Vita nello Spirito

Attenzione

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Il Dio che emerge dal breve racconto di Giona è un Dio assolutamente sorprendente: il «Dio del cielo che ha fatto il mare e la terra» è un Dio capace di «pentirsi», ma, soprattutto, è un Dio pieno di compassione per le sue creature, animali e uomini, persino per coloro che, come i cattivi abitanti di Ninive, non appartengono al suo popolo.

Il testo di Giona 4

1 Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. 2Pregò il Signore: «Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. 3Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!». 4Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?».
5Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. 6Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino.
7Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si seccò. 8Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere».
9Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!». 10Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! 11E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».

L'ira di Giona (4,1-4)

In questo capitolo conclusivo il narratore ci presenta due soli personaggi, Giona e il Signore, posti a confronto tra loro. Una parola chiave per capire l'intero capitolo è certamente la parola «male»,. All’inizio del racconto è stato il «male» commesso dai Niniviti (1,2) che ha provocato l'intervento del Signore; in 3,8 il re di Ninive invita i suoi sudditi ad allontanarsi dal male; Dio se ne accorge e si pente del «male» che avrebbe voluto fare a Ninive (3,10). Ma tutto questo diventa un «male» per Giona. Il v. 1 suona alla lettera cosi, nel testo ebraico: «Ma fu male per Giona di un male grande ed egli ne fu adirato». L'ira di Giona nasce perche Dio non ha commesso il male che aveva promesso di fare! II male non fatto da Dio è un male per il profeta, e ne provoca la collera.
La preghiera del profeta, riportata ai vv. 2-3, è ancora più sorprendente; strana preghiera, ancor più strana di quella fatta dal ventre del pesce! Soltanto adesso troviamo la risposta alla fuga di Giona, nei primi versetti del libro. Giona non era fuggito certo per paura dei niniviti, né per timore di non riuscire a portare a termine la propria missione. Era fuggito perché, sapendo bene che Dio è buono, era sicuro che Dio avrebbe perdonato gli abitanti di Ninive.
Il v. 3 ripete una formula tradizionale della fede di Israele, il modo in cui Dio si rivela a Mose sul Sinai (Es 34,6-7; cf. anche Sal 103,8; 145,8; GI 2,13). Il Dio di Israele è un Dio pietoso, pieno di amore, lento all' ira; un Dio che arriva a pentirsi, come si è visto nel c. 3, del male che egli stesso ha minacciato di fare. E allora, a che serve andare a predicare in suo nome, se tanto poi lui fa come vuole e, contro le attese del profeta, perdona le persone più cattive che esistano al mondo?
Comprendiamo che il profeta era andato sì a Ninive, ma con le gambe, non con il cuore; o se volete: Dio perdona, ma Giona no. La reazione del profeta, che si ripeterà poco dopo al v. 8, è radicale; non solo si adira, ma annuncia che per lui e meglio morire che vivere. Questa frase è sorprendentemente simile a quella pronunciata da Elia in 1Re 19,4. Il profeta, in fuga dalla regina Gezabele che vuole ucciderlo, si siede sotto un ginepro nel deserto invocando la morte. Ne uscirà soltanto grazie al cibo e all'acqua che un messaggero divino gli offre.
II narratore di Giona riprende consapevolmente la tradizione sulla fuga di Elia e la applica a Giona. Ma mentre Elia ha qualche motivo valido per fuggire (Gezabele lo vuole morto), Giona è animato solo da motivi egoistici. Inoltre, mentre la fuga di Elia diviene incontro con Dio sull’Oreb, la fuga di Giona si trasforma in uno scacco per il profeta. Ponendo in parallelo Giona con Elia il narratore vuole mostrarci la piccolezza di Giona. una sorta di profeta fallito.
Giona appare quasi come un uomo malato. preoccupato soltanto di se stesso, come si nota dall'ossessiva ripetizione dei pronomi personali di prima persona all'interno della sua preghiera: «Non era questo che io dicevo... quando ero nel mio paese?» (cf. 4.2 ) e di nuovo al v. 4. che alla lettera suona cosi: «Prendi la mia vita da me perché è meglio il mio morire che il mio vivere». Giona è del tutto ripiegato su se stesso e non riesce a comprendere la logica di Dio. Giona diviene immagine di un credente chiuso nel proprio modo ristretto di vedere, preoccupato soltanto della propria salvezza, convinto della verità delle proprie asserzioni e adirato con il mondo intero e anche con Dio, che non vuole dargli ragione. Immagine per noi di quello che rischia oggi di diventare la Chiesa, se non si apre alla logica sconvolgente dell'agire di Dio.
Ma Dio ha misericordia anche di Giona e al v. 4 inizia a dispiegare tutta la sua pedagogia nei confronti del profeta recalcitrante; non accusa direttamente Giona, ma lo pone di fronte alla propria responsabilità.

La pedagogia di Dio (4,5-8)

Dio dunque non accusa, ma si serve di fatti per educare Giona. Per tre volte risuona il verbo «provvedere» a proposito dell'agire divino, che educa Giona con mezzi molto semplici: il ricino (v. 6), un verme (v. 7), il vento che si aggiunge al sole (v. 8).
Al v. 5 si vede come Giona si sottrae alla domanda divina relativa alla sua ira. Il narratore non lo dice esplicitamente, ma sembra chiaro il motivo per cui Giona si sofferma nella capanna che ha costruito, osservando la città. Egli non crede ai suoi occhi: Ninive si èconvertita! Ma lo ha fatto davvero? Oppure ritornerà a peccare e Dio dunque potrà finalmente distruggerla? E in questo caso Giona sarà lì, in prima fila, a godersi lo spettacolo.
La crescita della pianta di ricino e il suo successivo seccarsi a causa del verme,il sole e il vento bruciante che adesso colpiscono la testa di Giona, sono piccoli segni che non educano il profeta, ma che rivelano ancora di più come egli sia preoccupato soltanto di se stesso: meglio morire che vivere! (cf. il v. 8). E’ bastata la crescita della pianta per renderlo felice («Una grande gioia»!); è sufficiente che essa secchi per renderlo di nuovo desideroso di morire e adirato più di prima (cf. la nuova risposta di Giona a Dio al v. 9).
Il segno del ricino è ancora più importante: è Dio che lo ha fatto crescere, ed è lui che lo ha seccato. E’ meglio vivere in un mondo nel quale ci sono rifugi efficaci, ma provvisori, come il ricino, oppure abbandonarsi alla misericordia di Dio che tollera anche l'esistenza di Ninive, perdonandola come se non avesse in precedenza commesso colpe orribili? Il ricino e il verme che lo secca richiamano il lettore, insieme alla permanenza di Ninive, al cuore del libro: la misericordia di Dio.

II confronto finale (4,9-11)

La nuova domanda di Dio (v. 9) mette Giona alle strette; vale davvero la pena di adirarsi per una pianta di ricino? Ma tale domanda serve soltanto a mettere in luce il vero cuore del libro, espresso dall'ultima domanda di Dio nei due versetti finali. Come tu ti sei preoccupato di una pianta, non devo io preoccuparmi di uomini e di animali?
L'espressione del v. 11: «Non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra» e di difficile interpretazione; chi ha pensato al fatto che i niniviti sono come bambini privi dell'uso di ragione, chi invece al fatto che essi sono incapaci di distinguere il bene dal male. In questo caso, il motivo per cui Dio salva i niniviti ancora più chiaro. Non perché essi se lo meritino — perché cioè si sono convertiti! — ma perché egli è misericordioso! Questa interpretazione rafforza l'idea che sia proprio la scoperta di una cosi grande misericordia di Dio che scatena l' ira del profeta.
Notiamo, di passaggio. l'interesse del testo nei confronti degli animali (cf. in precedenza il testo di Gio 3.7-8); essi non hanno alcuna autonomia, ma la loro sorte è la stessa degli uomini. Dio pertanto si interessa anche di loro.
Il libro si chiude così con una domanda, caso unico nella Scrittura, una domanda rivolta prima di tutto a coloro che si credono buoni, come Giona. Ma la domanda posta dal Signore a Giona resta nel testo senza risposta; ci troviamo di fronte a una tecnica narrativa interessante, quella della finale aperta. La risposta di Giona non ci viene offerta, perché il narratore invita ogni ascoltatore della storia a dare la propria risposta: Giona avrà fiducia nella bontà di Dio, oppure la rifiuterà? Non lo sappiamo, né lo sapremo mai. Sappiamo soltanto ciò che potrà essere la nostra personale risposta.

