; in primo piano stanno umidi muschi stregati, un cattivo abbandono, la reticenza penosa del nord russo. La “squallida Rus' finnica”, come la chiamava Blok, e attorno: prostrazione e condanna. E pure quella musica non è morta, ma dorme. La terra tutta ne è impregnata. Riempie le paludi, cola goccia a goccia dal fitto del bosco. La Rus' palustre è gravida di un'ardente tempesta. Quando si scatenerà, essa porterà il nome di Cristo.

Il tema dell'autunno e delle paludi s'insinua nella poesia blokiana e poi d'improvviso vi dilaga. La lugubre quiete delle paludi e degli autunni ha un duplice significato per il poeta:

“Orgia scatenata e crocefissione”, come dice Fedotov. Dall'autunno, dall'orgia, dalla crocifissione e dalle paludi sorge la Pietroburgo blokiana, “la città più terribile e regale del mondo”, (20) cresciuta sulle paludi, piena di oscure visioni, la Pietroburgo delle sconosciute, dei tuguri, delle bettole, gonfia di rivoluzione e di I dodici... Ma stagni e autunno dominano anche fuori città. I ceppi per il fuoco sono da tempo arsi, il canto degli avi non giunge da nessun luogo. “L'unico nemico comune a tutti noi” scrive Blok alla madre nel 1909, “è il sistema statale russo, il sistema ecclesiastico, le bettole, il fisco e i burocrati (...)” La storia è andata in cenere, la musica si è inaridita in essa. “I contadini, cantando, portano la sifilide da Mosca e la diffondono per tutti i villaggi. Il mercante cui avevano falciato il prato si è dato al bere, e con occhi ebbri ha appiccato il fuoco al fienile nel suo podere. Il diacono ha messo al mondo figli illegittimi. A Fedot è crollato il tetto dell'isba, ma Fedot non lo raccomoda. Da noi i vecchi han preso a morire, e i giovani a divenir vecchi. Il mio vecchio zio si è messo a proferir sciocchezze, come ancora non aveva mai fatto. E anch'io il mattino dopo sono andato ad abbattere un vecchio lillà.” (21).

Oggi, chi scruta la rivoluzione russa cercando di penetrarne il senso deve decifrarla anche nell'anima di Blok. “La rivoluzione è accaduta perché Blok potesse scrivere I dodici”, scrisse un poeta, I. Sel'vinskij, ironizzando su se stesso. Ma questa assurdità può diventar vera se sommata a un'altra: la rivoluzione accadde perché già il ritmo e l'orgia di I dodici si erano accumulati nel cuore di Blok. “Con tutto il corpo, con tutto il cuore, con tutta la coscienza, ascoltate la Rivoluzione” (22) esortava poco prima di scrivere I dodici, sentendo che in essa si univano un'intima musica e l'inebriante passione di morte... “Era un lillà centenario”, prosegue Blok, “i grappoli di fiori radi e azzurrognoli, ma il fusto così grosso da resistere all'ascia. Lo demolii tutto, dietro c'era un boschetto di betulle. Abbattei anche il boschetto; dietro a questo c'era un dirupo. Dal dirupo non scorgevo più nulla, tranne la mia propria casa sopra la testa: ora è là, inerme a tutti i venti e alle tempeste. Scavando sotto crollerebbe coprendomi per sempre.” (23).

Dalla sua proprietà Blok segue lo sfacelo avanzante e vuole aderirvi. Come suscitare la tempesta purificatrice: a colpi d'ascia, con uno scongiuro musicale, con un fischiettio ebbro e autunnale? Blok andrà dove lo trarranno le forze della natura, dove lo convocherà il suo “Cristo fiammeggiante” al quale, pur con tutti i suoi “sdoppiamenti”, egli resterà sempre fedele. “La religione è una cosa sporca (preti ecc.)”, annota dopo aver scritto I dodici. “Il pensiero tremendo di questi giorni è che il problema non sta nel fatto che i soldati dell'armata rossa siano "indegni" del Gesù che oggi a loro si accompagna; ma piuttosto nel fatto che sia proprio Lui ad accompagnarli, mentre dovrebbe essere un Altro.” (24).

Commento di Orlov, uno studioso di Blok: “Un "Altro" che sia più degno di condurre il popolo verso il futuro (...)” (25).Commento di Dolgopolov, altro studioso di Blok: “Le forze della natura esigevano da Blok una incondizionata sottomissione, poiché, chiunque esse fossero, era dalle loro mani che usciva la storia. Blok vi si sottomise. E fu la sottomissione alla necessità storica, alla storia stessa (…)” (26).

Commento di Lunac'arskij:

Così vanno con passo sovrano,
E a distanza segui tu, poeta,
Dietro ad un vessillo come il sangue rosso,
Intonando le strofe che son loro.
Conquistare ti sei lasciato infine
Dalla romanza tragica e crudele.
Ma di vittoria tu non hai speranza,
Giacché non è cosa per te, il socialismo.

E infine lo stesso Blok:

“Voi non fate che ascoltare”, dice il poeta. “Vagar per le strade, catturare frammenti di parole ignote. E poi venir qua a raccontar l'anima propria a un prestanome.
“Il cameriere:
“E' poco chiaro, ma molto raffinato (...) (Si stacca dal tavolo e accorre alla chiamata di un avventore. Il poeta scrive su un taccuino)” (28).

VII

Quel Cristo che balena nella tormenta di I dodici Blok lo aveva forse percepito anche nel canto degli avi? Davvero il Cristo dell'“angolo in alto”, sopra “l'uccisione di Kat'ka”, come scrisse Blok al pittore Annekov, che stava preparando la copertina per la prima edizione del poema, e il Cristo che si rispecchia nel centro del mistero musicale di Blok sono inscindibili l'uno dall'altro? E in questo caso concorderemo con quei critici di regime che sono disposti a sopportare Cristo solo come ambigua e oscura metafora della grandezza della rivoluzione, che ha riconosciuto la propria necessità storica? Oppure ci allineeremo al punto di vista più liberale, “estetico”, che vede nell'“immagine di Cristo” soltanto una tra le migliaia e migliaia di melodie che sono create dall'arte universale, che sono rese irripetibili proprio in Blok, ma che non sono senso, non Nome né Realtà? Oppure ancora decideremo di far corrispondere quella melodia, quella immagine che è nell'anima dell'artista con l'Originale della fede?

Berdjaev aveva detto: nello stesso momento vissero in Russia il grandissimo santo Serafim di Sarov e il grandissimo poeta Aleksandr Puskin, che neppure seppero mai l'uno dell'altro. Ma nel fare l'esempio della dolorosa, irriconciliabile spaccatura tra due cammini, quello della salvezza e quello della creazione, che, a suo avviso, invece, dovrebbero necessariamente incrociarsi e fondersi, Berdjaev stesso non sospettava nemmeno che avrebbe potuto prendere ad esempio due suoi contemporanei. Più o meno nello stesso periodo infatti, e non lontano l'uno dall'altro, vissero padre Ioann di Kronštadt, che aveva il dono del la chiaroveggenza e una parola dotata di potere taumaturgico, e Aleksandr Blok, poeta-medium, che attingeva allo spirito della storia, al suo ritmo. Da qualche parte, probabilmente, nella farragine dei giornali (incominciava allora l'epoca dello strapotere delle comunicazioni) erano balenati i loro nomi, ma alle loro reciproche orecchie non era giunto che il chiasso, molesto e ozioso, e i nomi erano spariti in modo ancor più amaro e irreparabile. Tra l'altro erano entrambi dei mistici, dei chiaroveggenti, e l'asprezza della loro separazione, la loro profonda dissomiglianza può essere semplicemente sfumata dal fatto che entrambi - il santo e il poeta - videro Cristo nel proprio servire, e di Lui scrissero. Ma, naturalmente, nulla potevano avere in comune La mia vita in Cristo (29) e il “Cristo fiammeggiante in una bianca ghirlanda”. Così come niente in comune avevano il Cristo della salvezza e della preghiera interiore e il Cristo della tempesta e dell'Apocalisse, appartenenti a due mondi poetici e confessionali ormai da tempo distaccati, quello della liturgia e quello della lirica.

