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L'Intercomunione agognata e proibita

di Gaëlle Courtens

Nei Cantoni elvetici, la popolazione è divisa quasi a metà tra protestanti e cattolici. E il tasso di coppie miste è assai elevato. Da qui la sofferenza delle famiglie interconfessionali, unite nella vita e divise al momento dell'Eucaristia.

«Sono molti i cattolici svizzeri che sono stati profondamente scioccati dalle recenti misure romane in materia di Eucaristia e in particolare di ospitalità eucaristica nei confronti dei non cattolici». Non usa mezzi termini padre Pierre Emonet, teologo e caporedattore della rivista Choisir, da sempre fortemente impegnato nel dialogo ecumenico in Svizzera. «In molte regioni, e in particolare in quelle connotate ecumenicamente, l'ospitalità eucaristica era ormai prassi più che consolidata. Il fatto è che la maggior parte dei fedeli si aspettava un'apertura da parte della gerarchia». Invece è arrivata l'enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia.

Una battuta d'arresto per il dialogo ecumenico? Padre Emonet non ne è convinto. «Non credo che alla base sia cambiato granché. Anzi, ho l'impressione che numerosi preti continuino a praticare l'ospitalità eucaristica in silenzio, senza alzare polveroni. Anche sul piano teologico non ci troviamo di fronte a un'impasse ecumenica», afferma. Padre Emonet cita le eccezioni previste dalla stessa enciclica, nonché le conclusioni a cui giunse il Sinodo 72 della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo, dove si dice che un cattolico può accostarsi alla Santa Cena protestante - vietata - solo nel caso che l'attaccamento del suddetto cattolico alla sua Chiesa e la sua fedeltà all'insegnamento cattolico siano manifesti e riconosciuti, e solo nel caso che il suo gesto non possa apparire come una rimessa in causa della sua fede nell'Eucaristia, né come l'espressione di un relativismo che banalizzerebbe il sacramento. In tale caso le ragioni di un’interdizione scompaiono, e ognuno viene rimandato alla propria coscienza (Décisions et recommandations, n. 117,6).

Per la natura stessa della posta in gioco, la «questione» è diventata «problema», non solo per i cattolici, ai quali di fatto è indirizzata l'enciclica, ma anche per i protestanti. Nel novembre del 2004 il Consiglio della Federazione delle Chiese evangeliche di Svizzera (Fces) ha pubblicato un documento intitolato La Cena nella visione protestante. Scopo dell'opuscolo è quello di dare un contributo al dibattito e alla collaborazione ecumenici. «Dopo l'enciclica sull'Eucaristia molte piccole vittorie acquisite negli anni attraverso un intenso dialogo ecumenico sono state rimesse in questione», afferma il pastore Thomas Wipf, presidente della Fces, cui fanno capo le Chiese riformate e metodiste. «Rispetto a questi temi desideriamo muoverci con la massima attenzione nei confronti della sensibilità cattolica. Non chiediamo ai preti cattolici di celebrare insieme ai nostri pastori e alle nostre pastore la Santa Cena. Ma non dimentichiamoci che esiste un autorevole documento, la Charta Oecumenica, che ha assegnato alle Chiese la missione di muoversi in direzione dell'obiettivo della condivisione eucaristica».

Non a caso anche l'opuscolo della Fces ricorda gli impegni presi nella Charta Oecumenica varata nell'aprile del 2001 a Strasburgo dal Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa (Ccee), e dalla Conferenza delle Chiese europee (Kek).

Di fatto sono le concezioni di «Chiesa» e «ministero» tra le diverse confessioni a rappresentare il maggiore ostacolo all'ospitalità eucaristica. Spiega Emonet: «La principale difficoltà teologica sottolineata dai vescovi cattolici, è che la comunione eucaristica presuppone la comunione ecclesiale. Essa non è ancora acquisita con i riformati, poiché per i cattolici uno degli elementi essenziali ditale comunione ecclesiale è l'accettazione della successione apostolica, ossia dell'ordinazione dei vescovi, e il riconoscimento del primato papale».

vescovi svizzeri hanno incaricato la Commissione nazionale di dialogo cattolico/protestante, di cui padre Emonet è membro, di studiare più a fondo le varie implicazioni teologiche della relazione tra comunione ecclesiale e comunione eucaristica. «La questione è in cantiere», fa sapere Emonet. Nella visione protestante è Gesù Cristo stesso che invita alla sua Cena; essa viene affidata ai credenti riuniti in suo nome. «Alla nostra cena sono invitati tutti», spiega il pastore Wipf. «Ai protestanti non serve un prete consacrato, poiché unico mediatore tra Dio e gli esseri umani è Gesù Cristo».