La misericordia di Dio nel libro di Giona

Occorre fare attenzione a non dare del libro di Giona una lettura anti-ebraica, favorita, nel passato, da una lettura tipologica che faceva di Giona l'araldo dell'ingresso dei pagani nella Chiesa, a scapito di Israele.
Il problema posto dal libro di Giona, evidente nella domanda conclusiva rivolta da Dio al suo profeta, si può meglio capire sullo sfondo storico nel quale il libro è stato composto. Ci troviamo in un periodo, verso la fine dell'epoca persiana (IV sec. a.C.) nel quale la figura profetica è ormai in crisi. Autori come Giobbe e lo stesso autore del libro di Giona mettono in dubbio che il Dio d'Israele possa essere legato a regole prefissate. Per Giobbe, la giustizia di Dio non dipende dal comportamento dell'uomo; Giobbe non soffre a causa dei suoi presunti peccati. Giona va oltre: neppure la misericordia di Dio può essere legata a comportamenti umani; essa dipende esclusivamente da lui. E questo per il profeta fedele, il «figlio di Amittai», è semplicemente intollerabile. tanto da portarlo a invocare la morte. Meglio morire piuttosto che vivere. in un mondo dove Israele non è più in grado di sperimentare la giustizia di Dio!
Il problema è grave: dove va a finire la giustizia di Dio, già messa in crisi dal libro di Giobbe. di fronte alla sua misericordia? Più radicalmente: che fare di un Dio che sembra smentire anche la sua stessa parola, pur di salvare le sue creature?
Ma il Dio che emerge dal breve racconto di Giona è un Dio assolutamente sorprendente: il «Dio del cielo che ha fatto il mare e la terra» (1,9) è un Dio capace di «pentirsi» (3,9-10; 4,2), ma, soprattutto, è un Dio pieno di compassione per le sue creature, animali e uomini, persino per coloro che, come i cattivi abitanti di Ninive, non appartengono al suo popolo (4,10-11). Il Dio dell'esodo, che svela adesso i suoi attributi di misericordia (4,2). Un popolo che il profeta Nahum stimola all' odio verso i propri nemici, nel libro di Giona impara che anche il peggior nemico è capace di conversione ed è comunque oggetto dell'amore di Dio.

Luca Mazzenghi

(in Parole di Vita, maggio-giugno 2009)

 

Pubblicato in Bibbia

 Capitolo II (continua)

§2. I sacrifici nell’Antico Testamento: una breve rassegna

L’etimologia fa risalire il verbo sacrificare a sacrum facere, che significa rendere sacro, mettere un oggetto a disposizione del divino. La storia generale delle religioni attesta che il sacrificio è una delle sue categorie centrali. Il sacrificio esercita funzione di comunicazione e di scambio tra il mondo dell’uomo e la sfera del sacro, il mondo di Dio o degli dei. In questione, nel sacrificio, c’è il rapporto dell’uomo con il divino [82]. Il Dizionario di Teologia di Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler definisce il sacrificio come segue: «Il concetto di sacrificio, nella sua forma più completa che peraltro non sempre si ritrova in tutti i sacrifici [...], si potrebbe all’incirca descrivere così [...]: sacrificio è un atto nel quale ad opera di persone che ne hanno legittimamente il potere in quanto rappresentanti di una comunità di culto, un dono controllabile con i sensi viene trasformato nel corso di un rito cultuale e così sottratto all’uso profano, immesso nella dimensione del “sacro” e dato pienamente a Dio per esprimere la dedizione di sé, nell’adorazione, al Dio santo; in tal modo il dono, da Dio accettato e santificato, nel banchetto sacrificale della comunità di culto diventa il segno della volontà divina di instaurare un rapporto comunitario con l’uomo» [83].
La Bibbia attesta l’esistenza, e spesso la coesistenza, di diversi tipi di sacrificio. Il libro del Levitico, nei capitoli 1 – 7, li espone in modo sistematico e in linguaggio tecnico: l’olocausto (‘ôlah); l’offerta; il sacrificio di comunione (con lode, votivo o volontario); il sacrificio per il peccato (del sommo sacerdote, dell’assemblea di Israele, di un capo, di un uomo del popolo); il sacrificio di riparazione (’ašam); l’offerta. L’olocausto, il cui termine greco corrispondente significa combustione completa, è il sacrificio in cui la vittima viene per intero bruciata in onore di Jahve. Nei testi più antichi aveva lo scopo di rendere omaggio a Dio, supplicarlo, ringraziarlo e adempiere un voto; solo più tardi assunse valore espiatorio. L’olocausto è il sacrificio ordinario del culto pubblico e ne rappresenta la massima espressione; la sua mancanza costituiva la più grande minaccia contro il popolo ebraico (Dn 8,11ss). Sempre accompagnato da oblazioni e libagioni (Nm 15,2 – 16), l’olocausto era l’unico sacrificio che potesse essere offerto anche da un pagano (Lv 22,18.25). Il sacrificio espiatorio era imposto dalla Legge a colui che la trasgrediva per inavvertenza; la materia e la vittima variavano alquanto secondo la condizione del trasgressore, ma ciò che più caratterizzava questo sacrificio era il rito del sangue: parte del sangue veniva sparso attorno all’altare dell’olocausto, mentre la maggior parte era aspersa sette volte in direzione del velo del tempio e sui corni dell’altare dei profumi; benché fossero praticati in ogni periodo dell’anno, i riti espiatori raggiungevano la loro massima solennità nello jôm kippûr, il giorno dell’espiazione. Nel sacrificio di riparazione, che aveva lo scopo di riparare un danno arrecato al diritto di proprietà divina o umana, la vittima era un agnello il cui valore veniva valutato simbolicamente in relazione alla riparazione da compiere [184].
Un’altra categoria di sacrificio, assai diffusa tra i semiti, consisteva essenzialmente in un pasto sacro (šelāmîm) in cui il fedele mangiava e beveva «dinanzi a Jahve» (Dt 12,18; 14,16); l’alleanza del Sinai è suggellata da un sacrificio di questo genere. Certo non ogni banchetto sacro presuppone necessariamente un sacrificio; tuttavia nell’Antico Testamento questi banchetti di comunione di fatto implicavano il sacrificio: parte della vittima (bestiame grosso o minuto) spettava di diritto a Dio, padrone della vita, mentre la carne serviva da cibo per i commensali. Nei diversi rituali codificati dal Levitico il concetto di sacrificio tende a concentrarsi attorno all’idea di espiazione. Il sangue vi svolge una parte importante, ma in definitiva l’efficacia del sacrificio deriva dalla volontà di Dio (Lv 17,11; cfr. Is 43,25) e presuppone sentimenti di penitenza. La riparazione delle impurità rituali e delle colpe non volontarie iniziava i fedeli alla purificazione del cuore, così come le leggi sul puro e l’impuro orientavano le anime verso l’astensione dal male. Il pasto dei šelāmîm traduceva e realizzava nella gioia e nell’euforia spirituale la comunione dei commensali tra loro e con Dio, perché tutti partecipavano della stessa vittima [85].