Le loro vie divergevano largamente, e ormai se ne sono perse le tracce. Ma proprio in Blok, come alla vigilia d'una lunga notte, guizzò un certo barlume della cultura ortodossa, si mostrò per un baleno a segno del suo estremo saluto. Poiché la tragedia del rinnegamento e dell'orgia, la tragedia del cader prigionieri delle forze naturali e della “tatara libertà”, tragedia da lui portata, in lui maturata e quindi riversata in fragilissimi vasi lirici, fu comunque vissuta “presso le mura della chiesa”. Quei campi e quelle colline che nella sua giovinezza lo videro vagare dietro alle sue visioni si apparentarono musicalmente con le chiese che vi erano disseminate (e che ancora vivevano allora), e l'eco delle preghiere e dei sacramenti si fuse nelle sue poesie con altre voci. Il Blok paladino, bestemmiatore, ossesso, Mozart, il Blok che, con l'universale umanità di un Puškin, sa essere romantico tedesco, “cavaliere povero” della Bellissima Dama, e Cavaliere sofferente della Bretagna medievale, il Blok dal “volto di un fiorentino del Rinascimento”, come dice Gor'kij, restò comunque sempre il “figliol prodigo” della sua Chiesa, ed è impossibile comprenderlo a partire da un supposto “isolamento” storico o lirico rinchiuso in se stesso. In lui è la rottura, il crollo, l'insuccesso, e pure in lui è anche una sorta di promessa. E il grande poeta di una terra nella quale, a essere sinceri, ben pochi successi hanno avuto la civiltà umana e la morale universale, ma dove pure, tra le tenebre, la rivolta e la barbarie, germogliano per un ignoto miracolo i radiosi colossi della santità, esseri della stessa stirpe della Madre di Dio, e dove, sempre, i figli di bravi sacerdoti finiscono tra i nichilisti e i dinamitardi, e i figli di madri devote diventano saccheggiatori di chiese; ma persino questo animale singhiozzante, che “insaliva i tagliandi” sotto le immagini può conservare in sé, come forza inebriante, il volto di quell'unica Russia, “blokiana”, che è “fra tutte le contrade per me la più cara” (30).

Qualcuno ha detto che solamente questa Russia gli fu cara. Poiché la Russia del parlamento, dell'ordine borghese, delle mesdemoiselles che suonano il piano al di là della parete, gli era insopportabile.

L'anima di Blok era una sorta di campo di battaglia ove due forze si sopraffacevano vicendevolmente lasciando lui, mistico e medium, inerme di fronte a esse. Nel suo recesso lirico, l'anima palpitava per Cristo, quasi a distruggere le cortine che lo avvolgono, per poi continuamente ricoprirsene di nuovo, dimentica dell'antica verità che Dio è pronto, ma noi non lo siamo.

Nella “musica della Rivoluzione” Blok riuscì per l'ultima volta a conciliare le due forze che lo possedevano, a unire, nello “spirito della musica”, Cristo e 1' “Altro”. “Il demone intimo un tempo a Socrate di dare ascolto allo spirito della musica” (31) scrisse in Intelligencija e rivoluzione, e noi cogliamo in quello spirito la gelida attrazione della morte, inviata sulle onde liriche e racchiusa nell'armonia. Questa è benedetta e profanata, mentre l'unione innaturale e inscindibile di musica e morte porta in sé, secondo Blok, uno sdoppiamento tormentoso. Cristo s'incarna nell'armonia, scostando i veli, le nebbie, le forze spontanee, ma sempre giunge al poeta rifratto, sdoppiato. Blok vi si imbatte nella Tormenta e nella Rivoluzione, e ora Lo chiama Colui che viene, ora Cavaliere azzurro, ora Bambino nell'anima incenerita, ma l'autentico, l'unico Suo Nome, rivelato soltanto dalla Chiesa e dal Vangelo, egli non lo sa intuire. Il demone, o lo “spirito della musica”, suo inviato, quasi lo rapisce all'ultimo istante. “Quel che per te è Cristo, per me non è Cristo”, scrive a un amico nel 1905, “(...) parola vuota per me, termine caduto in disuso, "come cenere nella tomba" (...)”, scriveva ancora nel 1904, ma in quale altro poeta troviamo così messo a nudo il mistero dell'armonia?

Cristo! malinconica nativa vastità!
Mi prostro sulla croce!
Ma la barca tua troverà l'approdo
Alla mia crocifissa elevazione?

E se volessimo trovare la parola che unisca la sua “esperienza religiosa” al “sentimento civile”, questa parola sarà dolore per la Chiesa russa. Dolore: un impasto così inconcepibile e russo di odio e d'amore, come la stessa unione blokiana di sfacelo e armonia, del canto avito, edificatore di templi, e della “musica della Rivoluzione”, che i templi profanava. Questa musica risuona a volte in Blok così rozza e incongrua che non riusciamo a udirvi che la furia schiaffeggiata: “Perché si distrugge un'antica cattedrale? Perché cento anni fa, qui, un pingue pope, con un singulto, prendeva bustarelle e commerciava in vodka” (32); furia che d'un tratto lascia il posto a una melanconica tenerezza: “(...) una chiesa di legno abbandonata in mezzo a una fiera oscena e ubriaca (...)” (33). E poi ancora furia e tenerezza insieme: nella lite, nel dolore, nell'armonia...

Avendo aperto, un giorno, la Filocalia, Blok si sorprende di quanto sia viva per lui l'esperienza degli asceti, e di quanto siano invece morte le parole della Sacra Scrittura con cui quelli argomentano la loro esperienza. Nel profondo, la sua esperienza poetica prende le mosse dall'esperienza ascetica. “Mi colpisce personalmente il fatto”, scrive alla madre, “che l'atteggiamento di Evagrio verso i demoni è esattamente lo stesso che ho io verso i sosia, per esempio nell'articolo sul simbolismo.”

Ci ritroviamo qui di fronte a una sorprendente autodecifrazione dell'arte tramite gli strumenti stessi dell'arte. Nessuno potrebbe gettare uno sguardo così a fondo nell'anima dell'artista se non fosse l'artista stesso a far dono della sua visione. “Egli è posseduto da molti demoni”, dice Blok, “(altrimenti detti "sosia"), di cui il suo mal talento creativo produce a suo arbitrio gruppi di cospiratori in continuo mutamento. A ogni istante egli cela a se stesso, grazie a tali congiure, una parte dell'anima. In forza di questa rete di inganni, tanto più abile quanto più è incantata l'oscurità circostante, egli riesce a fare uno strumento di ciascun demone, a stipulare un contratto con ciascun sosia; e tutti costoro frugano nei mondi color lilla, procacciandogli le migliori gemme, tutto quel che desidera: chi gli reca una nuvoletta, chi il respiro del mare, chi un'ametista, chi lo scarabeo sacro, o un occhio alato. Tutto questo il loro signore getta nel crogiolo della propria creazione artistica, e riesce così infine con aiuto di scongiuri a raggiungere l'incognito, per sua meraviglia e sollazzo; l'incognito è la bambola-beltà” (34).

L'incognito, la bambola-beltà sono un altro nome dell'armonia...

VIII

“Il poeta è figlio dell'armonia; e gli è stato assegnato un ruolo particolare nella cultura mondiale.” (35) Ma non è affatto un ruolo “armonico”, bensì storico. Il tempo e gli spiriti del tempo: ecco chi sono i nuovi eredi dei tesori che ha raccolto, nuvolette, respiri di mare e vasi sacri che siano. A dire il vero, il mistero più non si compie in essi. I ripostigli dell'anima vengono oziosamente esposti nei musei. Alle “onde sonore” viene impressa la necessaria direzione. Le forze spontanee, dalle quali è sorta un tempo l'armonia, fungono ora da guide presso la “bambola-beltà”, l'anima del poeta. Di giorno, quando il museo è aperto, queste spiegano dettagliatamente quale sia il ruolo del poeta in quella grande opera cui egli si è apparentato nello “spirito della musica”. Ma di notte, gettata la maschera, ridiventano demoni, ridiventano sosia del poeta e gli si presentano a riscuotere secondo il contratto stipulato nei “tempi armonici”della creazione artistica...

e a guardarmi verrebbero, attraverso
la grata, come belva, e a farmi il verso
e a ridermi sul muso (36).

