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Venerdì, 03 Maggio 2024 11:54

La tristezza (Arnaldo Pangrazzi)

Lo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung scriveva che: «La parola felicità perderebbe il suo significato se non fosse bilanciata dalla parola tristezza», mentre Charlie Chaplin suggeriva che: «La vera felicità è qualcosa di molto vicino alla tristezza».

La tristezza ricopre un ruolo significativo nell'esistenza personale e nel vissuto sociale. Anche Gesù l'ha provata per la morte dell'amico Lazzaro: «Scoppiò in pianto» (Gv 11,35).
In alcune culture e famiglie, però, questo sentimento non ha ricevuto una buona accoglienza, è considerato un qualcosa di negativo, quasi una manifestazione indesiderabile della persona.
Alcuni adolescenti che provano momenti di sconforto sono stati redarguiti dagli adulti con frasi del tipo: «Non fare la donnicciola»; «Gli uomini non piangono», complicando la percezione e gestione di questo stato d'animo.
Pedagogie dettate dall'ignoranza hanno indotto a ritenere che provare tristezza sia segno di immaturità, debolezza e fragilità, per cui questa energia è rimasta, spesso, orfana di accoglienza o segregata agli arresti domiciliari.

Il "dolore dell'anima"

Lo psicologo tedesco Erich Fromm riteneva che «non si può essere profondamente sensibili in questo mondo senza essere molto spesso tristi».
Ognuno sperimenta tristezza in diversi momenti e per tante ragioni: un giorno piovoso, problemi famigliari, critiche ingiuste, tradimenti affettivi, torti subiti. Si può provare tristezza quando nessuno ti ascolta, o quando non c'è chi si ricordi del tuo compleanno o ti mostri affetto.
Talvolta, questo stato d'animo nasce dal non saper comunicare con gli altri. Alcuni sono in pena per opportunità perdute, quali: fare un viaggio, accettare un'offerta lavorativa, esplorare un legame affettivo. Altri si rattristano per fallimenti scolastici o sportivi, disastri finanziari o affettivi. Spesso, la tristezza viene a galla per notizie riguardanti le vittime di un terremoto, il suicidio di un giovane, la scomparsa di una famiglia per incidente stradale, il congedo dalla vita di anziani senza il conforto dei propri cari.
In sintesi, non si può vivere senza sperimentare momenti o eventi che producono tristezza. San Tommaso la definiva: Il dolore dell'anima.
La famiglia della tristezza abbraccia tante voci, alcune più tenui, altre più intense. Tra le espressioni più tenui si registrano: la malinconia, il dispiacere, lo scoraggiamento, la nostalgia, la noia, il senso di abbandono, lo sconforto, la mestizia, lo struggimento.
Le espressioni più intense includono il senso di vuoto, la prostrazione, la desolazione, l'amarezza, lo strazio, la depressione, la disperazione.
Ovviamente, man mano che si intensifica il sentimento e si trasforma in depressione e/o disperazione diventa più tortuoso il cammino per superarla o mitigarla.
La tristezza è un'emozione che si avverte, in particolare, per la mancanza o perdita di qualcuno e rivela il valore degli attaccamenti e il prezzo inevitabile dei distacchi. A volte, sullo sfondo di questo sentimento predominante si annidano abusi sessuali, una madre depressa, un padre dipendente dall'alcol, litigi di coppia o vissuti di separazione che hanno segnato la biografia dell'individuo.

Il vissuto del cordoglio

In generale, gli eventi luttuosi producono tristezza, solitudine e sconforto; molto dipende dall'intensità del rapporto con il defunto. Non si è tristi perché si è deboli, ma perché l'investimento emotivo produce ferite.
Nel vissuto del cordoglio, ci si sente tristi quando si guarda la sedia vuota o si ascolta il rumore assordante del silenzio. Talvolta, basta udire una canzone amata dal proprio caro per far sgorgare le lacrime, o rivedere i suoi amici, per avvertire un vuoto straziante, o passare accanto ad un luogo da lui frequentato, per sentirsi invasi dalla nostalgia.
L'assenza acutizza la differenza con altri; per questo i genitori che hanno perso un figlio non sopportano di incontrare altre coppie che godono la compagnia dei loro figli, così come una vedova prova disagio nel ritrovarsi con gli amici sposati, o una donna che ha perso la propria creatura in gravidanza evita il contatto con chi ha realizzato il sogno di maternità.
La tristezza è come l'olio che viene versato sulle ferite per elaborare il lutto: permette di ricordare e affermare il legame profondo e, allo stesso tempo, allena a un cruciale viaggio nella solitudine prima di reinvestire le proprie capacità affettive verso altre persone e determinati scopi.

Arnaldo Pangrazzi

(tratto da Missione Salute, n. 5/2021, pag. 64)

 

Il progetto di crescita umana comporta il travaglio di accettare le perdite che segnano la vita. Per qualcuno queste sono diradate nel tempo; per altri il distacco giunge come uno tsunami. Alcuni ritrovano la motivazione per andare avanti, altri si smarriscono poiché sono dotati di insufficiente autostima.

Ognuno di noi ha diversi lutti e sfide da affrontare. L'elaborazione di un distacco e la graduale guarigione del cuore si realizza attraverso quattro possibili percorsi, che hanno molto a che vedere con il carattere del soggetto, il tipo di perdita subita e le risorse disponibili.