 

Marco Galloni

 

[82] Cfr. B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 293.

[83] K. RAHNER /H. VORGRIMLER, Dizionario di teologia (titolo originale Kleines Theologisches Wörterbuch, Verlag Herder GmbH & Co. KG, Freiburg, 1968), trad. it., Editori Associati, Milano, 1994, p. 612.

[84] Cfr. A. ROLLA in Introduzione generale alla Bibbia, Elledici, Torino, 2006, pp. 263 - 264.

[85] Cfr. C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, pp. 1125 - 1126.

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Pubblicato in Teologia

 Capitolo II (continua)

§1. Importanza e universalità del sacrificio

Il cristianesimo non sacrificale di Girard può essere comprensibile come reazione a certe soteriologie grossolane nate da cattive interpretazioni dell’opera di Anselmo e in particolare del Cur Deus homo, ma non può essere accettato, preso per buono: Girard ragiona a partire da un’idea troppo restrittiva del sacrificio, che non tiene conto della realtà complessa e sfaccettata che la teologia vede invece racchiusa in questa categoria. C’è senz’altro del vero e del buono nella visione dell’antropologo francese, fa notare Sesboüé: «Girard non mette il dito su un qualcosa di molto reale nel cristianesimo storico? Non è vero che, stando a certi discorsi teologici, pastorali, spirituali, l’idea di sacrificio ha funzionato in terra cristiana così com’egli dice?» [74] . Resta il fatto che il sacrificio non può essere espunto dal cristianesimo con tanta disinvoltura. Anzi, non può esserne espunto affatto: farlo significherebbe sfigurare la Sacra Scrittura. Dice il Dizionario di Teologia Biblica di Xavier Léon-Dufour alla voce sacrificio: «Un rapido sguardo alla Bibbia ci informa sull’importanza e sull’universalità del sacrificio. Esso costella tutta la storia: umanità primitiva (Gen 8,20), vita dei patriarchi (Gen 15,9...), epoca mosaica (Es 5,3), periodo dei giudici e dei re (Giud 20,26; 1 Re 8,64), età postesilica (Es 3,1 – 6). Ritma l’esistenza dell’individuo e della comunità. L’episodio misterioso di Melchisedech (Gen 14,18), in cui la tradizione ravvisa un pasto sacrificale, l’attività liturgica di Jetro (Es 18,12) allargano ancora l’orizzonte: fuori del popolo eletto (cfr. Gn 1,16), il sacrificio esprime la pietà personale e collettiva. I profeti, nelle loro visioni del futuro, non dimenticano le offerte dei pagani (Is 56,7; 66,20; Mal 1,11). Così, quando tracciano a grandi linee il loro affresco della storia, gli scrittori dell’Antico Testamento non concepiscono vita religiosa senza sacrificio. Il Nuovo Testamento preciserà questa intuizione e la consacrerà in modo originale e definitivo» [75]. Vero è che alcuni profeti dell’Antico Testamento prendono recisamente posizione contro i sacrifici (cfr. Is 1,11 – 17; Ger 6,20; 7,21 – 22; Os 6,6; Am 5,21 – 27; Mi 6,6 – 8), ma la loro polemica, afferma Sesboüé, è di tipo dialettico, va ben compresa: non condanna i sacrifici in quanto tali ma la loro perversione, allorché sono contraddetti da una condotta di vita incoerente [76] .
Eliminare il sacrificio dal Nuovo Testamento sembrerebbe più agevole. Chi volesse farlo troverebbe facile appiglio in certi passi evangelici, come Mt 9,13 («Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio») e Mc 12,33 («amarlo con tutto il cuore, e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici»). Ma un’operazione del genere entrerebbe in conflitto con altri versetti dei Vangeli, dai quali emerge, sottolinea G. Deiana, che Gesù non intende affatto annullare il sistema rituale del tempio: al lebbroso, dopo la guarigione, chiede di offrire il sacrificio prescritto dalla Legge (Mt 8,4); egli impone la riconciliazione con il fratello prima di offrire il sacrificio (Mt 5,23 – 24); e del resto il compito di Gesù è formulato senza possibilità di equivoco in Mt 5,17 – 19:

«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli».

C’è dunque una conferma esplicita delle istituzioni veterotestamentarie. La Chiesa delle origini, a parere di Deiana, deve aver faticato non poco per trovare il giusto equilibrio tra la tradizione giudaica e l’innovazione cristiana. Se ne può avere conferma mettendo a confronto At 15 e 21,20 – 25: secondo At 15 la comunità cristiana, già ai tempi del cosiddetto concilio di Gerusalemme, avrebbe superato il vincolo delle norme giudaiche; a giudicare da At 21,20 – 25, invece, sembrerebbe che la comunità di Gerusalemme fosse ben ancorata alle tradizioni cultuali e rituali dell’Antico Testamento [77].
Diversa è l’opinione di Sesboüé: «Quando passiamo al Nuovo Testamento, dobbiamo riconoscere con R. Girard la scarsa rilevanza del tema sacrificale nei vangeli. La menzione più significativa messa sulle labbra di Gesù è negativa» [78]; a riprova Sesboüé porta gli appena citati Mt 9,13 (cfr. 12,7) e Mc 12,33. Il teologo gesuita ammette che al momento della presentazione di Gesù al tempio i suoi genitori hanno senza dubbio offerto nel tempio «un paio di tortore o due giovani colombe» (Lc 2,24) e che «il senso delle parole dell’istituzione eucaristica è certamente sacrificale, il termine sacrificio non viene però adoperato, e gli esegeti discutono su ciò che, in tali parole, risale effettivamente a Gesù e su quanto è il frutto dell’attualizzazione liturgica della comunità primitiva» [79]. Tuttavia, aggiunge Sesboüé: «L’essenziale è manifestamente altrove. Tutta la vita prepasquale di Gesù è stata una pro-esistenza, cioè un’esistenza per il Padre e per i fratelli, un dono totale di sé che si spinge fino al dono della vita. Tutta la sua vita assumeva così il valore d’un sacrificio esistenziale, che fungerà da fondamento al senso convertito assunto dal termine sacrificio nella tradizione cristiana dal Nuovo Testamento in poi. Tale esistenza di servizio è orientata verso il passaggio di Gesù al Padre e mira correlativamente al passaggio di tutti i suoi fratelli riconciliati al Padre. Il sacrificio di Gesù, espresso anche nella preghiera, è la forma che assume il ritorno del Figlio al Padre quando egli rimette il proprio spirito nelle sue mani. Gesù, istituendo l’eucaristia, ci dice quale senso egli dona alla sua morte» [80]. Sesboüé conclude così la sua riflessione: «Tale complesso è molto coerente. Se Gesù “sembra preoccuparsi dei sacrifici rituali solo per stigmatizzarne gli abusi”, non si vede perché si sarebbe servito della categoria del sacrificio “per caratterizzare la propria vita e la propria morte”. Non stupisce quindi che i Vangeli non dicano nulla che indichi che Gesù associò la sua vita e la sua morte alla nozione di sacrificio rituale. In compenso tutta la sua vita ci invita a riconsiderare il senso del sacrificio a partire dalla sua proesistenza. Tale distanza tra la realtà e il vocabolario era senza dubbio indispensabile per operare la necessaria conversione del senso del sacrificio, senso che i profeti avevano già indicato» [81].

Marco Galloni

 

[74] B. Sesboüé, op. cit., libro I, pp. 43 – 44. 

[75] C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, p. 1124.

[76] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 299. 