Non ci serve più rispondere a I dodici o “polemizzare” sarcasticamente con il demonismo blokiano. Una risposta è già stata data, l'abbiamo ben udita, sia nella stessa agonia del poeta, sia nelle convulsioni della storia, partorita “nella nebbia”. La sorte del poema è nota: il tempo lo ha congelato e canonizzato. Sappiamo pure dove il “Cristo di neve” ha condotto la banda dei suoi apostoli; questo luogo lo vediamo molto bene noi, oggi. Balenato in una nebbia tempestosa e rosata, compiuta la missione di metafora, costui, “il mercenario, che non è pastore” (Gv. 10, 12), ha permesso al suo gregge di seguire l'anarchia delle forze naturali, dandosi volontariamente alla necessità storica. Gli eroi e i prototipi di I dodici - il pope, il borghese, il retore dalle lunghe chiome, e poi anche la pattuglia notturna di soldati rossi - tutti, chi era pro e chi era contro, o chi è restato a terra, si sono persi nell'oscura tormenta, senza un ricordo, senza ritorno, e più nessuno ormai riuscirà a scoprire dove e quando. Ma l'armonia che li ha generati, la musica che ha spostato le rocce e ha dato inizio a un'invisibile opera di riedificazione, si è spenta per ultima. Tutti han fatto ritorno alla madre della loro morte, dopo aver senza volerlo e a caso compiuto un successivo gesto di nemesi in quel dramma, lirico e storico a un tempo, il cui ritmo e il cui soggetto Blok cercò di cogliere dagli atti precedenti. Ma può essere che, fedele alla sua attrazione verso la morte, egli abbia genialmente avuto un intuizione musicale anche in questa occasione? E possibile, veramente possibile che, conoscendone la fonte, egli abbia anche previsto la strada che avrebbero preso le sue “onde sonore” nell'immediato futuro storico? Ma le onde ormai sono scemate, le bufere sono ammutolite. E le nevi che esse hanno portato si sono accumulate e imbrunite. Il tempo è prossimo all'aurora e ha portato la prima cauta luminosità. Il Cristo di I dodici è ritornato nella canzone, che nemmeno mai si è allontanata dagli antichi remoti pendii. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Così ebbe termine l'epoca del fermento, dello sdoppiamento, della rivolta e delle promesse. La devozione ortodossa dell'infanzia, così come si era conservata in Blok, nelle benedizioni nel nome del Signore in calce a ogni lettera ai suoi cari, o nel segno di croce sopra “il caro lettino”, e persino nelle preghiere della sera, più non poteva convivere nelle anime con una “bestemmia puramente clinica”, come disse Bunin. La bestemmia era diventata politica e la devozione martirio. La musica era tornata là donde era venuta, nei boschi, nelle catacombe, nei sotterranei, sul fondo di Kitež, (37) mentre al di sopra, con strepito e fracasso, si arrabattava la storia, senza più orecchio né musicalità. Ormai non si potevano più spremere versi dall'aria, coglierli dalle albe. I campi sono disertati dalle visioni, l'erba non fruscia più misteri. Le sconosciute chissà perché non gettano uno sguardo nelle birrerie. Per gli ultimi sentieri blokiani vanno ora i tram pieni zeppi di Mandel'štam. “Io, piccola ciliegia nel tram di un tempo terribile (...)” (38).“(...) già si nota un nuovo ruolo della persona umana, una nuova razza”, scriveva Blok nel 1919, quando ancora percepiva qualcosa (39).

Così ancora una volta, l'ultima, si svela il senso remoto dello “spirito della musica” blokiano: la sua arcana parentela con la morte. Ma non è dalle forze spontanee, non è dal verso che questa morte emerge, non è nella corsa, o nella velocità sfrenata, non nell'acquisizione del ritmo ricercato che la si può cogliere, essa cresce nella lenta disidratazione musicale, come la marea decrescente che rivela il fondo cupo che rapidamente si dissecca. Il tempo ha tracannato un'altra anima, colma di onde sonore, e insoddisfatto è fuggito avanti. “Prosciugamento”, questa è la parola con la quale Blok indica nel Diario la sua prostrazione mortale, mortifera.

“Un'anima stanca siede per un attimo alle soglie della tomba. È di nuovo primavera, di nuovo lungo i pendii fiorisce il mandorlo. Passano di là la Maddalena col vaso, Pietro con le chiavi; Salomè che porta la testa sul piatto; la sua veste lilla e d'oro è così pesante e ampia che deve scostarla con il piede.

L'anima del poeta, “svuotata dal banchetto” e abbandonata dalla musica, alle soglie della morte passa attraverso il cimento. Il paradiso della poesia e l'inferno dell'arte sono ormai dietro le spalle. Come quegli schiavi di Platone che siedono nella caverna, incatenati con la schiena alla luce, essa vede nel ricordo soltanto le ombre musicali del fluire della vita passata: la Maddalena con il vaso di preziosa mirra che reca per i piedi del Salvatore; Pietro con le chiavi del Regno dei Cieli; Salomè con la testa mozzata di Giovanni Battista, ricevuta in premio perché la sua danza era piaciuta a Erode e ai suoi ospiti... Salomè è forse quella zingara che narra danzando la vita del poeta? (43) Oppure è quella stessa forza naturale, fusione di bufera e di danza, che ha penetrato l'anima del poeta e l'ha poi succhiata? “Nell'ombra della galleria ducale, appena rischia-rata dalla luna, furtivamente passa Salomè, recando la mia testa insanguinata” (44). O è lui stesso a vedere in sé un servitore del “dio ignoto”, quel preannunziatore dell'armonia che dovrà pagare per essa con la testa? Giacché ogni armonia - che si esprima con la lingua degli uccelli, dei gigli di campo, delle navi che prendono il mare - deve comunque annunziare Cristo come sua fonte e ultimo asilo, il Cristo-Musica, il Cristo-Eternità, il Cristo-Vincitore della morte. “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino (...)” (Mc. 1, 15).

Noi moriamo e l'armonia rimane (45). Mai più, ormai, potranno disgiungersi, separarsi le diverse forze spontanee che in essa si sono fuse in unità. Si sono intrecciate le onde sonore che sgorgano da profondità insondabili, e così pur sempre si sono ormai rapprese in rilievi di parole due inconciliabili volti della Russia, la blokiana “segreta libertà”, e la sua stessa “missione storica”, le “sincere promesse della gioventù”, il “patrimonio dei docenti”, gli appelli di morte e le canzoni “di bontà e di luce”, (46)
i campi beati e le visioni di “fiammeggiante delirio”
... le ingiurie dei guardiani
e il suon delle catene (47).

Note

(1) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, Adelphi, Milano 1978, p. 153.

(2) A. Blok, O sovremennom sosto janii russkogo simvolizma (Lo stato attuale del simbolismo russo).

(3) A. Blok, dalle lettere.

(4) C. S. Lewis, The Problem of Pain.

(5) “Riflesso di ciò che è invisibile all'occhio” è un verso di una poesia di Vladimir Solov'ëv.

(6) A. Blok, dai taccuini.

(7) cfr. la poesia di Blok “Ricordi? Nella rada sonnolenta [...]” (1904) (tr. it. in A. Blok, Poesie, Guanda, 1975, pp. 374-376):
 “Trova per caso sul tuo temperino
un granello di polvere di terre lontane -
e il mondo apparirà di nuovo strano,
avvolto in una nebbia colorita!”

(8) “L'opera del Signore” sono parole pronunciate da Vladimir Solov'ëv in punto di morte (“E' difficile l'opera del Signore”).

(9) A. Puskin, “Non voglia Iddio ch'io perda la ragione” (tr. it. in A. Puskin, Lirica, Sansoni, Firenze 1968) pp. 417-418).

(10) “Selvagge passioni”, “splendore del non essere” sono espressioni di Blok.