Per quanto riguarda la diffusione dell'ospitalità eucaristica nelle Chiese svizzere, Wipf conferma l'impressione di padre Emonet: «Nella stragrande maggioranza dei casi il tutto si svolge in sordina, lontano dai riflettori. Nel nostro Paese vi è una tale commistione tra fede cattolica ed evangelica, a livello individuale, familiare, sociale e culturale, che la situazione elvetica di per sé dovrebbe essere considerata già come "straordinaria". Nella vita quotidiana elvetica, sotto un profilo ecumenico, tutto è indistricabilmente connesso, il numero delle coppie interconfessionali aumenta incessantemente: rispetto a tanti altri Paesi la Svizzera rappresenta un caso a sé».

È con questa idea di «eccezionalità» del caso elvetico che il pastore Wipf tenta di interpellare la sensibilità dei vescovi svizzeri, ricordando appunto che la stessa dottrina cattolica prevede già ora la possibilità di ospitalità eucaristica, ma solo in via eccezionale.

Più scettico il pastore Paolo Tognina, responsabile della comunicazione della Chiesa evangelica di lingua italiana in Svizzera. Profondo conoscitore della situazione socio-religiosa della Confederazione elvetica, si dice «poco fiducioso» in materia di dialogo ecumenico, e ancor meno per quanto riguarda la questione dell'ospitalità eucaristica: «Non è tra le priorità dei vertici della Chiesa cattolica svizzera. Oggi essa non è più, come una volta, minoranza nel nostro Paese».

Dati alla mano Tognina fa notare che tra tutti i cantoni una volta considerati "riformati", l'unico che è rimasto di fatto a maggioranza protestante è il Canton Berna. «La Svizzera non può più dirsi un Paese di cultura protestante. Negli ultimi 40 anni la percentuale degli abitanti di cultura cattolica è andata crescendo a causa dell'immigrazione dai Paesi dell'Europa latina. L'arrivo di italiani, spagnoli, portoghesi ha comportato una "cattolicizzazione" della società svizzera. Questo dato sociologico non ha certo contribuito a una maggiore "attenzione ecumenica" da parte della Chiesa cattolica in Svizzera, al contrario. È forte la sensazione di una involuzione rispetto alle conquiste ecumeniche. Le Chiese cristiane tutte poi, sono impegnate in primo luogo sulla propria sopravvivenza».

La Svizzera infatti, come tutti i Paesi europei, non si salva dall'avanzata della secolarizzazione. Cattolici e protestanti continuano a perdere terreno. Secondo i dati dell'Ufficio federale di statistica riferiti al censimento della popolazione del 2000, si professa cattolico il 42% della popolazione residente in Svizzera, mentre i protestanti sono ormai al 33%. La percentuale delle persone che si riconosce in questi due gruppi è passata tra il 1970 e il 2000 dal 95% al 75%. La non appartenenza religiosa, fenomeno ancora del tutto marginale negli anni '70, è salita a una media dell' 11%, e arriva a picchi del 30% nelle zone maggiormente urbanizzate.

Con i nuovi flussi migratori, poi, si sta verificando una «pluralizzazione» relitiosa. L'Ufficio federale di statistica mette in rilievo come solo negli ultimi 10 anni si sia esteso il fenomeno delle coppie miste, non solo biconfessionali, ma anche bireligiose, o di cui un solo partner dichiara la sua appartenenza religiosa. Nel 1970 l'84% delle coppie era monoconfessionale. Oggi lo sono il 60% delle coppie residenti in Svizzera. La maggiore progressione tuttavia si osserva per le coppie miste cattolico-protestanti, che sono passate dal 3,3 % del 1970 al 17% della popolazione del 2000. «La mia esperienza personale mi dice che sono di più i cattolici ad accostarsi alla Santa Cena protestante, che non gli evangelici a partecipare alla Messa cattolica», nota Tognina, che vive e lavora nel Canton Ticino, tradizionalmente cattolico. «E non è detto che le persone profondamente credenti non soffrano per questa situazione di separazione di fronte alla Cena del Signore».