[77] G. DEIANA, Dai sacrifici dell’Antico Testamento al sacrificio di Cristo, Urbaniana University Press, Roma, 2006, pp. 71 - 73.

[78] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 300. 

[79] Ibidem

[80] Ibidem

[81] Ivi, pp. 300 – 301; le frasi riportate tra virgolette alte sono di X. Léon-Dufour. 

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Pubblicato in Teologia
Giovedì, 21 Dicembre 2023 11:12

Dalla crepa entra la luce (Faustino Ferrari)

Esiste una "broken art" giapponese. Si tratta della tecnica di riparare il vasellame di ceramica. Il nome di quest'arte è kintsugi (o anche kintsukuroi) e letteralmente significa «riparare con l’oro». I frammenti dell’oggetto rotto vengono aggiustati usando una mistura di lacca e oro in polvere. Un oggetto, anche se rotto, può così continuare ad essere usato. Anzi, i segni della rottura vengono impreziositi. Dal danno si ricava un oggetto ancor più prezioso, considerato esteticamente migliore, raffinato. La conservazione si salda alla memoria. Avere davanti agli occhi l'oggetto riparato farà ricordare la circostanza in cui è stata causata la rottura. La cultura occidentale è portata a vedere in ciò un'attenzione per ciò che può essere riusato. Si può, invece, ricavare una lezione simbolica: non bisogna vergognarsi delle ferite subite nella propria esistenza. Le cicatrici delle ferite – fisiche e/o spirituali – non sono da nascondersi. Accettandole in tutta la loro visibilità, possono rivelarsi preziose. Per una nuova vita.
 
«Ring the bells that still can ring / Forget your perfect offering / There is a crack, a crack in everything / That’s how the light gets in». È il ritornello della canzone Anthem, del canadese Leonard Cohen. Perché la luce possa passare attraverso una crepa è necessario che la crepa sia ampia a sufficienza – e maggiore è la crepa, maggiore è la luce che l’attraversa.
 
Michel de Certeau ha parlato di «fratture». Abbiamo una concezione della storia che si svolge in un continuo progresso. Per Certeau questo modo di intendere, però, non è corretto. L’attuale crisi contemporanea non è unica né nuova. La storia umana e spirituale presenta una continua serie di fratture. Ciò è visibile soprattutto nell’esperienza delle persone mistiche. La loro vita spirituale resta incomunicabile. Ma, al tempo stesso, non può non essere comunicata. C’è un indicibile divino che va trasportato nella parola umana. In questa frattura si colloca la vita spirituale più profonda.
Il filosofo Martin Heidegger ha usato un’immagine di altro genere. Ha parlato di segnavia, di sentieri interrotti e di radure. I segnavia sono le tracce che permettono di percorrere un sentiero che si inoltra nel bosco. Ma si tratta di sentieri che s’interrompono, all’improvviso. S’interrompono nella radura dell’essere. Teniamo qui soltanto l’immagine del sentiero che si spezza nella radura. La radura può essere vista come una sorta di ferita, di cicatrice del bosco – il luogo ove, non si sa perché, gli alberi non crescono. A prima vista sembrerebbe che il cammino sia stato smarrito. In realtà, la radura è il solo luogo del bosco ove sia possibile vedere un tratto del cielo.
 
Il pittore di icone è colui che, avendo sperimentato il mistero divino, cerca di comunicare la propria esperienza spirituale attraverso le immagini sante. Non cerca di esprimere la bellezza attraverso una rappresentazione attraente. Spesso le icone, secondo i nostri gusti estetici, non sono belle. La bellezza estetica non ci deve distrarre dal contemplare il mistero divino. L’icona, dal punto di vista simbolico, rappresenta una sorta di piccola finestra, una frattura che ci permette di scorgere qualcosa della luce divina. Rappresenta la crepa che ci apre al mistero divino.
Nella tradizione rabbinica si legge: «È un disonore per un uomo comune servirsi di un vaso rotto. Ma per il Santo – sia benedetto – non è così. Al contrario, egli si serve soltanto di vasi rotti: ‘il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato’ (Sal 34,19); ‘egli guarisce i cuori spezzati’ (Sal 147,3); ‘Dio non disprezza un cuore spezzato e abbattuto’ (Sal 51,20)».
 
Ad un giovane che chiedeva consigli per la preghiera, Jean Claude Colin diede vari suggerimenti. Tra gli altri consigli leggiamo: «Bisogna anche apprendere a gustare Dio. Eh sì, gustare Dio… Gustare Dio è avere il cuore ferito». Perché Colin parla di un cuore ferito?
 
Il profeta Ezechiele annuncia un nuovo tempo, nel quale il cuore di pietra sarà sostituito da un cuore di carne (36,22-32). E per Geremia è un tempo in cui la legge non sarà più scritta sulla pietra delle tavole, ma nel cuore stesso (32,36-41). La trasformazione di questo cuore di pietra non avviene per sostituzione, ma attraverso una lacerazione. Il cuore di pietra può essere sanato nel momento in cui inizia a rompersi. Il profeta Gioele invita a lacerare il proprio cuore e non le vesti (2,16).
 
La ferita del cuore è l’immagine paradossale che svela un’opera in corso di risanamento! Il cuore corrotto è un cuore di pietra, gelido, immobile e rinchiuso in se stesso. Dio si rivela il medico che cura questo cuore di pietra facendovi breccia – una crepa – e lasciandovi il segno di una ferita. Una ferita non più rimarginabile, ma che diventa il farmaco per la guarigione del cuore. Il cuore ferito è il segno dell’azione e della vicinanza di Dio.
 
La vicinanza di Dio a chi ha il cuore ferito non si chiude in un rapporto intimistico, ma interpella all'apertura e alla solidarietà con i tanti cuori feriti della storia e del mondo. Preghiera e solidarietà costituiscono i due modi per attuare l'accoglienza della vicinanza di Dio in noi. Scrive Agostino: «Ama ed egli si avvicinerà; ama ed egli abiterà in te». Il profeta Isaia annuncia un tempo in cui «ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi» (58,12). Come nell’arte giapponese, si tratterà di brecce riparate con l’oro?
 
Nella bibbia ogni immagine assume anche il significato opposto. Così è per l’immagine della crepa. Geremia ricorda: «Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l'acqua» (2,13). Per ogni cosa si rende così necessario il discernimento.
 
Nel vangelo di Matteo, nel racconto della risurrezione di Gesù viene usata l’immagine del terremoto (28,2). Si tratta di un immagine che non significa castigo né è solo simbolo di distruzione, ma è spesso associata con le teofanie. Attraverso il terremoto, Dio si manifesta. Il forte terremoto crea solchi nel terreno, apre crepe e fratture nelle costruzioni. Sconvolge. Il terremoto del racconto di pasqua apre le crepe attraverso cui è possibile vedere la luce della risurrezione di Cristo. Soltanto i riverberi di quella luce – poiché non è dato di poter scorgere pienamente la gloria di Dio, la gloria della risurrezione.
 
E poi, il racconto di Tommaso. Nella richiesta di toccare la carne ferita del Cristo siamo posti di fronte a ben altro che allo scetticismo di una persona nutrita dal dubbio. Perché la professione di fede di Tommaso, quel «Mio Signore e mio Dio!» non può più essere disgiunta dal riconoscimento della passione e della morte del Signore. Tommaso riconosce il suo Signore, ferito nel corpo e nella carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo! Il vangelo di Giovanni – il più spirituale dei quattro vangeli – a riguardo non lascia dubbi ed è radicale. Il momento dell’elevazione in croce – momento culminante della morte con la consegna al Padre dello Spirito da parte del Figlio – è al pari il momento della massima glorificazione. Ed i discepoli incontrano nel Risorto non un fantasma, ma l’Uomo dei dolori e delle ferite.
 