(11) A. Blok, I dodici (tr. it. in Poeti russi nella rivoluzione, a cura di B. Carnevali, Newton Compton editori, Roma 1971, pp. 42-67).

(12) K. Moc'ul'skij, Aleksandr Blok.

(13) Vladimir Orlov, Poema Aleksandra Bloka “Dvenadcat'” (Il poema di Aleksandr Blok “I dodici”).

(14) Nel testo russo compare la grafia “Isus”, mentre quella normale è “Iisus”. Ndt

(15) Sergii Bulgakov, Na piru bogov (Al banchetto degli dei).

(16) Pavel Florenskij, Blok.

(17) Apollinarij Vasnecov (1856-1932) pittore, fratello del più famoso Viktor. Paesaggista, amava descrivere la malinconia della terra lussa. Ndt

(18) Raskol'niki (scismatici) sono i cosiddetti “vecchi credenti” che rifiutarono di accettare la riforma liturgica del patriarca Nikon nel XVII secolo. Ndt

(19) L. D. Blok, Byli i nebyli (Sono stati e non sono stati).

(20) Da una lettera indirizzata a E. P. Ivanov dall'Italia: “La città più terribile e regale del mondo resta, probabilmente, Pietroburgo”.

(21) A. Blok, Ni sny, ni iav' (Né sogni ne' realtà).

(22) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 73.

(23) A. Blok, Né sogni né realtà.

(24) A. Blok, Dnevnik (Diario), 20 febbraio 1918.

(25) Orlov, op. cit.
(26) Citazione da A. Jakobson, Konec tragedii (La fine della tragedia).

(27) Ibid.

(28) A Blok, Neznakomka (La sconosciuta), dramma.

(29) La mia vita in Cristo è un'opera del padre Ioann di Kronštadt.

(30) A. Blok, Poesie, ed. cit., p. 378.

(31) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed cit., p. 73.

(32) Ibid. p. 66.

(33) A. Blok, dal Diario dopo I dodici.

(34) A. Blok, Lo stato attuale del simbolismo russo.
(35) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 153.

(36) A. Puskin, op. cit., p.418.

(37) Kitež, la città della leggenda russa, sprofondata sul fondo di un lago a causa del venir meno della fede dei suoi abitanti. Solo i puri di cuore possono ancora sentire il suono delle sue campane. Ndt

(38) “Io, piccola ciliegia nel tram di un tempo terribile [...]” è un verso da una poesia di Osip Mandel'štam.

(39) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 149.

(40) Ibid. p. 153.

(41) V. F. Chodasevic', Nekropol'.
(42) A. Blok, Né sogni né realtà.

(43) “Salomè è forse quella zingara (...)” richiama la poesia di Blok:
Io, che ero un tempo superbo e altezzoso,
con una zingara sono ora in paradiso,
ed ecco la imploro umilmente:
“Bada, zingara, balia la mia vita”.
(tr. it. in A. Blok, Poesie, op. cit., p. 300).

(44) Ibid., p. 241, dalla poesia Venezia, che fa parte dei ciclo Versi italiani (1909).

(45) “Il poeta muore e l'armonia resta” è la parafrasi delle parole blokiane “Noi moriamo e l'arte resta” (La missione del poeta) (A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 162), che è a sua volta una variazione del detto latino: “Ars longa, vita brevis”.

(46) La “missione storica”, le “sincere promesse della gioventù”, il “patrimonio dei docenti”, (il Bimbo) “di bontà e di luce”, sono tutte espressioni prese da versi, taccuini e articoli di Blok.

(47) A. Puškin, op. cit., o. 418.


(Fine)

(da Russia Cristiana, VI, 1981, 3 (177), pp. 17-37)

Pubblicato in Cultura e Spiritualità

La musica e la morte
Commento a Blok
di Vladimir Zelinskij

I

La presenza di Blok dentro di me prende le mosse da una fortuita nota puškiniana, dall'eco di un “nome lieto” (1) o dal ritmo che casualmente si ridesta nella memoria e nel respiro. L'armonia, in ciò che ha di fondamentale, sembra essere elastica e inscindibile, e ciò che in essa è più arcano è sempre ciò che è poi più vicino. Il destino e il motivo di un poeta possono rifrangersi nelle risonanze di un altro, come se riemergessero dalle profondità dell'armonia. Spesso tento di sorprenderli in qualche motivo che mi investe.

“Non voglia Iddio ch'io perda la ragione.
No, meglio la bisaccia ed il bordone,
la fatica e la fame.
Non perch'io faccia un alto apprezzamento
della ragione e non sarei contento
di spezzarne il legame:
se mi lasciasser libero, sarei
così vivo e felice: me ne andrei
nella nera foresta!
E canterei quel mondo affascinante
di sogni che in delirio fiammeggiante turbina nella testa.
Oppure presterei ascolto all'onda
e volgerei lo sguardo alla profonda
e vuota volta del cielo.
Libero e forte come l'uragano
sarei che investe i boschi e scuote il piano
portando lo sfacelo.
Ma, ahi, se un dì perdessi la ragione,
come la peste orribile, in prigione
sarei, stolto, rinchiuso,
e a guardarmi verrebbero, attraverso
la grata, come belva, e a farmi il verso
e a ridermi sul muso.
E non udrei dell'usignolo il lieto
gorgheggio nella notte e del querceto
il brusio sordo e iene,
ma il grido disperato degli insani
miei compagni e le ingiurie dei guardiani
e il suon delle catene”. (2)

Nella poesia di Puškin e forse solo in essa sussiste questa compiuta, indivisibile armonia degli elementi che l'hanno generata. Tra quella regione dove i versi permangono ancora allo stadio di magma, non ancora dischiusi, e quella dove essi s'incarnano nel fluire della parola, dove l'arte li erige perché si cementino nella cultura, non solo non ci sono opposizioni, ma neppure crepe e connessure. Non si ritroveranno qui dei limiti che conducono all'intangibile, o all'opera di mano umana; e, ovunque si vada, al cosmo o al logos, incontreremo piuttosto ciò che si chiama armonia e che è segno dell'umanità incarnata. Nel pensiero di Blok l'armonia raccoglie in sé elementi eterogenei - parole e suoni - che solo per un miracolo possono fondersi totalmente. Ma il miracolo resta comunque un fatto unico; più spesso le onde sonore non trovano le parole giuste, alle parole manca la linfa sonora, pare che radici e significati non sappiano attingere alla corrente sotterranea della musica; la loro stessa perfezione risulta tediosa e muta. In Blok non è così: i suoi versi sono ancora fin troppo aderenti al “fiammeggiante delirio”, sembra non si siano ancora del tutto staccati da quella musica che li ha condotti alla parola; portano ancora incrostate inflessioni di un linguaggio non terreno, sono popolati da quegli esseri nebbiosi-palustri-antelucani che così strani appaiono nel mondo umano. Cukovskij, nel Libro su Aleksandr Blok, dice: “Il suo verso non fu un macigno ma la scorrevole fluidità di vocali”. E lo stesso critico non può che riprendere le parole di Shakespeare: i versi “son di quella stessa materia di cui son fatti i sogni”.

Questi sogni sono fissati dal poeta nell'istante della loro massima luminosità, quando è assoluto il loro potere sull'anima. Essi vengono svelati ed espressi nel verso, in questo asilo della lingua russa la cui protezione ci siamo ormai abituati a utilizzare, casualmente, sentimentalmente, senza il benché minimo pensiero di ringraziamento. La stessa vita del poeta è uno di questi asili, reso abitabile, così, alla buona, nella fantasia dei vari lettori. La vita e la poesia di Blok stanno spalancate di fronte a noi:

“Qui il ristorante è chiaro come i templi,
e il tempio è aperto come un ristorante”. (3)

La vita di ogni poesia è sempre accessibile e nello stesso tempo inattingibile, “come il mistero di una porta socchiusa, nel tempio di un sogno dorato”(4). Tentiamo, seguendo gli sfaccendati, i pellegrini, i solerti impiegati dei musei poetici, di accostarci ancora una volta a questo mistero, di trovare i suoi riflessi nella parola puškiniana...