(Jesus, ottobre 2005, pp. 60-62)
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Spiritualità ecumenica

Dimensione permanente per i discepoli di Gesù

di Mario Polastro




Il testo fondamentale che motiva l’attività ecumenica è la preghiera d’addio di Gesù quando, alla vigilia della sua passione, chiede al Padre che i suoi discepoli siano una cosa sola. La ”spiritualità ecumenica” non consiste nel nostro darci da fare o nell’aggiungere “‘azioni spirituali” ad altre di diversa natura, ma nel rispondere al comando del Cristo.

“Una spiritualità cristiana biblica è essenzialmente una comunione di vita con Gesù Cristo crocifisso, risorto e presente con il suo Spirito nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali. Egli vuole che noi facciamo tutto il possibile per superare le divisioni tra i cristiani e ritrovare l’unità visibile nella fede, nei sacramenti e nei ministeri ecclesiali. La principale motivazione per l’attività ecumenica non risiede nel nostro discernimento umano, per quanto rilevante, ma unicamente nella volontà di Gesù Cristo il quale, alla vigilia della sua passione ha pregato per i suoi discepoli, affichè essi fossero una cosa sola. La motivazione di una spiritualità ecumenica deve dunque essere “cristologica” e non soltanto “filantropica”. Il testo fondamentale. di una spiritualità ecumenica deve essere la preghiera d’addio di. Gesù, [...] l’inesauribile testo di Giovanni 17» (Il regno-documenti, 21(2003), p. 661).

Mi scuso per la lunghezza della citazione, ma è fondamentale per impostare in modo corretto il discorso sulla “spiritualità ecumenica”.

Antidoto all’attivismo

Perché “spiritualità ecumenica” e non “ecumenismo spirituale’”? Unitatis redintegratio 8 parla di «ecumenismo spirituale» nel contesto del capitolo Il, “Esercizio dell’ecumenismo”. Stando alle affermazioni così come suonano, sembra quasi che si tratti di “azioni spirituali” le quali si aggiungono ad altre di diversa natura (ecumenismo teologico, ecumenismo della carità, ecumenismo del dialogo, ecc.).

In realtà sono tutti d’accordo, a partire da Paul Couturier, dal concilio Vaticano Il e oltre, che la “spiritualità ecumenica” non consiste nell’aggiungere qualcosa a ciò che si fa già, ma nel dare a “quello che siamo e che facciamo” la dimensione dell’anelito all’unità, in risposta alla preghiera e al comando di Gesù. Ecco allora l’importanza della citazione iniziale; è del vescovo di Basilea (Svizzera) Kurt Koch, il quale ha tenuto un’importante relazione sulla “Spiritualità ecumenica” nell’assemblea plenaria del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, presieduto dal cardinale Walter Kasper (2003). Lo stesso Kasper, parlando dell’”Ecumenismo in un prossimo futuro”, indica tre compiti fondamentali:

• approfondire il tema del battesimo e della fede battesimale;

• far crescere l’ecumenismo con documenti e azioni, ma anche e soprattutto attraverso una “rete ecumenica” di amicizie;

• coltivare la “spiritualità ecumenica” come antidoto al solo “attivismo”... . nella consapevolezza che l’unità è dono dello Spirito, che può solo essere invocato nella preghiera; la conversione personale; la lettura e la meditazione comune delle Scritture, la rete di comunità oranti sparse nel mondo... sono semi da gettare nel solco fumante della storia.

C’è un aspetto della “spiritualità ecumenica” al quale si bada troppo poco: nell’avvicinamento, nell’incontro e nel confronto con “l’altro”, la diversità può diventare “ricchezza”, ma qualche volta può anche diventare “sofferenza”, in quanto sono chiamato a cambiare, a purificarmi, a compiere quella continua “trasformazione di me”, che richiede sacrificio, ma che comporta anche tanta gioia. E’ quella che viene detta «ermeneutica dell’apprendimento e della sofferenza» (Kurt Koch).

Certo, l’ecumenismo nella Chiesa cattolica romana (come d’altronde nelle altre Chiese) ha ormai una lunga storia... di esperienze, di riflessione, di dialogo. E questo vale anche e soprattutto per la “spiritualità ecumenica”, che si presenta come frutto maturo proveniente dai tempi di padre Paul Couturier (morto nel marzo 1953). Il dibattito conciliare ha fatto la sua parte, ma soprattutto “il vissuto ecumenico” ha aperto le vele al vento dello Spirito.