Quali sono le crepe – le fratture, le ferite – attraverso cui possiamo scorgere la luce della risurrezione penetrare nella nostra vita?
 
Faustino Ferrari
 
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Parlare di sinodalità significa inevitabilmente parlare anche delle difficoltà del camminare insieme, difficoltà che possono talvolta diventare vere e proprie impossibilità. Tra Teilhard de Chardin e la Chiesa del suo tempo, per esempio, c’è stata una evidente mancanza di sinodalità...

Parlare di sinodalità significa inevitabilmente parlare anche delle difficoltà del camminare insieme, difficoltà che possono talvolta diventare vere e proprie impossibilità. Tra Teilhard de Chardin e la Chiesa del suo tempo, per esempio, c’è stata una evidente mancanza di sinodalità: Teilhard era avanti di anni e forse di secoli, mentre la Chiesa, dietro, arrancava, non capiva, condannava. Questo stato di cose, in parte, dura ancora oggi, visto che il Monitum del 1962 rimane in vigore: potremmo parlare in questo caso di una non-sinodalità “ad intra”, tutta interna alla Chiesa. Ma esiste anche una mancanza di sinodalità “ad extra”, tra la Chiesa e il mondo, e qui per mondo si intende soprattutto la visione scientifico-materialista oggi dominante; è su questo secondo tipo di non-sinodalità che vorremmo concentrarci, perché tale difficoltà di camminare insieme sta scavando un fossato sempre più profondo non solo tra credenti e non credenti ma anche, paradossalmente, tra credenti e credenti, tra differenti visioni di fede.

Rudolf Clausius e l’entropia

Semplificando al massimo possiamo dire che il nostro universo è un sistema essenzialmente entropico. Il termine “entropia” (da ἐν, “dentro”, e τροπή, “trasformazione”) fu introdotto nel 1864/65 da Rudolf Clausius (1822 – 1888), uno dei fondatori della termodinamica. Clausius stabilì che in un qualsiasi processo di trasformazione dell’energia una parte di essa viene gradualmente dissipata attraverso il confine del sistema, il quale procede così, irreversibilmente, verso uno stato a basso potenziale in cui non vi è più energia disponibile. L’entropia rappresenta la quantità di disordine presente in un sistema; si dice infatti che quando un sistema passa da uno stato di equilibrio a uno di disordine la sua entropia aumenta. È l’entropia a far muovere gli eventi nella direzione che conosciamo, dal passato al futuro: per questo l’astrofisico Arthur Eddington (1882 – 1944) ha affermato che «l’entropia è la freccia del tempo»1. Secondo la maggior parte dei fisici l’universo è un sistema isolato che tende a perdere uniformemente energia (ad aumentare l’entropia) fin quando giungerà alla morte termica, lo stato di equilibrio termodinamico nel quale non vi sarà più energia libera per compiere lavoro (massimo livello di entropia).

Luigi Fantappié e la sintropia

Ma l’universo non è soltanto termodinamica ed entropia. Se così fosse, come si spiegherebbero fenomeni quali la comparsa della vita, l’evoluzione, il sorgere della coscienza? Perché mai la materia dovrebbe organizzarsi in forme sempre più differenziate, complesse e intelligenti invece di dirigersi inesorabilmente verso l’omogeneità, il disordine e la morte entropica? La scienza classica fatica a spiegarlo. In molti hanno cercato di dare risposta a questa domanda, da Teilhard de Chardin a Erwin Schrödinger, da Henri Bergson a Carl Gustav Jung, da Ilya Prigogine a Rupert Sheldrake. Tra questi merita senz’altro menzione il matematico e accademico italiano Luigi Fantappié (1901 – 1956), che negli anni ’40 del secolo scorso cercò di elaborare una teoria unificata del mondo fisico e biologico che spiegasse l’emergere di forme complesse e organizzate in un universo dominato dall’entropia2. Fantappié (cfr. www.syntropy.org)  trovò la soluzione nelle equazioni che combinano meccanica quantistica e relatività speciale, e più precisamente nell’operatore di d’Alembert, che in una sua forma particolare ammette due soluzioni, una positiva, l’altra negativa: la positiva descrive le onde divergenti dei cosiddetti “potenziali ritardati” irradiati da una sorgente emettitrice, mentre la soluzione negativa rappresenta le onde convergenti dei “potenziali avanzati” che confluiscono verso un attrattore. Fantappié scoprì che la soluzione positiva, procedente in avanti nel tempo, tende alla dissipazione, al disordine e all’omogeneità, mentre la negativa si muove a ritroso nel tempo e va verso la concentrazione, l’ordine e la differenziazione. La soluzione positiva segue la legge dell’entropia, mentre la negativa obbedisce a una legge simmetrica che Fantappié chiamò “sintropia” (da σύν, “con”, e τροπή, “trasformazione”). L’accademico viterbese osservò che la sintropia ha le stesse proprietà degli esseri viventi, e concluse che il processo evolutivo è una conseguenza delle onde avanzate emanate da attrattori situati nel futuro: «Le onde avanzate sono l’essenza della vita stessa», dichiarò. La teoria delle onde avanzate o retro-causali non fu accettata dalla scienza dominante, che considera impossibili le cause finali. Fantappié, al contrario, rifiutò di eliminare metà delle equazioni fondamentali che descrivono l’universo e ribadì sempre che la vita è soggetta a una duplice causalità: causalità efficiente e causalità finale. Propose pertanto di passare dal modello meccanicistico e deterministico dell’universo a un nuovo modello entropico-sintropico nel quale le forze divergenti e le convergenti agiscono insieme. Il susseguirsi dei fenomeni non dipende dalle sole condizioni iniziali ma anche da quelle finali, dall’azione degli attrattori che operano dal futuro.

Il diavolo può davvero essere considerato una persona?

In un universo strutturato secondo il modello entropico-sintropico, l’evoluzione segue un ritmo di dispiegamento-ripiegamento tra un polo iniziale, costituito fondamentalmente di energia, e un polo finale, essenzialmente di coscienza3. L’universo non è soltanto entropico, come credono i materialisti, né esclusivamente sintropico, come pretenderebbe quella visione di fede che lo considera già perfettamente compiuto, salvo poi attribuire al diavolo e all’uomo tutto il male e il disordine in esso presenti. L’universo è prodotto dall’interazione tra forze entropiche e forze sintropiche. Secondo Giuseppe e Salvatore Arcidiacono (1927 – 1998), illustri allievi di Fantappié, non esistono fenomeni entropici e sintropici puri: in ogni fenomeno, sia fisico sia biologico, vi sono componenti entropiche e sintropiche che agiscono insieme. Pensiamo ad esempio a un qualsiasi momento della nostra vita; in esso sono presenti le forze sintropico-convergenti, senza le quali non saremmo che atomi dispersi nell’universo, ma operano anche le forze entropico-divergenti, perché in ogni momento noi invecchiamo e perdiamo energia: «Vulnerant omnes, ultima necat» (sottinteso: le ore), recita il motto di Seneca il Vecchio che veniva spesso inciso sulle meridiane e sui quadranti degli orologi. Questo è un primissimo, importante argomento su cui la Chiesa e il mondo potrebbero dialogare. Ciò consentirebbe di guardare con maggior serenità e realismo al problema del male. Nelle alte sfere della teologia si discute oggi sull’opportunità di continuare a considerare “persona” il diavolo, a personificare il male. Se infatti prendiamo la definizione classica di Boezio, secondo la quale la persona è «sostanza individuale di natura razionale», vediamo che è a dir poco improprio applicarla al diavolo: essendo “colui che divide”, probabilmente il diavolo risulta egli (esso) stesso frammentato, diviso in sé, dunque non è “sostanza individuale”; «Il mio nome è Legione perché siamo in molti», dice l’indemoniato geraseno a Gesù (Mc 5,9; cfr. Lc 8,30). Difficile anche attribuirgli una natura razionale, perché non si capisce quale razionalità possa esserci nel volere la propria rovina. Alla definizione di Boezio si rifà l’Aquinate, che nel difendere l’applicabilità del termine “persona” a Dio afferma: «La persona significa quanto di più nobile si trova in tutto l’universo, cioè il sussistente di natura razionale» (ST, I, q. 29, a. 3). Dal momento che il diavolo è invece quanto di più ignobile vi sia nel mondo, padre della menzogna, nemico di Dio e dell’uomo, eccetera, come possiamo considerarlo persona? E se ciò che le religioni chiamano diavolo non fosse altro che l’entropia abbondantemente presente nell’universo? In effetti il diavolo e l’entropia sembrano avere molto in comune; entrambi dividono, fanno divergere, disaggregano, corrompono e conducono alla morte, spersonalizzano e rendono tutto uniforme: «La Bestia è un numero, e ci trasforma in numeri. Dio nostro Padre invece ha un nome, e chiama ciascuno di noi per nome. È una persona, e quando guarda ciascuno di noi vede una persona, una persona eterna, una persona amata», disse l’allora cardinal Ratzinger nel discorso di inaugurazione della III Settimana Diocesana della Fede pronunciato nella cattedrale di Palermo il 15 marzo 2000.