Il primo percorso è l'auto aiuto: si fonda sulla capacità della persona di attingere alle proprie risorse mentali, psicologiche e spirituali nel far fronte ad una vita cambiata. Di solito, quanti superano da soli la perdita tendono ad avere un buon livello di fiducia personale, sanno canalizzare bene le proprie energie, possono contare sul sostegno di amici e possiedono adeguate risorse spirituali nel far fronte alle avversità.

Ci si aiuta facendo pace con il passato, interpretando al meglio i ruoli familiari o professionali, facendo leva sui propri doni, praticando attività sportive o artistiche, coltivando il contatto con la natura, comunicando con gli altri, vivendo bene con il silenzio.

Il secondo percorso è il supporto psicologico e professionale. Per qualche persona la perdita è troppo dolorosa, e per affrontarla c'è bisogno di uno psicoterapeuta, uno psicologo o un sacerdote, che aiuti a percorrere i labirinti mentali, emozionali e spirituali turbati dal vuoto prodotto. L'aiuto psicologico e/o spirituale può protrarsi per mesi o per anni, ma intanto consente a chi è in lutto, attraverso il dialogo e il confronto con qualcuno disposto ad ascoltarlo e sostenerlo, di percorrere un graduale cammino di guarigione.

Un terzo percorso riguarda l'aiuto medico e/o farmacologico. L'afflizione generata da un'assenza significativa scombussola l'organismo e la salute fisica e psichica dei superstiti. Alcune morti avvenute per suicidio, omicidio o incidente stradale, risultano cosi strazianti che un congiunto può trascorrere notti insonni, tormentato da domande che lo consumano, o può entrare in depressione. In queste circostanze si rende necessaria una visita medica o psichiatrica, per valutare la situazione e prendere le opportune contromisure: il medico o lo psichiatra suggeriscono l'opportuna dose di ansiolitici, antidepressivi o sonniferi da assumere, per ristabilire l'equilibrio e aiutare il soggetto a riprendere in mano la propria vita.

Un quarto percorso consiste nella partecipazione a gruppi di mutuo aiuto nelle perdite e nei lutti. Questi sono formati da persone che hanno sperimentato la perdita di una persona cara e si incontrano per condividere con altri la propria esperienza. Lo scambio allevia la solitudine, permette di sperimentare nuove forme di appartenenza e contribuisce a far crescere la fiducia in se stessi.

Modelli di sostegno

I precursori di questo modello di sostegno comunitario sono i gruppi AA (Alcolisti Anonimi) sorti negli USA più di 70 anni fa la cui metodologia, fondata sulla reciprocità, ha favorito la proliferazione di questo modello di aiuto applicato a un'infinità di crisi, bisogni e fragilità.

Il ventaglio dei gruppi di mutuo aiuto, include gruppi per disabili, separati e divorziati, malati di cancro, tossicodipendenti, dipendenti dal gioco di azzardo, persone depresse, dializzati, vedovi, familiari di suicidati, malati di cuore, genitori che hanno perso i figli, familiari di colpiti da Alzheimer e così via. Ogni gruppo ha la sua identità, i suoi obiettivi, un calendario di incontri e strategie per rispondere ai bisogni dei partecipanti. Questo modello di aiuto si è andato diffondendo nella società e nella Chiesa, in parte anche per colmare il vuoto di servizi o di professionisti disponibili a fornire supporto, dinanzi ai tanti problemi sollevati da vissuti luttuosi.

La persona chiave nell'attivazione, promozione e animazione del gruppo è rappresentata dal facilitatore che è generalmente un professionista (psicologo, psicoterapeuta, medico, sacerdote, educatore, assistente sociale...) sensibile al problema e motivato a creare le condizioni per questa forma gratuita di sostegno reciproco finalizzato alla guarigione.

Arnaldo Pangrazzi

(tratto da Missione Salute, n. 4/2019, pag. 64)

 

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Sabato, 13 Gennaio 2024 11:35

La caduta e la redenzione (Giovanni Vannucci)

Prima che qualunque germe dei campi esistesse sulla terra, prima che l'erba del suolo spuntasse, non facendo il Signore Dio ancora piovere, e non esistendo l'uomo per far salire canali d'acqua ad abbeverare la faccia del suolo, il Signore Dio formò l'uomo dalla polvere del suolo, e soffiò sulle narici un alito di vita. E l'uomo fu anima vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino nell'Eden, verso l’Oriente, e là pose l'uomo che aveva formato. E il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni albero dall'aspetto desiderabile, e buono a mangiarsi, e, nell'interno del giardino, l'albero della vita, e l'albero della conoscenza del bene e del male.

Genesi 2, 5-9

 L'immagine centrale del racconto è il giardino, creato nel mezzo ad una zona chiamata Eden; in assiro la parola “Idinu” che sta alla radice dell'ebraico Eden, significa steppa. L'immagine viene ad essere così strutturata: nella steppa (Eden), nello spazio arido e privo di vita Dio crea la vita, affascinante e buona. In questa oasi colloca l'uomo plasmato dalla terra. L'uomo è creato con un ritmo ascensionale, prima viene formato il corpo fisico dalla materia cosmica, poi viene animato dal soffio divino che lo rende anima vivente. L'uomo non è materia, ma la materia che lo compone nella sua parte fisica, per l'animazione dello Spirito divino, è un'unità vivente. L'uomo non è soltanto un corpo vivente, ma un'anima, resa vivente dal soffio divino.