Verso la comunione piena

Sono parroco da molti anni, e per la mia comunità parrocchiale l’ecumenismo non è un’appendice dell’attività pastorale, ma è una dimensione permanente del nostro essere “discepoli di Gesù”. Per cui il pastore valdese, che viene a predicare la liturgia penitenziale e che chiede con grande fede di poter ricevere la comunione eucaristica, non stupisce ma edifica, non ingenera confusione ma ci aiuta a pregustare la gioia della “comunione piena”, che sta al centro... o al vertice della “spiritualità ecumenica”. Anche le coppie interconfessionali, con cui lavoro da 40 anni circa, sono una fucina di” spiritualità ecumenica”. Sempre più hanno preso coscienza del loro essere “chiesa domestica”, “unite nel battesimo e nel matrimonio”, “nutrite quotidianamente dalla preghiera e dall’amore sponsale”: ma, ahimé, divise (secondo la Chiesa) alla mensa del Signore.

Alcune coppie non possono più attendere e, spinte dalla “grave necessità spirituale”, fanno la comunione insieme senza peraltro staccarsi dalle rispettive Chiese, ma andando “oltre” le discipline ecclesiastiche. E lo Spirito attraverso i piccoli incoraggia a proseguire il cammino. E’ festa. Chiara fa la prima comunione. Papà è cattolico, mamma è protestante. Tutti si avviano alla mensa e la mamma rimane nei banchi. Chiara va, prende il pane di Gesù, che è il suo corpo e il suo sangue, lo rompe... metà lo prende lei e metà lo dà alla mamma. Stupore e commozione. Se non è spiritualità ecumenica questa, cos’altro possiamo invocare dal Signore?!

Ti rendo grazie, o Padre, perché tu riveli le cose grandi ai piccoli (cf Mt 11,25) come Chiara.


* Presbitero di Pinerolo (To)


(da Vita Pastorale, dicembre 2005)


BIBLIOGRAFIA

Couturier P., Ecumenismo spirituale (a cura di M. Villain), Ed. Paoline 1965, pp. 370; Pattaro G., Corso di teologia dell’ecumenismo, Queriniana 1985, Brescia, pp. 436; Cullman O., L’unità attraverso la diversità, Queriniana 1987, Brescia, pp. 138; Sartori L., L’unità delta Chiesa. Un dibattito e un progetto, Queriniana 1989, Brescia, pp. 230; Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, La spiritualità ecumenica. Contributi di W. Kasper e di K. Koch: Il regno-documenti, 21(2003), pp. 653-664.

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Dialogo ecumenico

La diversità nelle visioni ecclesiologiche

di Andrea Pacini



L’intesa futura dipenderà dal nesso tra sinodalità e unità e dalla dialettica tra ministero episcopale e dimensione monastico-carismatica.

Il tema ecclesiologico costituisce come è noto un argomento centrale del dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, e non è un caso che l’intero lavoro della Commissione internazionale di dialogo teologico tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse si sia sviluppato e articolato su temi inerenti tale argomento. Anche la recente ripresa dei lavori della Commissione nel settembre 2006 non si è discostata da tale interesse, essendo stata messa all’ordine del giorno la questione del rapporto tra conciliarità e autorità nella Chiesa. Esistono certamente alcuni punti importanti sui quali è emersa e si è consolidata una diversa visione ecclesiologica in ambito ortodosso e in ambito cattolico: il primato petrino, con le sue prerogative di giurisdizione universale sulle Chiese e di infallibilità nell’insegnamento – poste determinate condizioni – e la conseguente tendenziale unità centralizzata della Chiesa cattolica, è lontano dall’ecclesiologia elaborata nell’Oriente ortodosso.

All’interno dell’ortodossia si è sviluppata e tuttora è teologicamente sostenuta e praticata un’ecclesiologia di ispirazione più nettamente sinodale a tutti i livelli: sia nella comprensione della Chiesa locale, sia nella comprensione della Chiesa universale, che trova espressione nella pluralità delle Chiese ortodosse in comunione reciproca, e in cui la somma autorità in materia di fede, di morale e di disciplina è il Concilio ecumenico. Abbiamo già evidenziato su queste pagine come tale posizione delle Chiese ortodosse non sia affatto esente da rischi e da cortocircuiti. Come hanno fatto notare alcuni teologi, quali Olivier Clément e Christos Yannaras, l’ortodossia ha fortemente indebolito al proprio interno la presenza di strutture ecclesiali di unità, senza le quali è difficile garantire un vissuto e un funzionamento realmente e pienamente comunionale delle Chiese ortodosse.