Big Bang e creazione biblica

Un altro tema sul quale Chiesa e scienza potrebbero confrontarsi con reciproco beneficio è l’origine dell’universo. Si fa spesso confusione tra Big Bang e creazione biblica, che sono invece due eventi profondamente diversi: il Big Bang è l’origine dell’universo, mentre la creazione è piuttosto un concetto soteriologico elaborato da Israele riflettendo a posteriori sulla storia di salvezza vissuta dal popolo eletto. Il Big Bang è evento massimamente entropico, un’immane esplosione di energia; la creazione biblica è sintropica, un processo di convergenza, unificazione e personificazione. Finanche Pio XII cadde nell’errore quando, nel novembre del 1951, in un discorso tenuto alla Pontificia Accademia delle Scienze affermò che le scoperte scientifiche sull’origine dell’universo sarebbero una conferma dei racconti della creazione di Gen 1,1-2,4a e 2,4b-25. Fu l’astronomo-sacerdote Georges Edouard Lemaître (1894 – 1966), padre dell’“ipotesi dell’atomo primigenio”, in seguito polemicamente ribattezzata Big Bang da Fred Hoyle (1915 – 2001), a fargli notare che un concordismo di tal genere è sbagliato4. Big Bang e creazione biblica non sono affatto la stessa cosa. Tuttavia qualche relazione tra di essi deve pur esserci, bisogna trovarla. Come tenerli insieme, allora, qual è questa relazione? Vi sono almeno tre possibilità: 1) L’opzione atea: Dio non esiste, la Bibbia è soltanto una raccolta di miti e leggende, ha ragione la scienza, punto e basta; 2) L’opzione NOMA, acronimo coniato da Stephen Jay Gould che sta per “Non-Overlapping Magisteria”: scienza e fede, vale a dire, hanno aree di indagine diverse e non sovrapponibili, possono solo essere giustapposte; 3) L’opzione di Galileo Galilei, il quale nella lettera a Cristina di Lorena del 1615 scrive: «Intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo»5. L’opzione 3 è senz’altro la più corretta. Sono veri e legittimi entrambi i punti di vista, ma ciascuno entro il proprio ambito: la scienza e l’ipotesi Big Bang ci dicono che viviamo in un universo essenzialmente entropico destinato alla morte; la Sacra Scrittura ci garantisce che da tale situazione esiste una via d’uscita, una possibilità di salvezza. Non per niente Teilhard, in un testo del 1919 intitolato Per una nuova evangelizzazione del nostro tempo6, scrive: «Il Dio della Bibbia non è diverso dal Dio della Natura».

Purtroppo quella che oggi va per la maggiore tra gli scienziati che non siano irriducibilmente materialisti e abbiano una qualche forma di rispetto per la fede è l’opzione NOMA, con il risultato di un vero e proprio scisma tra visione religiosa e pensiero scientifico. Teilhard lo chiama «il grande Scisma che minaccia la Chiesa», a causa del quale «“Cristiano” e “Umano” tendono a non più coincidere»7. Questo scisma colloca da una parte un universo meccanicistico, afinalistico e indifferente alla sorte dei viventi, e dall’altra un cristianesimo sempre più fiacco, disincarnato, amartiocentrico, incapace di comprendere le dinamiche di un cosmo come quello fin qui descritto e, ciò che è peggio, di rendere ragione della speranza di cui, pure, pretende di essere portatore (cfr. 1Pt 3,15). Scrive Teilhard in Forma Christi: «Mentre per san Giovanni e san Paolo in particolare il Cristianesimo era una cosmogonia, si direbbe talvolta che noi sappiamo solo più vedere e far vedere l’aspetto scolastico o disciplinare del nostro Credo. Cosa c’è da stupirsi quindi se a molti uomini, che si nutrono di forti realtà concrete, la Rivelazione cristiana sembri invincibilmente fredda e infantile?»8. Eppure il cristianesimo, si legge ne La comunione con Dio, «religione supremamente individualista, rimane essenzialmente una religione cosmica: perché, al termine delle fatiche della Creazione e dell’Apostolato, non ci mostra solo una messe di anime, ma un Mondo di anime»9. Da Nicea I (325) in poi le relazioni “ad intra” della Trinità immanente sono state profondamente comprese e dogmatizzate, mentre le relazioni “ad extra” tra la Trinità e l’universo sono ancora in gran parte da esplorare. Teilhard lo dice nella Nota sul Cristo-Universale (1920): «Questo Cristo-Universale è quello che ci presentano i Vangeli e più precisamente San Paolo e San Giovanni. È quello del quale hanno vissuto i grandi mistici. Non sempre è quello di cui la Teologia si è occupata di più. (…) Sarebbe ora, in un’epoca in cui il pensiero umano tende a riconoscere il Cosmo come un Tutto per sé, di riflettere un po’ sulle relazioni che uniscono questo Tutto e Dio. Si fa presto a dire: creazione per amore, gloria esteriore. La Rivelazione non cela in sé forse dell’altro ancora?»10.

Il caso: uno spazio di libertà presente nell’universo

In un universo siffatto il caso fa il suo gioco. L’interpretazione transazionale della meccanica quantistica (TIQM), proposta da John G. Cramer nel 1986, descrive ogni evento quantistico come «una stretta di mano» tra le onde ritardate “di offerta” e le onde anticipate “di conferma”. Questo permette di reinterpretare la famosa affermazione di Einstein «Dio non gioca a dadi con l’universo»: in realtà sembra che lo faccia, gioca a dadi, ma sceglie solo le mosse vincenti, cioè quelle in cui le onde di offerta provenienti dal passato si accordano con le onde di conferma che vengono dal futuro, il che ricorda per certi aspetti l’idea teilhardiana sull’“utilizzo preferenziale del caso”11. Ciò significa che l’universo non è rigidamente predeterminato ma presenta un certo grado di libertà all’interno del quale agisce il caso; anche dom Stefano Visintin, fisico nucleare oltreché teologo, in uno degli incontri della sezione romana TdC ha parlato del caso in questi termini. Questo va contro una certa idea religiosa secondo la quale “non si muove foglia che Dio non voglia”: nel cosmo come nella storia, molte cose avvengono anche con il contributo del caso. Più sbagliata ancora è l’idea di quell’ateismo superficiale e sbrigativo che spiega tutto con il caso, esistenza dell’universo ed evoluzione comprese: il caso, da solo, non fa assolutamente nulla, non produce niente.