 ♦ Il Signore Dio prese l’uomo e lo collocò nel giardino di Eden perché lo servisse e lo custodisse. E il Signore Dio comandò all'uomo: “Da ogni albero del giardino mangerai, ma dall'albero della conoscenza del bene e del male non mangerai, perché nel giorno in cui ne mangerai lentamente morrai

Genesi 2, 16-17

 Evidentemente, il giardino non è una dimensione geografica, ma una dimensione dove l'uomo viveva la pienezza pacificante dell'essere, incontrava Dio e le creature in amichevole dialogo, fatto di attenzione amorosa, di conoscenza rispettosa, di servizio, perché crescessero armoniosamente nella gioia.

Nel giardino l'uomo si trovò posto come su una vertiginosa cima, i cui fianchi erano l'ordine di Dio di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, e la suggestione di una volontà ebbra di autonomia. Obbedendo a Dio, l'uomo sarebbe rimasto nella condizione paradisiaca della comunione totale col visibile e l'invisibile; seguendo la volontà ribelle, sarebbe decaduto da questo stato di non-conflitto, e diventato schiavo della lotta e della separazione.

Il coltivare e il custodire il giardino, erano per l'uomo l'espressione della sua realtà di comunione: con amore umile avrebbe dovuto servire gli esseri creati, prolungando, nell’esistenza sensibile, l'azione creatrice di Dio. Alla sua mente le creature erano segni di realtà sacre, espressione del mistero della manifestazione nell’increata luce divina.

Per questa interiore armonia, l'uomo poteva imporre alle creature il vero nome, quello che pronunciato da Dio, assume in loro una forma visibile.

 ♦ E il Signore Dio formò dal suolo ogni bestia dei campi ed ogni essere alato dei cieli. Li condusse all'uomo, per vedere che nome avrebbe loro imposto, e il nome scelto dall'uomo per ogni singolo vivente sarebbe stato il suo nome. E l'uomo gridò i nomi per le bestie, per gli uccelli dell'aria, per ogni creatura della campagna.

Genesi 2, 20

Funzione sacerdotale questa, di fissare con la conoscenza e la parola, il compito sacro di ogni vivente. Era questa la forma in cui doveva esprimersi il dominio dell’uomo sulla terra. Dominio di conoscenza e di servizio alla vita, di amore e di gioiosa collaborazione all’opera di Dio. Lo sguardo puro dell’uomo, prima della caduta, vedeva la presenza unificatrice di Dio nella pietra e nella pianta, nella notte e nel giorno, nella nascita e nel declino maturo, nell'alba e nel tramonto, nell’uomo e nella donna, nel manifesto e nel non manifesto. Guardava il minerale e la pianta, l'animale e l'uomo, e ne scorgeva il vincolo d'amore che tutto ricomponeva nell'unità. Ed ogni realtà naturale era un segno sacro, un geroglifico che rivelava l'amore e la sapienza creatrice. Tutto gli appariva come un linguaggio divino, un armonioso discorrere che rivelava l'inesprimibile volto di Dio.

L'uomo capiva ed amava, l'amore era via a più perfetta conoscenza, la conoscenza il cammino a più pieno amore.

Vedeva il minerale, la pianta, gli uomini, nella loro forma divisa e nella loro realtà indivisa, e il nome che ad essi imponeva corrispondeva alla loro intima essenza, al loro compito ricevuto come servizio alla creazione.

Sapeva che il più umile fiore, nel breve giro della sua esistenza, accresce per sempre il patrimonio della bellezza di tutto il creato; che la bellezza non è l'utilità funzionale di una cosa ma quel soprappiù aggiunto che rivela la verità dell'incontro dell'uomo col cuore delle cose. La verità delle creature non era nel riscontrarle adeguate agli schemi della ragione meccanica che tutto divide e misura secondo criteri quantitativi, ma nel vederle nel loro aspetto sacramentale, mediante una più profonda intelligenza amorosa. La bontà degli esseri non gli appariva nella loro corrispondenza a categorie utilitarie, ma nel loro inserimento nell'ascendente corrente creatrice.

Questa conoscenza profonda, era il frutto del rispetto dell'albero della conoscenza del bene e del male. L’ordine divino che proibiva la consumazione del frutto, esigeva che l'uomo mantenesse intatta la sua comunione di vita e di servizio coll'universo. Mangiare il frutto, voleva dire l'intromissione delle mani ribelli e violente nell'ordine armonioso del cosmo; il tentativo di diventare loro arbitro, come Dio stesso; la sostituzione della propria volontà ribelle e assetata dall'avventura dell'indipendenza a quella armoniosamente rispettosa dell'intimo tessuto del creato.

Per la coscienza in comunione, non esisteva un universo razionale opposto ad un universo metafisico; una conoscenza oggettivante ed una conoscenza dell'unità del tutto; una ragione logica ed una mente intuitiva; ma per essa c'era Dio, la Parola, lo Spirito e la gioiosa ascesa degli esseri creati. Non esisteva separazione, ma la Parola che portava luce e forma al caos, lo Spirito che vi donava amore e fecondità. Non esistevano le due rive di un fiume, ma un universo in cui fluiva lo Spirito e la Parola, ed il loro passaggio diffondeva vita e gaudio di vita più abbondante.

Ma per l'uomo non fu trovato un aiuto che fosse la sua parte complementare. Allora il Signore Dio fece calare su Adamo uno sbigottimento e si addormentò. Il Signore prese una delle sue costole, e richiuse l'apertura con la carne. E con la costola, il Signore edificò la donna, e la fece venire verso l'uomo. E Adamo disse “Questa volta: osso delle mie ossa, carne della mia carne. Sarà chiamata Isha uoma perché dall'uomo Ish essa fu presa. Per questo, l'uomo lascerà suo padre e sua madre, e alla sua donna aderirà; e saranno una carne”.