Prova di questo sono a tutt’oggi le dinamiche conflittuali e le tensioni centrifughe che caratterizzano le relazioni interortodosse, rispetto alle quali le Chiese stesse non sembrano avere strumenti atti a concretizzare soluzioni efficaci. Probabilmente la mancanza di tali strumenti che possano promuovere l’esercizio di una reale comunione è dovuta alla mancanza di una più approfondita riflessione teologica sull’importanza delle "strutture di unità" nella Chiesa, che, una volta teologicamente fondate, possano essere valorizzate nel vissuto ecclesiale a tutti i livelli. In questa prospettiva la ripresa della riflessione sul rapporto tra autorità e conciliarità nella Chiesa all’interno del dialogo ecumenico è certamente importante: essa sarà però feconda nell’orizzonte di un reale progresso verso l’unità della Chiesa solo se prenderà in serio conto la questione delle strutture ecclesiali atte a promuovere e a esprimere la comunione nella Chiesa e della Chiesa, e in questa prospettiva una riconsiderazione del ministero petrino è imprescindibile.

Da questo punto di vista se la Chiesa cattolica è chiamata a una sempre più profonda adesione a quanto indicato autorevolmente dal concilio Vaticano II riguardo alla collegialità e alla sinodalità, valorizzando il ruolo specifico del ministero petrino in tale contesto – che è il suo contesto vitale – le Chiese ortodosse sono chiamate a un coraggioso e non facile itinerario di riappropriazione teologica di strutture ecclesiali di unità che trovino espressione nel governo stesso della Chiesa, rispetto alle quali il principio petrino si pone come richiamo eloquente e inevitabile. Non si può d’altra parte non ribadire come all’interno dell’ortodossia il dialogo ecumenico su tali e altre questioni avvenga all’interno di un contesto ecclesiale caratterizzato da relazioni interortodosse non certo facili. Proprio la tensione ecclesiale esistente tra le diverse Chiese o all’interno di porzioni di Chiese per questioni di ordine giurisdizionale, mostra l’intrinseca debolezza di una teologia di comunione priva di un riferimento reale a strutture ecclesiali di unità che siano in grado di promuovere in modo efficace la comunione.

Si potrebbe però anche aggiungere che il dibattito sulle questioni ecclesiologiche si sviluppa all’interno dell’ortodossia in un contesto in cui si confrontano due posizioni teologiche di fondo, che sono state più volte delineate dal metropolita Giovanni di Pergamo (Ioannis Zizioulas), uno dei più importanti teologi ortodossi contemporanei. Le due posizioni teologiche sono riconducibili a due visioni di Chiesa e a due contesti ecclesiali. Molto in sintesi la prima visione ecclesiologica è quella denominata "terapeutica", in cui prevale una visione della Chiesa come spazio di "guarigione" dell’uomo – guarigione dalla caduta, dal peccato, dal disordine morale e spirituale – e in cui storicamente si è sviluppata una grande valorizzazione dell’impegno ascetico, non indenne talvolta da qualche tensione con il primato della pratica sacramentale. Nella migliore teologia e spiritualità orientale la sacramentalità e l’ascesi non sono certo in opposizione, ma sono semmai le due ali della mistica, ovvero dell’esistenza cristiana consapevole, vissuta in comunione con Dio in Cristo per lo Spirito.

Non solo, ma la stessa sacramentalità ha una chiara priorità nell’ordine della grazia e del vissuto cristiano. Tuttavia l’insistenza sull’ascesi, tipica soprattutto dell’ambito monastico, che nell’ortodossia ha avuto e continua ad avere notevole influenza sui fedeli e nel vissuto ecclesiale concreto, ha condotto a una visione ecclesiologica terapeutica, in cui l’impegno ascetico di ispirazione monastica viene proposto come strutturale per la vita credente, e il monaco diviene non solo il modello della vita cristiana, ma anche colui che detiene l’autorità carismatica nella Chiesa e per l’esistenza credente. In altre parole l’accentuazione della centralità dell’ascesi accanto alla vita sacramentale, avrebbe condotto secondo l’analisi di teologi ortodossi – tra i quali spicca Zizioulas – a una comprensione dell’autorità nella Chiesa in cui l’elemento monastico-carismatico rischia di divenire una sorta di soggetto alternativo rispetto al ruolo episcopale, con un reale depotenziamento dell’autorità dottrinale e pastorale del vescovo.