Il cosmo, le anime e il potere sintropico della preghiera: l’esempio di S. Antonio Abate

Abbiamo detto che l’universo è essenzialmente un sistema entropico condannato a morte dall’implacabile tribunale della termodinamica. Teilhard esprime il concetto in modo senz’altro più poetico ne La vita cosmica: «Il Cosmo non è che uno stelo passeggero destinato ad appassire»12. Tuttavia nel cosmo, prosegue il gesuita, ci sono le anime, che hanno la capacità di raccogliere, fissare e portare via, quando la morte le coglie come frutti maturi, tutto l’Assoluto che questo cosmo può veicolare: «Le anime, per le quali nulla è troppo bello e troppo prezioso in cielo e sulla terra, le anime, quintessenza delle perfezioni elaborate dalla Vita naturale e luogo di ineffabili elevazioni operate dalla santificazione»13. Dunque le anime sante, secondo Teilhard, hanno il potere di salvare dall’azione delle forze entropiche e dissipatrici l’assoluto che questo universo può diffondere e comunicare. E in che modo lo farebbero? Sintonizzandosi sulle forze sintropiche, che sono poi le forze divine, convergenti e portatrici di vita. La logica è un po’ quella della parabola del grano e della zizzania (Mt 13,24-30): accanirsi contro la zizzania (le forze entropiche) non solo non serve ma è controproducente; occorre concentrarsi sul grano (le forze sintropiche), farlo crescere più della zizzania. Così hanno fatto i santi di ogni epoca e tradizione religiosa, e in modo speciale i mistici, gli anacoreti, i reclusi e le recluse, i solitari di Dio. Lo hanno fatto con le armi della preghiera, dell’attenzione, della contemplazione e dell’amore, che hanno il potere di unificare l’uomo salvandolo dalla frammentazione in cui abitualmente vive. Pensiamo a S. Antonio Abate, le cui gesta sono state tramandate da Atanasio di Alessandria – che fu suo discepolo – nella Vita Antonii. Antonio ottenne spettacolari vittorie sulle forze dell’entropia e della dissipazione, come emerge dalla descrizione dell’incontro con alcuni suoi conoscenti che erano andati a trovarlo. Da circa vent’anni Antonio si era ritirato nel deserto, dove conduceva vita ascetica pregando, lavorando e nutrendosi solo di un po’ di pane, sale e acqua: «Si fece loro innanzi Antonio, come un iniziato ai misteri che esce dal sacro recesso, ispirato da Dio. Allora per la prima volta lo videro fuori dal castello quelli che erano andati da lui. Si meravigliarono al vedere che le sue condizioni fisiche erano sempre le stesse, non impinguato per la mancanza di moto, né dimagrito dai digiuni e dalle lotte con i demoni: era come l’avevano visto prima che si chiudesse nel suo ritiro»14. Sant’Antonio visse in questo modo fino alla bella età di 105 anni, a riprova dello straordinario potere sintropico della preghiera.

I reclusi, le recluse e l’esortazione di Doroteo di Gaza

Lo stesso potere sperimentarono altre figure leggendarie come i “reclusi” e le “recluse”, da Barsanufio e Giovanni a Viborada di San Gallo, da Giuliana di Norwich a suor Nazarena Crotta, la camaldolese vissuta per 44 anni in una cella del monastero di S. Antonio Abate sull’Aventino a Roma. Tutte queste persone raggiunsero già nella loro vita terrena, in una sorta di proiezione escatologica, quel polo finale dell’evoluzione di cui dicevamo sopra: massima coscienza, minima energia. Esigua l’energia fisica spesa dai reclusi e dalle recluse nelle loro vite ritirate e semplici; altissimo il livello di coscienza e consapevolezza. Un’esortazione lasciataci da Doroteo di Gaza, un cenobita del VI secolo allievo di Barsanufio e Giovanni, fa capire quale importanza questi contemplativi attribuivano al rimanere unificati, sintonizzati sulle energie sintropiche. A un giovane discepolo che gli chiedeva come comportarsi quando le cose da fare sono tante e urgenti, Doroteo rispose: «Per tutto ciò che devi fare, anche se è molto urgente e richiede molta cura, non vorrei vederti discutere o agitarti. Per una calma sicura, sappi che ogni cosa che fai, sia grande o piccola, è solo un ottavo del problema, mentre mantenere indisturbata la propria condizione, persino se con ciò si dovesse mancare di adempiere al compito, rappresenta gli altri sette ottavi. Così, se sei impegnato in un qualunque compito e desideri farlo alla perfezione, cerca di compierlo – il che, come ho detto, sarebbe un ottavo del problema, e allo stesso tempo di conservare illeso in tuo stato – il che costituisce i sette ottavi. Se, tuttavia, allo scopo di compiere il tuo dovere fossi inevitabilmente trascinato via e danneggiassi te stesso o qualcun altro nel discutere con lui, non dovresti perdere sette ottavi per salvare un ottavo»15. Viene naturale fare un parallelo tra l’insegnamento di Doroteo e il brano evangelico di Marta e Maria (Lc 10,38-42): Maria viene lodata perché rimane centrata su Gesù, in contemplazione, perfettamente unificata; Marta, al contrario, si lascia trascinare e frammentare dall’agitazione interiore e dall’azione disordinata.

L’esempio di Pierre Teilhard de Chardin, Pavel Florenskij ed Etty Hillesum

Nel XX secolo altri uomini e donne di fede combatterono con successo contro le forze entropiche, o, come è meglio dire, si schierarono risolutamente a favore delle forze sintropiche. Non si tratta di monaci, di anacoreti né tantomeno di reclusi e recluse ma di credenti profondamente calati nel mondo, negli eventi più drammatici del ‘900: parliamo di Pierre Teilhard de Chardin, Pavel Florenskij ed Etty Hillesum. Teilhard de Chardin (1881 – 1955) combatté la sua battaglia nelle trincee del fronte franco-tedesco durante la I guerra mondiale. Nella prefazione a L’uomo, l’universo e Cristo, Luciano Mazzoni Benoni mette l’accento sulle condizioni in cui Teilhard era costretto a lavorare, «condizioni estreme per uno scrittore»: «È sorprendente che un uomo impegnato come portaferiti in terribili combattimenti e la cui vita si svolgeva quasi sempre nel fango delle trincee abbia utilizzato brevissimi periodi di riposo per stendere sulla carta appunti e piani di studio e successivamente composto saggi sui problemi più ardui. Terminato uno scritto, egli lo mandava alla cugina o alla sorella Guiguitte oppure a qualche confratello, chiedendone la battitura. In genere, portata a termine una prima stesura recante molte correzioni, egli la trascriveva»16. Fu in quel periodo, racconta lo stesso Teilhard, che affluirono nel suo cuore «i lampi dello spirito»17. E fu proprio in quei frangenti che la vena poetica del gesuita francese, emersa già molto presto, trovò piena espressione «in una serie di potenti scritti lirici lasciati come “testamento”» nel caso l’autore fosse caduto sul campo di battaglia, scrive la teologa Ursula King18. Secondo Claude Cuénot, considerato il biografo ufficiale di Teilhard, la qualità lirica di quegli scritti di guerra è tale da porli «a pari merito con la più fine poesia religiosa al mondo». Se Teilhard poté raggiungere tali vette liriche scrivendo nelle trincee, tra il sangue, il fango e le bombe, fu in virtù delle sue straordinarie capacità di attenzione e di preghiera. Già l’antica tradizione cristiana, soprattutto orientale, riflettendo sull’assonanza tra le parole greche “prosoché” (attenzione) e “proseuché” (preghiera), aveva messo in evidenza la stretta relazione esistente tra queste due realtà: «L’attenzione che cerca la preghiera troverà la preghiera: la preghiera infatti segue all’attenzione ed è a questa che occorre applicarsi» (Evagrio Pontico). In tempi più recenti anche Simone Weil, rifacendosi a Malebranche, parlerà dell’attenzione in termini di preghiera: «L’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera. Suppone la fede e l’amore. L’attenzione assolutamente pura è preghiera»19.