Genesi 2, 20-25

Nel primo capitolo, Dio non crea separatamente l'uomo e la donna, ma l'uomo, che, come cellula umana originaria, racchiude in sé l'umanità maschile e l'umanità femminile.

Nel secondo capitolo, la donna viene separata dall'uomo, perché l'unità propria delle cose “nel principio” si attui sul piano dell'esistenza nel tempo.

L’uomo, risvegliandosi dal sonno, davanti alla sua compagna, erompe nel primo canto lirico che nasce dalla gioia di avere scoperta la sua parte integrante che lo libera dalla solitudine e, facendogli raggiungere la pienezza dell'essere, lo aiuta a compiere l'opera di “dominare” tutti gli esseri con il gesto pacificante di chi ha raggiunta la compiuta armonia delle sue forze vitali. L'umano maschile e l'umano femminile sono creati da Dio per attuare nello spazio del visibile e del limitato la perfezione della vita divina. L'armonioso incontro dell'umano maschile e dell'umano femminile, nel pensiero divino, avanti la separazione, era il segno, il geroglifico, della compiutezza della realtà divina.

Ma il serpente era astuto e nudo fra tutte le bestie del campo che il Signore Dio aveva creato.

Genesi 3, 1

Nell'innocenza della terra paradisiaca, si muoveva una potenza ostile, che la Bibbia chiama “il serpente”.

Le sue caratteristiche sono espresse, nella lingua originale, con il vocabolo “arum” che significa “astuto e nudo”.

Il serpente biblico è l'essere nudo, privo della luce propria della coscienza in comunione, ha una sua luce astuta. L'astuzia è la conoscenza che nasce dall'avidità ed è contrapposta alla sapienza. La sapienza vede le creature con occhio non avido, e le conosce nella loro realtà ultima: essenziale ed esistenziale; vede il fenomeno ed il mistero che racchiudono. L'astuzia, invece, guarda le cose con l'avido sguardo del rettile, cerca di capire per carpire. È il prolungamento, sul piano della conoscenza, della volontà di dominio, ed è figlia della vacuità interiore.

La vacuità nasce dalla frattura della comunione con gli esseri, spinge il cuore verso il possesso delle cose esteriori, sconvolgendone l'armonioso ascendere. La scienza si trasforma in conquista per asservire; l'amore, da pienezza interiore, diventa eros, figlio della penuria; e l'uomo stende le mani verso gli esseri, sperando di colmare il suo interiore vuoto. Dio stesso diventa, per l’uomo avido, inquietudine del cuore, non più gioiosa pienezza che sazia ed inebria.

“Quando la coscienza raggiunse il grado dell’intelligenza la sua prima espressione fu quella del serpente astuto. Le elementari manifestazioni della capacità di concepire, distinguere, analizzare furono al servizio della forza espansiva della vita: è il serpente dell'istinto del dominio. Tutta la rabbiosa avidità di questo primo stadio della coscienza analitica, si risvegliò quando apparve lo stadio successivo: quello dell'intelligenza cosmica, che si dischiude disinteressata, e tuttavia viva per una passione divorante, sulla bellezza ed i misteri del cosmo. A questo punto, il primo stadio, il serpente, non ha niente di più stimolante del seminare nel secondo, l'uomo, i germi della confusione. Il serpente è di sangue freddo come un calcolatore, l'uomo è di sangue caldo come l'idealista” (Meyer Sal).

Il serpente disse alla donna: Perché Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?”. La donna rispose: Noi mangiamo dei frutti dell'albero del giardino; ma del frutto dell'albero che è dentro al giardino Dio ci ha detto: “Non ne mangiate e non ne toccate, altrimenti morirete"”. Il serpente disse alla donna: - Morire! Voi non morrete! Dio sa che il giorno in cui ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e sarete come Dio, conoscitori del bene e del male”. La donna vide che l'albero era buono per esser mangiato, affascinante a vedersi, concupiscibile per l'intelligenza. Prese del frutto e ne mangiò, lo diede all'uomo che era con lei, e lui mangiò. I loro occhi si aprirono e videro di esser nudi. Allora sentirono il rumore del Signore Dio che veniva nel giardino al soffio del vespero, e si nascosero, l'uomo e la donna, davanti al Signore Dio, nell'interno degli alberi del giardino. E il Signore Dio gridò all'uomo dicendo : Dove sei?E l'uomo rispose: Ho sentito il tuo rumore nel giardino ed ho avuto paura, essendo nudo e mi sono nascosto”. Dio fece per l'uomo e per la donna delle tuniche di pelle e li rivestì... Il Signore Dio espulse l'uomo dal giardino dell’Eden e l’allontanò, pose all’oriente del giardino dell’Eden i cherubini e la fiamma della spada turbinante per impedire il cammino verso l’albero della vita.

Genesi 3, 1-9,21,24

Il comando divino proibiva all’uomo di stendere le mani sul frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e di mangiarne.

Mangiare, è impossessarsi di una cosa, togliendole il suo specifico essere. Mangiare il frutto della conoscenza significava impossessarsi, per far propria, sradicandola dal suo ordine divino, la conoscenza. Col gesto del mangiare l’uomo veniva a sostituire il suo arbitrio alla volontà divina, a dare un suo ordine all'universo. Il germe dell'avidità del possesso entrava così nel cuore dell'uomo, alterando tutti i suoi rapporti col visibile e con l'invisibile. La sapienza, che nasceva dalla partecipazione attenta, della mente e del cuore, al mistero dell'essere creato, si deformò in accaparramento astuto delle creature, finalizzandole al rendimento, all'interesse, ma dimenticandone la realtà sacra.