Il Blok che più mi è caro non è assolutamente il Blok mistico, ricercato, pietroburghese, il Blok dei ristoranti e dei violini o, come diceva Bunin, il Blok “col volto statuario del bell'uomo e del poeta”, ma quello che sembra ormai trapassato: “il Blok che ha dimenticato come si scrive in versi”, che ha già scritto tutto quello che era essenziale, che ha già capito ogni cosa, il Blok condannato, stordito, incatenato alla “assurdità delle riunioni”, “imprigionato in una ragnatela” (come affermano i testimoni oculari), il Blok che desidera soltanto la morte e che ha esitato di fronte a essa solo per potersi liberamente accomiatare, alla fine, dall'arte, da Puškin, dalla Russia e da se stesso.

Ed è proprio con questo famoso addio che vogliamo iniziare il nostro cammino verso Blok.

II

Il suo discorso su “La missione del poeta”, che venne pronunciato nell'ultimo anno di vita e fu dedicato a Puškin, è evidentemente pieno di nostalgia. Già tempo addietro Blok aveva presentito la rovina del suo universo patrio. Questo presentimento si avvera: in lui va ormai morendo la sua patria sonora. Sempre gli stessi abissi e gli stessi spettri sono evocati da questo discorso (il caos, il cosmo, l'anarchica nebbia, l'ordinata armonia) e ancora la stessa aspra schiettezza blokiana nel modo di raccontare. Ma Blok non è più là. Egli vede il proprio mondo come se stesse già su un'altra riva, per contrasto con ciò che ormai e abbandonato. E le sue parole sono chiare e coraggiose.

“Nelle profondità insondabili dello spirito, là dove l'uomo cessa d'essere uomo, nelle profondità inaccessibili allo stato e alla società, creati dalla civiltà, si susseguono le onde dei suoni, simili alle onde dell'etere che abbracciano l'universo; si succedono ritmiche oscillazioni, simili ai processi che formano le montagne, i venti, le correnti marine, il mondo vegetale e animale.

“Questa profondità dello spirito è nascosta dai fenomeni del mondo esterno. Puškin dice che, forse, più che agli altri uomini è nascosta al poeta [...]. (5)

E ora questa profondità è nascosta anche a lui.

“Una pessima fisica, ma che audace poesia”, dice Puškin: “essa ha le sue scaturigini proprio in quelle onde che abbracciano l'universo, innalzano i monti, governano la vita del mondo che “consiste in una incessante creazione di nuove specie, di nuove razze [...]”. (6)

“Il poeta è figlio dell'armonia; e gli è stato assegnato un ruolo particolare nella cultura mondiale. A lui sono affidati tre compiti: anzitutto liberare i suoni dalla nativa anarchia degli elementi in cui sono immersi; in secondo luogo condurre quei suoni all'armonia, dar loro forma; in terzo luogo, portare quell'armonia nel mondo esterno.” (7)

Nel suo primo compito il poeta è un medium, un veggente;
nel secondo è l'artista, l'artigiano del proprio talento;
nel terzo è il letterato, circondato dalla plebe.

La plebe infatti domina questo mondo esterno nel quale si inserisce l'armonia. Essa, come è ovvio, si preoccupa solo di ciò che è utile. Raramente il discorso sulla poesia può esser fatto salvo dagli insulti contro una certa plebe. Essa viene disprezzata secondo lo spirito del classicismo: il poeta suona distrattamente sulla propria lira, ma l'ottuso volgo pretende da lui solo ciò che gli può essere utile e può fargli da ammaestramento. Essa è sprezzata dal punto di vista romantico: l'anima, affascinata dalle stelle, non desidera sapere quello che tutt'intorno “sull'auro o sul pane gridano possenti le masse”(8). Essa ancora viene sferzata da un punto di vista sociologico e morale, e per Blok, che segue ormai una tradizione democratica ben collaudata e disinteressata, qualsiasi plebe è necessariamente “mondana”: è fatta a esempio di “buontemponi coi tubini”, di “stalloni della guardia”, di burocrati di un qualche organo poliziesco censorio. Ma comunque veda il poeta la sua plebe e dovunque la collochi, egli la intende sempre come qualcosa di opposto alla poesia. Il mondo esterno, nel quale il poeta, in base ai compiti che gli sono affidati dalla plebe, deve “illuminare i cuori dei confratelli” o “spazzare le strade” (9), è sempre infinitamente lontano dall'anarchico “caos nativo” dal quale gli vengono le onde sonore...

“se mi lasciasser libero, sarei
così vivo e felice: me ne andrei
nella nera foresta!” (10)

Ma il poeta non si limita allo struggente progetto di una fuga simbolica dalla plebe e non sempre si strappa via da essa. Di quando in quando, quando monta l'ebbrezza della terra, quando si scatenano le razze, quando le ritmiche oscillazioni, che vengono dalle viscere oscure, si trasmettono alla società e allo stato, al poeta sembra che dalle profondità del caos sia zampillata la poesia stessa. E allora, tra l'orrore degli amici e di chi era iniziato al mistero della sua arte anteriore, egli fraternizza inaspettatamente con la plebe e cerca di condividere con essa i suoi tre compiti fondamentali. Adesso i visibili interpreti delle forze della natura non sono né il bosco né il vento che batte le pianure, ma le strade che la tormenta ha sepolto sotto la neve e gli uomini che le percorrono. Da qui il poeta attinge suoni e parole per trasformarli in armonia.

“L'armonia è accordo delle forze del mondo, ordine della vita del mondo”(11). Per far nascere l'armonia è necessario “racchiudere il suono, estraneo al mondo esterno e suscitato dal profondo, nella forma tangibile e salda della parola”. (12)

Poi l'ebbrezza scema., e il poeta, in modo ancor più netto di prima, comincia a staccarsi dalla plebe che lo circonda. Ma l'armonia, creata in un momento di breve e inebriante fraternità con le forze della natura, resta.

Conosce forse il poeta una qualche misura comune tra la vita delle forze naturali, i suoni che vengono dal profondo e il discorso umano plasmato dall'arte? È proprio un'armonia, un rivestire di carne, con parole, con suoni, con tinte di qualcosa di caotico che ci viene dalla profondità delle onde? Abbiamo il diritto di supporre, seguendo le meditazioni di Blok, che l'orecchio del poeta possa discernere, in queste recondite forze dell'universo, un sistema musicale da noi percepibile e rivolto al mondo umano, e inoltre un qualche progetto che è racchiuso in queste forze della natura e che forse fa loro da guida. Probabilmente, un uomo con il cuore meno musicale, più solidamente preservato dall'influsso delle forze naturali, ma maggiormente sensibile al progetto da loro dettato, sarebbe più preoccupato della sua veridicità, della sua conformità all'Archetipo di ogni senso, ma il poeta è interamente assorbito dalla “tensione dell'ascolto”, dalla sua mediazione tra il caos e il cosmo da esso scaturito. La forza d'attrazione del caos è ineluttabile, il suo potere musicale affascinante, e a chi l'ha provato dentro di sé non deve essere estranea neppure la tentazione di restare con esso per sempre, di dissolversi nelle beate forze della natura, nascosto agli occhi della plebe grazie ai “fenomeni del mondo esterno”.

“E canterei quel mondo affascinante
di sogni che in delirio fiammeggiante
turbina nella testa.” (13)

Il poeta è pronto a riconoscere la seducente lontananza del delirio come proprio paese. La tentazione di tornare là per sempre non lo abbandona mai. Perché solo là egli può pienamente realizzare la sua vocazione. Qui, invece, essa è raggiunta il più delle volte a dispetto della plebe, attraverso la rinunzia alla mediocrità del mondo umano con la sua “utilità” e con la sua volgarità, ed è raggiunta segretamente.

“Segretamente anela alla morte il cuore, vola via, cuore leggero [...]. (14)

Perché “segretamente”? Perché ciò che è più segreto e ineffabile e questo evidentemente il poeta non può non ammetterlo e cioè le forze naturali dei sogni, dei “fiammeggiante delirio”, delle “onde sonore” che si gettano l'una sull'altra, dell'anarchico “caos nativo”, sono forze fatali che attraggono non solo con la musica ma anche con la morte e che inoltre rendono sia l'una che l'altra, la musica e la morte, ugualmente responsabili della nascita dell'armonia...