Pavel Florenskij (1882 – 1937), matematico, teologo, poeta, scienziato, sacerdote ortodosso e padre di famiglia, visse situazioni non meno terribili di quelle di Teilhard de Chardin. Non nelle trincee della Grande Guerra ma in un campo di prigionia e rieducazione sovietico sulle isole Solovki, a poca distanza dal circolo polare artico. In quella realtà spaventosa, provato ma instancabile, Florenskij – sintonizzato sulle forze sintropiche grazie alla preghiera e all’attenzione – continuava a studiare, a fare ricerca, a realizzare scoperte scientifiche, a scrivere ai familiari appassionate lettere d’amore, fino a quando, l’8 dicembre 1937, venne fucilato nei pressi di Leningrado.

Anche Etty Hillesum (1914 – 1943) vinse le forze entropiche scatenatesi nel ‘900, e lo fece attraverso un percorso originalissimo, niente affatto canonico, che portò «la ragazza che non sapeva inginocchiarsi» – così si definiva Etty – a sviluppare una forza d’amore impressionante, una capacità di donarsi che non è esagerato definire cristica, eucaristica: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati e da tanto tempo», scrive20. Questo cammino di convergenza e sintropizzazione è avvenuto attraverso la preghiera, lo studio dei Salmi, la poesia di Rilke, la lotta terapeutica di Julius Spier (perché «corpo e anima sono una cosa sola»), la mistica di Meister Eckart e la scrittura. Per Etty scrivere è inizialmente «un altro modo di “possedere”, di attirare le cose a sé con parole e immagini»21. Più tardi, in un processo di purificazione, la scrittura diventa un metodo per esplorare la propria anima, poi un dovere morale necessario per testimoniare ciò che accadeva nel mondo e infine, durante il periodo di Westerbork, una pratica che conduce a essere, all’Essere: «Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere»22. «E dovunque si è, esserci “al cento per cento”. Il mio “fare” consisterà nell’essere»23.

Poesia ed essere

Un’altra personalità del ‘900 ha evidenziato la relazione tra la scrittura, la poesia e l’essere: si tratta di Marina Cvetaeva (1892 – 1941), la grande poetessa russa che nel giro di pochi anni perse il marito Sergej Efron, fucilato dall’NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni), vide la figlia Ariadna internata in un campo di lavoro e fu rinnegata dal figlio Georgij. Sopraffatta da tante tragedie, senza mezzi di sostentamento e ormai isolata dalla comunità letteraria russa, la Cvetaeva si uccise il 31 agosto 1941, non senza lasciarci, nelle sue opere, una nota di speranza. Riguardo alla poesia, Marina Cvetaeva scrive una cosa che il compianto Franco Loi considerava decisiva: «La poesia è qualcosa, o qualcuno, che dentro di noi vuole disperatamente essere». Sono praticamente le stesse parole di Etty Hillesum, perché identica è l’esperienza vissuta: l’esperienza d’essere. In una dinamica che ricorda quella dei trascendentali dell’essere, la poesia ci trasporta verso l’Essere assoluto, che è Dio. Possiamo allora senz’altro affermare che quel “qualcuno” di cui parla Marina Cvetaeva non è altri che il Cristo che vuole incarnarsi in ciascuno di noi. Cristo, l’unificatore per eccellenza, nostra sola salvezza dalle forze dell’entropia.

Marco Galloni

1 J. D. Faixat, Beyond Darwin – The Hidden Rhythm Of Evolution, “Addendum 7: Entropic-Syntropic Evolution”, p. 69.

2 Ivi, p. 70.

3 Ivi, p. 68.

4 G. Tanzella-Nitti, Il Papa e il Big Bang. Il caso Pio XII – Lemaître (1951-1952) a proposito del rapporto tra cosmologia e creazione, maggio 2016, https://disf.org/editoriali/2016-05.

5 G. Galilei, Lettere, Einaudi, Torino 1978, pp. 128-135.

6 P. Teilhard de Chardin, Per una nuova evangelizzazione del nostro tempo, in Id., L’uomo, l’universo e Cristo, Jaca Book, Milano 2012, p. 72.

7 Ivi, p. 71.

8 P. Teilhard de Chardin, Forma Christi, in Id., L’uomo, l’universo e Cristo, Jaca Book, Milano 2012, pp. 51-52.

9 P. Teilhard de chardin, La vita cosmica, in Écrits du temps de la guerre, Oeuvres, vol. XII, Éditions du Seuil, Paris 1976, pp. 54-55.

10 Cfr. L. Mazzoni Benoni, Prefazione a L’uomo, l’universo e Cristo, Jaca Book, Milano 2012, p. 24.

11 J. D. Faixat, op. cit., p. 77.

12 P. Teilhard de Chardin, La vita cosmica, in Écrits du temps de la guerre, Oeuvres, vol. XII, Éditions du Seuil, Paris 1976, p. 54.

13 Ibidem.

14 Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 14.1-3.

15 E. Kadloubovsky-G. E. H. Palmer, 1969, p. 161.

16 Cfr. L. Mazzoni Benoni, Prefazione a L’uomo, l’universo e Cristo, Jaca Book, Milano 2012, p. 8.

17 Ibidem.

18 Cfr. U. King, in Concilium 5/2017.

19 cfr. E. Bianchi, Lessico della vita interiore. Le parole della spiritualità, Prima edizione collana BUR Saggi, marzo 2004.

20 E. Hillesum, Les écrits d’Etty Hillesum. Journaux et lettres 1941-1943. Edition intégrale, (K.A.D. Smelik ed.), Edition Du Seuil, Paris 2008, p. 760.

21 Ivi, p. 62.

22 Ivi, p. 672.

23 Ivi, p. 742.

Pubblicato in Ecclesiologia
Martedì, 19 Aprile 2022 11:26

Pasqua 2022

E noi, in questo tempo, quando in tanti si sacrificano per un tempo di guerra, in questa Pasqua, continuiamo ad osare di celebrare la risurrezione con il racconto di un Dio sconfitto...

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Domenica, 27 Marzo 2022 01:05

C'è censura e censura… (Faustino Ferrari)

«La censura è il controllo della comunicazione da parte di un'autorità, che limita la libertà di espressione e l'accesso all'informazione con l'intento dichiarato di tutelare l'ordine sociale e politico» (Wikipedia).

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Nella società ogni riduzione degli spazi di confronto – anche quelli considerati più dialettici e conflittuali –, moltiplica la fecondità di un terreno ove si coltivano i germi che producono la guerra.

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La cosmogenesi proposta da Teilhard può dare un contributo importante – forse addirittura decisivo, definitivo! – alla riflessione sulla “giustificazione di Dio” dopo che, nel ‘900, le grandi teodicee del passato si sono infrante sugli orrori del secolo breve.

Pubblicato in Teologia

La conversione di Dio! Il libro di Giona è certamente molto ardito; Dio ha bisogno di convertirsi? Di pentirsi, persino? In realtà, chi ha già ascoltato il racconto del diluvio non si sorprende più di tanto...

Pubblicato in Bibbia
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