La coscienza ribelle non sente più Dio come la Presenza che scende nell'ora della brezza vespertina per conversare con i suoi figli, ma come la Potenza ostile che maledice e condanna davanti alla quale bisogna nascondersi tremebondi. “Perché hai fatto questo, tu sei maledetto… accrescerò le tue sofferenze... la terra produrrà triboli e spine... mangerai col sudore della tua fronte ” (Genesi 3, 13-19).

Il veleno del rettile ha dissacrato lo stato d'innocenza paradisiaca, tutto è divenuto ostile all'uomo. I termini, chiamati alla comunione, si sono trasformati in poli di contraddizione. Invece di comunicare con la terra, gli animali, le piante, gli esseri creati, l'uomo si scopre solo, in mezzo a delle forze ostili. La terra gli è nemica, Dio non lo riconosce più, il tempo segna solo la data del nascere, del patire e del morire, lo spazio accresce la solitudine. L'uomo decade dal campo visivo di Dio, scende nella tenebra non rischiarata dalla luce della Presenza divina, nella sua notte; e Dio gli chiede: “Dove sei?”. Le creature, per la consumazione del frutto della conoscenza del bene e del male, sono diventato geroglifici di cui si è perso la chiave. Tutto il creato è sottoposto alla corruzione ed attende che l'uomo ritrovi la perfetta natura dei figli di Dio (Romani 8, 21).

Le creature si sono irrigidite e fatte ostili, scoprendosi private di quell'amore che doveva guidarle a raggiungere la perfetta fioritura del loro nome sacro.

Il creato non è più un universo sacramentale, segno visibile della Presenza invisibile, ma la dimensione dove si esercitano gli umani desideri di possesso. L'istinto del possesso ha distrutto il vero rapporto con le creature. L'attenzione alle realtà create, spostato il centro naturale del cuore dell'uomo, che era il volere divino, è stimolata solo dall'interesse che possono racchiudere o suscitare; ed esse non vengono più avvicinate con amore per quello che sono, ma per quello che hanno o possono avere. E l'universo e stato dissacrato dall'avidità, dalla sete del possesso e del potere. Prima del peccato, conoscere le creature significava vivere con esse, accoglierle, soffrire, gioire con loro. Dopo, non sono più comprese dall'uomo in se stesse ma in funzione di se stesso. Per questo, l'uomo ora vive nel mondo delle realtà create ignorandone il mistero che le rende reali. La mente separata ha ucciso la capacità di comunione, ha creato la mente, per la quale la bilancia è lo strumento di valore ed ogni cosa ha il suo controvalore, la sua contropartita, e riduce il mistero dell'essere creato a quantità e misura. L'uomo decaduto vede soltanto l'universo quantitativo, tutto misura con occhio avido: il bello, il vero, il sacro, il buono.

 

Il simbolo uomo-donna che “nel principio” costituiva l'immagine visibile dell'Invisibile, fu spezzato dal diabolos, la potenza funesta che separa quello che Dio unisce e torna con infinita pazienza a riunire. Prima del peccato Dio parla sempre all'uomo e alla donna insieme; il serpente, invece, parla alla donna separatamente; dopo il peccato l'uomo non sente la donna come parte della sua carne, ma come separata ed ostile: “La donna che mi hai dato mi ha offerto il frutto ed io ho mangiato” (Genesi 3, 12). Il peccato ha separato e reso ostili quelle parti che Dio aveva creato ed unito come l'immagine della sua pienezza. Esse, insieme, dovevano esprimere il mistero dell'essere; insieme, dovevano essere riconoscibili da Dio; insieme, erano la sorgente del bene e della vita di tutte le creature mediante il servizio prestato insieme. Il peccato ha distrutto la comunione, il reale è ritornato caotico, la cattedrale un mucchio di sassi.

Il peccato è la frantumazione del movimento ascensionale degli esseri, è la divisione, la separazione delle parti che dovevano combaciare in una superiore pienezza di vita e di gioia. La comunione dell'umanità maschile e dell'umanità femminile, non era un gioco di istinti avidi di possesso, ma arricchimento reciproco, gioia feconda, scoperta della luce visibile ai cuori non separati e alle intelligenze non diventate laboratorio del diavolo.

La donna non era oggetto di possesso, ma la compagna con cui l’uomo compiva il suo cammino di ascesa, la persona che gli offriva i doni sacri dell'amore, della misericordia, dell'amore alla vita. L'incontro con la donna, costituiva il risveglio della coscienza personale, dell'uomo la liberazione da tutte le chiusure narcisistiche, la scoperta del proprio io creatore e paterno.

“Nel principio” i due sessi non erano polarità opposte, ma complementari; l’incontro era un reciproco superamento dell'età infantile e l'inizio di un ciclo di ascesa personale nell'amore e nella coscienza. E la pienezza dei due si riversava, in ondate di vita e di gioia, per l'elevazione di tutti gli esseri.

L'avidità ha reso l'uomo chiuso nel suo egoismo, profanato la donna. Da qui discende l'incomprensione e l'ostilità dei due, l'umano maschile guarda con ostilità l'umano femminile. Da creature chiamate a raggiungere la piena fioritura dell'essere nell'amore e nella pienezza dell'immagine di Dio, son divenute solitarie ed ostili, chiuse nell'angoscia, nella noia, nel tedio della vita.