III

Ogni poeta si volge e guata incessantemente a ciò che fa. Blok, con tutta la sua medianica predisposizione alla percezione delle luci e dei suoni che vengono “di là” (15) (da un paese che per ora resta non detto), era più di ogni altro affascinato dalla fonte della propria poesia. La più precisa, ripetuta e persistente indicazione a proposito di questa fonte fu, nel suo vocabolario, la parola “musica”.

“La musica è la più perfetta di tutte le arti perché essa sa meglio esprimere e riflettere il progetto dell'Architetto[...] Ogni momento orchestrale è la rappresentazione del sistema dei sistemi stellari, con tutta la sua istantanea e fluente varietà [...]

“La musica crea il mondo. Essa è il corpo spirituale del mondo [...] Raggiungendo il proprio culmine, la poesia, probabilmente, si perde nella musica.”

Questi pensieri vennero suscitati dalle riflessioni su un melodramma di Wagner. Un'annotazione del Diario (1909) comincia con le parole: “Wagner a Näuheim: qualcosa di assolutamente indicibile: ricorda l'anamnésis”.

Anamnesis è la parola con cui Platone indica la reminiscenza della verità, di cui un tempo l'uomo era partecipe ma che ha poi perduto. La reminiscenza è data dalla morte, ma può essere data anche dalla filosofia, il cui compito è appunto quello di insegnare a morire. Proprio ciò che Platone intese per filosofia è vicino a quello che noi intendiamo per poesia. Egli annovera la filosofia tra le “arti delle Muse” e nel Fedone chiama i filosofi “baccanti”. La verità si manifesta definitivamente solo nella morte e perciò morire e abbandonarsi alla reminiscenza e alla conoscenza - nella sua sorgente “musica” e musicale - non sono forse una sola e identica cosa?

Una reminiscenza musicale è sottesa dai versi di molte poesie di Blok. Il ritmo che vi è insito raggiunge a pieno la sua forza ammaliante perché porta sino a noi la voce delle forze naturali che ci circondano e che non sono percepite dal nostro udito ma sono sparse dovunque nello spazio. Il poeta, sottomettendovisi, ci mette in comunicazione con loro. Ed è proprio questa sottomissione che crea una benedetta volontà, la sua “segreta libertà”.Egli riveste il “corpo spirituale del mondo” con una armonia tangibile, visibile, sonora. Solo nella “segreta libertà”, (16) che esprime contemporaneamente tanto la sottomissione alle oscure forze naturali quanto la benedetta attuazione dei “progetti dell'Architetto”, si realizza quello che è il suo primo misterioso compito, lo scioglimento dei veli e la liberazione dei suoni, Il disegno ritmico della poesia, quindi, predetermina anche la maturazione dei significati. Il ritmo e il significato in Blok sono i due poli di un unico campo sonoro. Ogni poesia, per lui, dice il Mos'ulskij, “è un velo gettato sulle lame di alcune parole. Queste parole brillano come stelle. Proprio per esse esiste la poesia. Tanto più essa è oscura, tanto più queste parole sono lontane dal testo. Nella poesia più oscura non brillano queste oscure parole, essa non ne è imbevuta, ma è nutrita e saziata da una musica oscura”. (17)

Ma anche là dove le parole sono luminose, dove i loro significati sono solidi e trasparenti, dove essi sono fortificati dalla forza delle realtà terrene, anche là, dietro il testo visibile della poesia, si fa sentire la vicina risacca della “musica oscura”, delle “deliranti” forze della natura, e lo stesso testo e l'opera diffondono le sue onde. E questo non è semplicemente un significato recondito, è quell'intimo sistema sonoro - anamnesis - che ricaccia in superficie i suoi significati, le sue immagini o costringe, inquietamente e imperiosamente, a riconoscerli. Le ispirazioni di Blok, sia quelle che passano di sfuggita, sia quelle che sono portate da qualcuno, pare che chiamino alla luce una remota e segreta musica del mondo, liberandola dalle catene, in modo da esprimere il subitaneo passaggio dal caos all'armonia, e dall'armonia alla catastrofe nel grembo nativo... Ed è proprio per questo che nei versi di Blok il movimento non si inaridisce mai, non tacciono i venti, non scemano le tormente, e nei suoi ristoranti

“i violini, struggendosi e infiacchendosi,
si abbandonano ai furiosi archetti”, (18)

Anche nella lontananza storica - di fronte alla reminiscenza della battaglia contro i tatari sul campo di Kulikovo, reminiscenza che prende lo spunto dal fiume che si distende lentamente e dai tristi pagliai - dal flusso ritmico, dai recessi musicali della poesia scaturisce improvvisamente, balenando fra il sangue e la polvere, “la giumenta delle steppe”(19), e questa sua antica fuga trasmette tutta l'inquietudine, tutto il sistema e lo spirito della memoria sonora blokiana...

Sul campo di Kulikovo Blok è portato dalla memoria musicale della Russia. Ma nel contatto con la storia essa diventa profetica, poiché è rivolta al futuro. Nella battaglia, il cui fragore si è perso nel passato, egli ode l'eco della futura battaglia. Ma già là, nella “Russia lontana” (20), nel profondo della memoria, comincia per Blok a sdoppiarsi l'immagine della Russia, e le sue due diverse voci ora si soffocano a vicenda, ora si fondono in una sola. La patria lo chiama dalla lontananza, “oltre il fiume nebbioso”(21), ma “la freccia tatara dell'antica libertà” (22) ha trapassato la sua anima ed essa soffre per la singolare forza dell'incendio e della catastrofe. Musica e morte, un fuoco opaco e la preghiera si confondono nei suoi versi, e l'urlo dell'“angoscia secolare” (23) soffoca la chiara voce della “lontananza”. Dice Fedotov: “II poeta ha già solidamente unito lo spirito dell'agitazione e della rivolta alle forze tatare. Contro di ciò egli lancia il suo ultimo esorcismo: "Mettiti a pregare! ". Ma sino alla fine resta oscuro: quando giunge l'ora dell'ultima battaglia [...] quale sarà il suo campo, quello russo o quello tataro?”. (24)

Ma ecco un'altra Russia e un altro paesaggio, brutalmente prosastico. I sobborghi di Pietroburgo, l'ippodromo, “la turba delle dame e dei perdigiorno” (25) e, nei loro occhi, l'improvvisa morte del fantino. Un altro ritmo, un altro stile, un'altra corsa, ma lo spirito della musica, l'eco nella memoria del poeta sono gli stessi di prima, antichi. La contiguità di significato tra libertà e morte, la comprensione ritmica delle forze della natura e della catastrofe, la loro unione musicale.

“E’ così bello e facile morire.
Tutta la vita aveva corso, sempre
ansioso di passar primo la meta.
Nel galoppo affannoso la cavalla
era inciampata, senza ormai più forza
di reggere la sella: le leggere
staffe avevan tremato, ed il fantino
rimbalzò nella scarica dell'urto.
La nuca stramazzò sulla nativa,
primaverile ed accogliente terra:
nel cervello in un attimo passarono
gli unici indispensabili pensieri,
poi con gli occhi si spensero. È così bello e facile.”(26).

Blok non guarda a questa morte come uno spettatore disinteressato. Egli vi si sente misteriosamente e appassionatamente coinvolto. Comincia a vedervi l'improvvisa conquista del ritmo che aveva sempre cercato, quel ritmo cui aveva anelato per tutta la vita, e vi vede ancora la luce benedetta portata dalla verità - l'anamnesis - e la repentina fine. E si intuisce - anche se attraverso pensieri sobri e versi misurati - come lo attiri questo abisso che si infiamma per un istante e subito si spegne, come il morirvi musicalmente possa essere “così bello e facile”. E i repentini pensieri, gli “unici indispensabili”, sono forse per Blok il pegno e l'ispirazione della sua ultima poesia, la poesia-morte. E tuttavia, per ora, egli è solo spettatore, sognatore, poeta. La morte-musica fugge via da qualche parte. Egli può solo guardarla da lontano con un “savio sorriso” (27). Finché non sia giunto il tempo, egli può solo aspirare nostalgicamente a essa, vagare e sorridendo struggersi nelle sue prossimità poetiche, “e sciogliere canti! Ed ascoltare il vento nella quiete!” (28)

“Libero e forte come l'uragano
sarei che investe i boschi e scuote il piano [...]” (29)

“Io amo soltanto l'arte, i bambini e la morte”, dice Blok in una lettera alla madre del 1909.