La caduta dell'uomo, ebbe, come conseguenza, l'allontanamento dal suo posto e dalla sua missione di mediare le forze divine agli altri regni della natura. La porzione animale dell'uomo divenne ostile al suo centro, cominciando a far vibrare in senso inverso quelle forze vitali che dovevano trovare armoniosa compostezza nel cuore in comunione. Nacque così una stirpe sconvolta da istinti disordinati e caotici: ferocia, rapacità, crudeltà, gelosia, stupidità, sensualità.

L’uomo, chiuso nel breve spazio del suo piccolo “io”, divenne lontano da Dio, ed essendo Dio la Presenza che tiene in comunione tutto ciò che esiste, fu facile preda della più desolante solitudine. Per questa trasmutazione del suo essere, l'uomo fu espulso dalla terra intatta del giardino, e collocato in quella dell'ostilità e della maledizione. Non perché Dio maledica essendo Amore e Vita, ma perché l’uomo ha scelto la non-comunione e la separazione.

Il giardino era la terra del collegamento dei contrari in Dio, attraverso la coscienza umana: il Visibile era segno e via all’Invisibile, l’Invisibile era la sorgente del fiume e il mare che ne placa l'impetuoso fluire; la carne nasceva dallo Spirito e in esso moriva per ascendere a vita più perfetta.

Il cambiamento è avvenuto nell'essere interiore dell'uomo; l'ostilità e la durezza della natura ne sono la conseguenza; non l'effetto di una maledizione. È il peccato di avidità che crea lo spazio della maledizione. L'uomo ha così vergogna del suo essere deformato, spoglio di saggezza, inaridito nell'amore di se stesso. “Mi sento scoperto, ignudo, ed ho avuto paura” (Genesi 3, 10).

Il tedio della vita, la nausea, la noia dell'esistere, nascono dal ripiegamento, su se stesse, di quelle energie che dovevano guidare l'uomo alla gioia dell'ascesa.

♦ Insieme alle gravi parole che descrivono la condizione dell'uomo, della donna, della terra, nella sfera della maledizione, ve ne sono alcune che aprono il varco alla speranza: “Porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua discendenza e quella della donna; la sua progenie ti triterà la testa, e tu le ferirai il calcagno

(Genesi 3, 15).

L'apparenza sensibile del creato, rimarrà per l'uomo illusione, incanto che stordisce, gorgo che affascina e inghiotte. L'uomo sarà sempre tentato e ferito dall'avere, dalle forze demoniache del possesso e del potere.

Ma in mezzo a tutti gli orrori della storia, il Signore Dio ha continuato il cammino nel cuore umano e il suo passaggio è sempre contrassegnato da più umanità, più amore e più vita. Il suo cammino ha la tenerezza dei procedimenti graduali. Costantemente, pazientemente, ha ricostruito l'uomo integro, nel cuore dell'umanità smarrita; e il frutto dell'amoroso passaggio di Dio è Gesù, il Verbo che ha preso carne nell'intatto giardino del seno di Maria.

In lui l'uomo ha ripreso la sua ascesa, anche se con lenti movimenti geologici; le forze redentrici di Cristo tessono nella terra Comunione e Amore. Esse di nuovo saldano nel cuore umano il cielo e la terra, ne modificano la struttura fisica, estinguono l'uomo animale trasformando la carne in energia radiante dell’amore divino.

E l’uomo ritrova in Cristo la via del ritorno che è negazione del proprio io egoistico, non violenza, non amore di sé, non possesso, non avere, ma amore, offerta di sé nel servizio alla vita attenzione appassionata al mistero dei singoli esseri, incontro con Dio in tutto ciò che vive ed ascende, offerta della mano amica a tutti, cuore aperto e traboccante dei doni di pace e di fiducia.

L'uomo, in Cristo, risorge dalla sua tomba. Ritrova il ritmo originale del suo essere: più coscienza, più amore, più libertà.

Giovanni Vannucci

 

 

Pubblicato in Maestri Contemporanei
Domenica, 15 Agosto 2021 19:13

La contemplazione perduta

La dottrina del peccato originale non è un ingombrante relitto del passato di cui dovremmo liberarci al più presto, come alcuni sostengono. Al contrario, ha molto da insegnare all’uomo contemporaneo, ma bisogna purificarla dagli equivoci e dai fraintendimenti che gravano su di essa. Occorre innanzitutto distinguere tra il dogma, così come è stato ratificato dal Concilio di Trento nel XVI secolo, e il racconto della caduta di Gen 2,4b-3,24. Il racconto in sé è un capolavoro sapienziale che descrive la dinamica del peccato, spiega in modo straordinariamente dettagliato e preciso cosa avviene quando l’uomo cade, ma è stato offuscato e deturpato dal dogma. Paul Ricoeur lo afferma in maniera categorica: «Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alla cristianità l’interpretazione letterale, bisognerebbe dire “storicistica”, del mito di Adamo; essa lo ha fatto cadere nella professione di una storia assurda e in speculazioni pseudo razionali sulla trasmissione quasi biologica d’una colpevolezza quasi giuridica per l’errore di un altro uomo, respinto lontano nella notte dei tempi, non si sa bene dove, tra il pitecantropo e l’uomo di Neanderthal. Contemporaneamente il tesoro nascosto del simbolo adamitico è stato sperperato» (P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni). L’interpretazione di cui parla Ricoeur imprigiona l’uomo in una condizione paradossale in cui egli è colpevole di tutto – anche di colpe non sue, commesse da ignoti antenati – e non è responsabile di niente: «Dannati senza colpa e redenti senza merito», così Vito Mancuso descrive questa condizione. Un cristianesimo autentico e coerente, al contrario, dovrebbe rendere l’uomo sempre più maturo, adulto e consapevole. È auspicabile che il dogma venga al più presto rivisto e aggiornato, non nella sostanza, certo, ma nella forma, giacché questa – come sostengono Walter Kasper e altri – risente inevitabilmente delle contingenze storiche e culturali in cui è stata espressa.  

 

«CHIUNQUE RIMANE IN LUI NON PECCA» (1GV 3,6)

Il racconto della caduta può essere letto in diversi modi. L’interpretazione classica considera la caduta come ὕβϱις o peccato d’orgoglio: è l’illusione autarchica di vivere nella completa indipendenza da Dio, di diventare arbitri assoluti della propria esistenza. Una seconda interpretazione vede il peccato originale come concupiscenza, cioè come desiderio che non accetta limiti, che vuole tutto e subito. La concupiscenza non riguarda solo la sessualità ma interessa ogni ambito della vita umana; si può cadere nella concupiscenza, per esempio, quando si legge un libro, si scrive un articolo o si parla con un amico e si è presi dalla frenesia di dire tutto, di spiegare ogni cosa. Nella Genesi questa concupiscenza è espressa dal “merismo” bene-male, che rappresenta la totalità del reale: all’uomo non è dato conoscere l’intera realtà, soprattutto se si intende l’espressione nel senso ebraico, come conoscenza unitiva («non conosco uomo»). Notare che la concupiscenza è strettamente legata al problema della scelta: “voglio tutto, prendo tutto” equivale a “non scelgo niente”. 

Una terza chiave di lettura – molto mistica, profondamente spirituale – è quella proposta dall’Anonimo autore de La nube della non conoscenza, straordinario trattato di mistica medievale tuttora considerato tra i migliori nel suo genere. L’Anonimo interpreta la caduta come rottura o cessazione dello stato contemplativo. A suo avviso, l’uomo pecca quando smette di contemplare Dio, secondo quanto leggiamo in 1Gv 3,6: «Chiunque rimane in lui non pecca». Prima del peccato tutti gli impulsi della volontà convergevano su Dio. Il peccato originale sarebbe allora una sorta di distrazione della volontà, in seguito alla quale le energie e le facoltà umane si disperdono in mille rivoli. L’uomo non è più padrone degli impulsi della propria volontà e li vede sistematicamente inclinare verso il male. Ciò si manifesta soprattutto nella straordinaria difficoltà di disciplinare l’immaginazione, in quell’incessante chiacchiericcio mentale contro cui il contemplativo deve strenuamente combattere. 

Ma c’è una conseguenza ben più nefasta della confusione mentale: allontanandosi da Dio, “disobbedendo” a lui, l’essere umano comincia a sprofondare nella follia. Lo si vede nella risposta insensata che la donna dà al serpente quando questo le domanda se è vero che Dio ha proibito di mangiare i frutti di ogni albero del giardino. No, ribatte la donna: possiamo mangiare di tutti gli alberi, tranne di quello che sta in mezzo al giardino, e anzi non dobbiamo neanche toccarlo, altrimenti moriremo (Gen 3,1-3). Ma in mezzo al giardino non c’è l’albero della conoscenza del bene e del male, del quale non è concesso cogliere il frutto, bensì l’albero della vita (Gen 2,9). Irretita dai ragionamenti capziosi del serpente, la donna commette un errore disastroso: scambia di posto i due alberi del giardino. Nella sua mente si insinua così l’idea che Dio sia colui che si oppone alla vita, che impedisce all’uomo di vivere. È il capovolgimento della realtà, il ribaltamento della gerarchia ontologica tipico del peccato: Dio, che è il sommo bene, diventa male, mentre il male appare come bene desiderabile. 

 

L’ERRORE SECOLARE DELLA CRISTIANITÀ

Se quanto dice l’Anonimo ha un senso, allora il peccato originale sarebbe, più che una colpa morale, una mancanza ontologica, una patologia della relazione, cioè l’incapacità di mantenere l’attenzione focalizzata su quel Dio che, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, si presenta come Essere (cfr. Es 3,14; Gv 8,24-58). In effetti un altro grave errore del cristianesimo è l’aver sempre concepito il peccato in termini di trasgressione morale: «Il peccato in realtà esiste nella relazione con Dio e non altrimenti. L’errore secolare della cristianità è stato di concepire il peccato come una colpa morale. […] Il peccato è la rottura con Dio e le conseguenze che ciò comporta», scrive il giurista, sociologo e teologo Jacques Ellul in Anarchia e cristianesimo. Distraendo la volontà dall’Essere, l’uomo si trova frammentato, diviso, alienato da se stesso. Il peccato dissipa, disperde, debilita; la relazione con l’Essere unifica e dà vita. Non a caso Teilhard de Chardin scrive ne Il fenomeno umano: «Già secondo il pensiero greco – anzi secondo ogni pensiero – “essere” ed “essere uno” non è forse la stessa, identica cosa?». 

 

IL TEMPO DEL MITO

Secondo Thomas Merton, il racconto della Genesi afferma che l’Adam è stato creato come contemplativo. La contemplazione è la condizione naturale dell’uomo, e senza di essa non si dà una vita autenticamente umana. Ora la contemplazione – che Merton descrive come «quello stato in cui tutto è tuo ma a una condizione infinitamente importante: che sia tutto dato» - è una situazione meravigliosa ma difficilissima da raggiungere e ancor più da mantenere. Chiunque abbia un minimo di familiarità con la preghiera del silenzio lo sa bene. Basta niente per perdere la pienezza data dalla perfetta contemplazione: un attimo di distrazione, un moto di impazienza o di rabbia, un pensiero impuro, e subito ci si ritrova fuori dal giardino. Ecco perché Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo cristiano, afferma che questa è davvero la condizione di ogni essere umano: «Ma la malinconia è un peccato, è veramente un peccato “instar omnium”, poiché è peccato non volere profondamente, e sentitamente; questo è il padre di tutti i peccati» (S. Kierkegaard, Saper scegliere). L’uomo vive costantemente in esilio dal paradiso terrestre. Per questo non ha molto senso, riguardo al peccato originale, parlare di un prima e di un dopo, di una condizione prelapsaria e di una postlapsaria. Il racconto della caduta è un mito e il tempo del mito è “sempre”.