Due anni prima egli scriveva ad Andrej Belyj, dopo il loro mancato duello: “Il dramma della mia concezione del mondo (non sono arrivato fino alla tragedia) sta nel fatto che io sono un lirico. Essere lirico è piacevole e terribile insieme. Dietro l'orrore e la gioia si nasconde un abisso, nel quale si può precipitare senza lasciar traccia. La gioia e l'orrore sono come un velo di sonno. Se non portassi sugli occhi questo velo, non sarei guidato dal Terribile Ignoto, da cui solo mi salva la mia anima, non avrei scritto neppure una poesia di quelle che a voi sembrano valide”.

IV

La critica blokiana raramente ha gettato uno sguardo nell'abisso del poeta: pare che in campo critico non si usi arrischiarsi a viaggi del genere. Ma se, facendo nostra l'ipotesi di Paolo sull'uomo, cercassimo di discernere anche nella produzione artistica un corpo, un'anima e uno spirito, ci accorgeremmo che i nostri comuni giudizi raramente vanno al di là dell'aspetto corporeo dell'opera, al di là della sua carne. Quanto al resto, di solito riusciamo a esprimere, in modo circostanziato o lapidario che sia, solo una verità risaputa, anche se non ancora sbiadita, e cioè che l'anima altrui è tenebra. Sullo spirito, poi, non osiamo neppure azzardare un giudizio, mai. Questa indecisione, però, non esclude certo che si sia liricamente pronti a perdersi in pure chiacchiere su temi mistici, facendo ricorso a tutto l'armamentario del soprannaturale: demoni, serafini ecc. Ma noi, di regola, ci scherniamo di fronte alle parole che implicano una responsabilità, quelle che definiscono in modo preciso la sostanza spirituale delle opere d'arte, e il loro rapporto con la realtà che sta al di là di esse e le supera.

Ecco perché suonano così ardite e graffianti le parole di colui che “ha il potere” di discernere gli spiriti. Ed è questo ciò che risentiamo nella conferenza di padre Pavel Florenskij su Blok, pubblicata in tempi relativamente recenti (30) in forma un po' improvvisata. Nella sostanza questa conferenza è stata un primo tentativo, e quanto radicale, di quella che potremmo definire “teologia dell'arte” applicata a un terreno russo. Ma in questo caso parlare di teologia significa parlare di giudizio. Il sacerdote giudica il poeta, l'uomo di cultura a partire dal culto. E il suo è un giudizio equo, rapido e impietoso. Il suo presupposto è semplice e inflessibile: la cultura può essere rettamente intesa solo nell'ambito di un sistema rigorosamente monistico, competente a valutare la cultura stessa. “Il mondo è scisso dal principio religioso: l'antitesi al marxismo è solo il cristianesimo (cioè l'ortodossia), alla religione dell'uomo-dio si contrappone la religione della divinoumanità.”

Dal punto di vista ortodosso la fonte dei temi culturali va rintracciata nella tematica del culto, cioè nella liturgia. “La creazione di una cultura distaccata dal culto è sostanzialmente parodistica.

“La parodisticità presuppone un mutamento di segni, ferma restando l'identità dei temi.”

“Parodia” dunque: ecco la parola che farà da chiave a tutta la poesia di Blok. Blok è un grande poeta in quanto mistico autentico, giacché è della realtà autentica che egli parla. Perché anche chi “di parole sacrileghe è creatore” è un poeta di valore, giacché le parole sacrileghe sono la non-verità detta a proposito della Verità; il “sacrilegio serio” obbliga a partecipare della profondità, presuppone un radicamento nelle profondità sataniche.

Non resta quindi che scegliere gli esempi.

“C'è nelle tue segrete melodie
un'infausta notizia di rovina.
C'è l'anatema dei precetti sacri,
c'è l'oltraggio della felicità.” (31)

Ciò che un tempo poteva apparire una rivelazione, oggi si riduce spontaneamente quasi a un luogo comune. Così la poesia “Alla Musa” era giudicata condannabile anche nell'articolo di Naum Koržavin “Gioco col diavolo” (32). Ma s'intuisce qui, al di là di un processo in cui si dà la parola al solo pubblico ministero, un'interna lite: tu, sembra dire, mi hai insegnato il male, e io ero giovane, nei dolci suoni bevevo il contenuto venefico. Del resto, in fin dei conti, ogni poeta, per diventare se stesso, deve liberarsi dalla magia dell'altro. E lo può anche fare in modo brusco, ma restano pur sempre anche “le ragioni del cuore”. La condanna di Koržavin è quasi stizzosa, quella di Florenskij quasi gelida. Blok sarebbe l'ambasciatore del diavolo nella poesia russa.

Ma non fu lui stesso a parlare del “nero inferno dell'arte”(33), della “lirica agile, maligna, infida”? (34) Non fu lui a subire gli accessi “di un riso snervante, che inizia con un diabolico, beffardo sorriso provocatore, per finire nella violenza e nel sacrilegio”? (35) Non fu lui a percepire in sé il “trasfondersi di quelle forze demoniache che spiano il poeta per scagliarsi improvvise contro di lui”? (36) E non è forse per questo che è irrealizzabile il sogno di fuggire dall'arte, e di rinunciare del tutto a ogni guadagno letterario? “No, meglio la fatica e la fame [...]”

La condanna, stizzosa o gelida che sia, è dunque giusta al fondo? E la musica che si percepisce nelle abissali profondità dello spirito non sarebbe che una volontà di morte trasformata in armonia? E le onde sonore non portano allora che tentazioni? E la profondità “dove l'uomo cessa d'essere uomo” non sarebbe che un abisso satanico, dove il poeta che sfugge la plebe sprofonda? E lo “spirito della musica”, che con così insolita tenacia Blok invocava negli ultimi anni di vita, non sarebbe che il semplice demone della poesia? Non possiamo trascurare queste considerazioni nel riflettere a fondo sulle idee di padre Florenskij. “Al mondo tutto è ordinato perché è pari.” Il poeta è il sovvertitore del culto, l'istrione, il profanatore. Il messaggero degli inferi. E nient'altro.

La teologia cerca la comprensione dell'uomo e di tutto l'umano alla luce del pensiero religioso, della “preghiera dell'intelligenza”, la teologia pensa secondo le parole di Paolo: “Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza”(1 Cor. 14, 15); la teologia, ancora, rintraccia la giusta parola su Dio a partire da quanto Egli ha creato, a partire dalla Parola di Dio sugli uomini e le loro opere.

Questo era anche il modo di vedere di Pavel Florenskij. Come mistico ha ragione, e la sua visione e nitida. La cultura è nata dal culto, e il sacerdote, il prete-pensatore aveva non solo il diritto, ma anche la missione di giudicare i frutti della cultura. Tuttavia, nella sua comprensione di Blok, nella sua condanna, ci sono due sostanziali omissioni. Al suo sistema (giacché, nonostante la frammentarietà, la conferenza offre uno sviluppo sistematico del pensiero di padre Pavel) sono sfuggite soprattutto la natura specifica della poesia, e in parte anche la natura degli spiriti cui la poesia blokiana permette piena espressione. Ed è per questo che, per descrivere il fenomeno e persino in parte la sostanza della poesia di Blok, egli ricorre a una citazione di san Massimo:

“Quando lo spirito malvagio della seduzione si accosta all'uomo, disturba la sua mente rendendola selvaggia, inasprisce il suo cuore e lo oscura, ispira timore, paura, orgoglio, corrompe gli occhi, agita il cervello, dà trepidazione a tutto il corpo, pone dinanzi agli occhi una luce illusoria non luminosa e pura ma rosseggiante, rende la mente frenetica e ossessa, le labbra proferiscono parole ribelli e blasfeme”.