 

IL MALE DEL MONDO

Negli incontri dell’Associazione Italiana TdC di quest’anno (sezione di Roma), e in particolare in quello di Paolo Trianni sulla spiritualità dell’attraversamento, è risuonata più volte la domanda: “unde malum”, da dove viene il male del mondo, di chi è la colpa? Non si può dare una risposta semplice e univoca perché non c’è “il male” ma ne esistono molti tipi diversi, forse infiniti. Esiste il male naturale, cioè le malattie, gli incidenti, le catastrofi; c’è il male psichico e quello metafisico, il male morale e il male sociale, che il CCC 1869 descrive come “strutture di peccato” che rendono gli uomini complici gli uni degli altri e fanno regnare tra di loro la concupiscenza, la violenza e l'ingiustizia. Lo tsunami che il 26 dicembre 2004 si abbatté su Indonesia, Sri Lanka, Thailandia e India causando oltre 250.000 morti può certamente essere considerato un male, ma è un male molto diverso da quello commesso dal marito che tradisce la moglie, dall’imprenditore che schiavizza i lavoratori o dal folle di Ardea che uccide due fratellini, un pensionato e poi si suicida. Pretendere di spiegare mali così diversi con un’unica causa, il peccato originale, può essere comodo e rassicurante, ma è ingiusto e sbagliato, non è una vera spiegazione. In passato, un certo tipo di cristianesimo vedeva una stretta relazione tra le tante piaghe che affliggono l’umanità, facendo di tutta l’erba un fascio: se l’uomo soffre, si ammala, muore, è perché ha peccato. Oggi non è più possibile sostenere una cosa del genere, come afferma Raimon Panikkar: «La morte è un’invariante umana. Ogni uomo muore, e non certo in conseguenza del peccato. Non c’è nessun peccato originale, e nessuna vendetta di Dio contro il genere umano. Si tratterebbe non di giustizia divina ma di una spaventosa giustizia tribale, diceva Norberto Bobbio» (R. Luise, Raimon Panikkar. Profeta del dopodomani). Una parte considerevole del male che c’è nel mondo non dipende da noi, non è colpa nostra. E men che meno è colpa di Dio, scrive Teilhard de Chardin in Mon Univers (1924): «In sé, in modo immediato, le servitù del Mondo – anzitutto quelle che c’intralciano, ci diminuiscono, ci uccidono – non sono né divine né in alcun modo volute da Dio. Rappresentano la parte d’incompiutezza e di disordine che guasta una creazione non ancora perfettamente unificata. E, in quanto tali, non piacciono a Dio; e Dio, in un primo tempo, lotta con noi (e in noi) contro di esse. Un giorno, Egli ne trionferà. Ma poiché la durata delle nostre esistenze individuali è senza proporzione con la lenta evoluzione del Cristo totale, è inevitabile che non possiamo vedere la vittoria finale, nel corso dei nostri giorni terrestri (…)». 

VERA COLPA O IMPERFEZIONE ORIGINARIA?

Un’altra domanda emerge spesso negli incontri dell’associazione TdC: il peccato originale è veramente un peccato così come lo definiscono i dizionari di teologia, cioè una decisione libera e volontaria contro il volere di Dio? O è dovuto piuttosto a un’imperfezione originaria di cui l’uomo non può essere incolpato più di tanto? Anche qui la risposta non è univoca. Se consideriamo l’ateismo delle nostre società secolarizzate come peccato di ὕβϱις, per esempio, la volontarietà è abbastanza evidente: l’uomo sceglie di non credere, vuole essere ateo, anche se forse non si rende conto delle conseguenze che ciò comporta. Ma nel caso della caduta intesa come rottura dello stato di contemplazione? Si tratta certamente di un peccato secondo il significato etimologico del termine, cioè un mancare il bersaglio, un fallimento esistenziale, dovuto però non a volontà quanto piuttosto a una carenza di volontà, oltreché alla difficoltà della contemplazione. La contemplazione richiede vigilanza, attenzione costante, umiltà, dominio di sé. È un esercizio estremamente impegnativo, totalizzante: possiamo davvero incolpare l’uomo se non sempre riesce nell’impresa? L’uomo è realmente colpevole di questo peccato d’origine o ne è vittima? Pecca perché vuole o perché non sa volere? Per risolvere la “vexata quaestio” sarebbe opportuno separare e tenere distinti colpa e peccato, l’aspetto etico-giuridico da quello più propriamente ontologico ed esistenziale: forse l’uomo non ne ha colpa, ma vive certamente in una condizione fallimentare dalla quale può affrancarsi grazie all’azione redentrice del Cristo. Vale pertanto la pena dedicarsi con tutto l’impegno al «nobile lavoro» di cui parla l’Anonimo, cioè alla contemplazione. Questo ci darà la forza per vincere molti peccati personali e per resistere alle ingiurie delle servitù del mondo di cui parla Teilhard in Mon Univers. In attesa che Dio trionfi definitivamente su di esse.

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