Dove e come può sottrarsi alla sfera di queste parole la poesia di Blok, con la sua musica di morte, con la sua vocazione alla rovina? E queste parole avranno almeno pietà di noi, lettori di Blok?

8, 44). Il male, fino a che non è forte abbastanza, si copre con l'inganno. E questa non è una forma ma la sostanza sua stessa. La menzogna e il pathos omicida sono fino a oggi inconfondibile segno della diabolicità. Per questo, dunque, veridico e demoniaco non possono assolutamente convivere tranquillamente nella stessa anima. Come potrebbe infatti un'anima che sfiora i tizzoni infernali conservare in sé la comune onestà e la schiettezza umane?

“Sembra che egli veda il mondo e se stesso in una nudità e semplicità tragiche. Sincerità e semplicità sono per sempre legate in me al ricordo di Blok.” (37) Il tratto fondamentale della sua personalità era uno straordinario coraggio della verità”, dice C'ukovskij. E le testimonianze di questo tipo non si contano.

Non basta: dietro al coraggio pienamente umano si nascondeva dell'altro: ciò che potremmo definire “integrità della parola”, la sincerità del suo stesso linguaggio. La parola blokiana, sia in prosa sia in poesia, non è astuta né teatrale né piena di fronzoli. Essa è estranea persino a quel gioco disinvolto che è tanto naturale nei poeti, soprattutto nei poeti della sua generazione. Scriveva di maschere, ma non nascose mai il proprio volto. Oggi può sembrar strano che un tempo lo si sia definito un decadente anzi, il corifeo dei decadenti: infatti manca in lui ogni stortura decadente. C'era qualcosa di distorto nel periodo blokiano, ma non in Blok stesso. E se i suoi versi ci sono incomprensibili, significa che siamo al di fuori dell'esperienza che narrano. Ma possiamo esser certi che si tratta di un'esperienza autentica, non surrogata da qualche ingenua simulazione mistica o poetica. In un'epoca tanto ricca di finzioni e sostituzioni d'ogni tipo, Blok rimase fedele alla verità che gli perveniva attraverso la musica. Mai ci fu in lui la più innocente bugia, la minima concessione al pittorico.

Alla superficie della vita noi tutti percepiamo le cose in modo distinto: il poeta, il politico, il mistico, l'innamorato. Ma nel profondo sono tutt'uno. Uno “straordinario coraggio della verità” non può fondersi nello stesso cuore né con la falsità poetica né con la malizia artistica. Questo coraggio è inscindibile dalla sincerità e dal coraggio d'ogni singola parola che fa parte della poesia, è inscindibile dall'autenticità di ciò che il poeta serve, dalla veridicità di questo stesso servizio. Il poeta è “l'uomo che chiama tutto per nome”, poiché i nomi veri delle cose sembrano esser celati a noi; è colui che “sottrae l'aroma al vivo fiore” poiché deve trasfonderlo nella. parola e renderlo così eternamente fragrante. Il “coraggio della verità”, la non-malizia della parola, l'autenticità dei nomi di cui il poeta fa dono: tutto ciò è indivisibile e musicale, fragrante e ineguagliabilmente unito.

“[...] forse solo il genio dice il vero; e solo la verità, pur nella sua grevità, è lieve, un "dolce giogo"” (dal Diario).

Questo è il dolce giogo che la poesia blokiana si è assunta; la sua musica è dolce, la sua verità musicale. Solo con la verità e un cuore inerme il poeta può rispondere al giudizio teologico, e a ogni altro giudizio umano. “Restituire la verità, che va scomparendo dalla vita russa, questo è il nostro compito”, annota Blok nello stesso Diario. Questo compito costituisce appunto la sua vocazione, e compone nell'unità lo “scioglimento dei veli”, “l'accoglimento dei suoni nell'anima”, “l'introduzione dell'armonia nel mondo”. Ricondurre la verità al mondo: questa è la missione del poeta.


(continua)


 

1) L'espressione “nome lieto” si trova nella prima frase del discorso di Blok “La missione del poeta”, pronunciato nel febbraio del 1921 in occasione dell' LXXXIVanniversario della morte di Puškin: “La nostra memoria serba fin dalla prima infanzia un nome lieto: Puškin” (tr. it. in A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, Adelphi, Milano 1978, p. 151).

2) A. Puškin, “Non voglia Iddio ch'io perda la ragione” (1833) (tr. it. in A. Puškin, Lirica, Sansoni, Firenze 1968, pp. 417-418).

3) A. Blok, “Guardi negli occhi i limpidi crepuscoli” (1906), poesia del ciclo “Gorod” (La città) (tr. it. in A. Blok, Poesie, Guanda, 1975, pp. 146-147).

4) A. Blok, “Anima mia! Quando ti stancherai di credere?” (1908), poesia del ciclo “Arfy i skripki” (Arpe e violini).

5) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 155.

6) Ibid., p. 153.

7) Ibid.

8) A. Blok, “Tace l'anima. Nel freddo cielo” (1901), poesia del ciclo “Stichi o Prekrasnoj Dame” (Versi sulla Bellissima Dama).

9) “La plebe esige che il poeta serva ciò che essa stessa serve: il mondo esterno; esige da lui "l'utilità", come dice, semplicemente, Puškin; esige che il poeta “spazzi le strade", "illumini i cuori dei confratelli" ecc.” (A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 157).

10) Cfr. n. 2.

11) A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 152.

12) Ibid., p. 156

13) Cfr. n. 2.

14) A. Blok, “La maschera di neve” (1907).

15) “Ed all’anima stanca insegna, mentre lento
s'impossessa del sangue il brivido del gelo,
che non le serve a nulla questo pianeta spento,
perché i raggi vengono dal cielo.”
Questi versi di Blok si trovano nella poesia “Tutto muore al mondo, madre e giovinezza” (1909), inserita nel ciclo “Arfy i skripki” (Arpe e violini) (tr. it. in R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Mondadori, Milano 1968, p. 334; l'espressione che il Poggioli traduce con “cielo” (ottuda), è stata da noi resa con “di là” per mantenere l'indefinitezza su cui insiste Zelinskij). Ndt

16) “Segreta libertà” è una delle espressioni chiave dell'ultimo vocabolario blokiano, presa a prestito da Puškin:
“Amore e segreta libertà
al cuore dettano un inno schietto”.
(Cfr. A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p 159).

17) K. Mos'ulskij, Aleksandr Blok.

18) A. Blok, “Là dove echeggia nelle lunghe sale” (1910) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit., pp. 302-303).

19) A. Blok, “Sul campo di Kulikovo” (1908) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit. pp. 190-191, ecc.).

20) Ibid., pp. 196-197.

21) Ibid.

22) Ibid., pp. 190-191.

23) Ibid., pp. 196-197.

24) G. Fedotov, Na pole Kulikovom (Sul campo di Kulikovo).

25) A Block, “Morte”, poesia del ciclo “Vol'nye mysli” (Liberi pensieri) (tr. it. in R. Poggioli, op. cit., p. 299).

26) Ibid., pp. 300-301.

27) Ibid., pp. 299.

28) Ibid., p. 303.

29) Cfr. n. 2.

30) “Vestnik russkogo christianskogo dviženija” (Messaggero del movimento cristiano russo), n. 114, Parigi.

31) A. Blok, “Alla Musa” (1912) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit., pp. 346-347).

32) N. Koržavin, “Igra s d'javolom”, in “Grani” (Confini).

33) A. Blok, “O sovremennom sostojanii russkogo simvolizma” (Lo stato attuale del simbolismo russo) (1910).

34) A. Blok, “O drame” (Il dramma).

35) A. Blok, “Ironija” (L'ironia).

36) A. Blok, “Sud'ba Apollona Grigor'eva” (Il destino di Apollon Grigor'ev) (1915).

37) V. F. Chodasevi…, Nekropol’.


(Questo testo è stato pubblicato in Russia Cristiana, VI, 1981, 2 (176), pp. 18-33)

 

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