L’altra tendenza ecclesiologica, che si è sviluppata in epoca contemporanea rivalorizzando la teologia patristica, è quella denominata "ecclesiologia liturgica" o "eucaristica", che mette al centro il primato della sacramentalità nella generazione della Chiesa e del suo vissuto – dunque nella vita dei fedeli – enfatizzando nel contempo la dimensione escatologica di cui la Chiesa grazie ai sacramenti è intessuta. Ne consegue che in tale prospettiva viene pienamente valorizzato il vescovo, che della sacramentalità della Chiesa è nello stesso tempo espressione e ministro, e cui viene riconosciuto il ruolo di guida dottrinale e pastorale della Chiesa, al cui discernimento viene anche sottoposto il vissuto carismatico monastico.

Identificare con lucidità queste due prospettive ecclesiologiche è importante per interpretare il vissuto ortodosso contemporaneo, anche in rapporto alla dimensione ecumenica. Spesso sono infatti gli ambiti monastici che, per un senso di responsabilità nei confronti della tradizione di cui si considerano carismaticamente i custodi, sono più inclini a valutare in modo critico il dialogo ecumenico e i suoi risultati: è quanto avviene in Grecia – si pensi al Monte Athos ma non solo – e in Russia.

L’influenza degli ambiti monastici tra i credenti e la loro possibilità concreta di influenzare e condizionare le scelte ecumeniche dei vescovi non è frutto solo di dinamiche contemporanee, ma di una lunga evoluzione storica che si è sedimentata nelle prospettive ecclesiologiche sinteticamente delineate sopra. Tutto questo diviene poi importante nel processo di recezione dei risultati dei dialoghi ecumenici, in cui la risposta della "base" in ambito ortodosso è fondamentale. Emerge allora come il futuro dell’ecumenismo con l’ortodossia sul piano ecclesiologico dipenderà dalla convergenza su posizioni teologiche comuni intorno al nesso sinodalità-unità, ma anche dalla dialettica tra ministero episcopale e dimensione monastico-carismatica all’interno delle Chiese ortodosse stesse: quest’ultima questione avrà una rilevanza fondamentale per la recezione progressiva dei risultati del dialogo.

(da Vita Pastorale, 4, 2007)

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Dialogo per "superare ogni divisione"

intervista a Samuel Kobia *


Il dialogo? “Più si è vicini alla vetta più bisogna fare attenzione perché nessuno rimanga indietro”. Anche perché “le questioni morali, più che le questioni teologiche classiche, stanno minacciando di dividere le Chiese e le comunioni mondiali cristiani”. E per questo bisogna parlarsi, con calma. Perché qualche traguardo è vicino. Il reverendo Samuel Kobia per il dialogo ha speso una vita. Pastore metodista, 61 anni, dal 2004 è segretario del World Council of Churches (Wcc), il Consiglio ecumenico delle Chiese che annovera trecentoquarantasette fra Chiese e comunità religiose. Il 16 giugno del 2005 ha fatto visita a Papa Benedetto XVI, pochi giorni prima di recarsi in Russia per incontrare il patriarca Alessio II. Dall'inizio degli anni Ottanta è attivo nel favorire il dialogo e l'unità, a partire dal Consiglio nazionale delle Chiese del Kenya, il Paese dove è nato. Un impegno costante, in ogni angolo del mondo. Oggi dunque il reverendo Kobia ritiene che il dialogo passi anche attraverso il confronto sui temi etici, oltre che teologici. Le sfide della globalizzazione inoltre chiedono alle Chiese di dare risposte convincenti all'individualismo e al capitalismo esasperato, tenendo conto delle difficoltà poste dalla rinascita di movimenti nazionalisti e fondamentalisti. Compiti difficili ma non proibitivi, perché il reverendo Kobia ha due sogni: approfondire i rapporti con Roma e vedere entro la metà del secolo ogni cristiano “benvenuto alla mensa del Signore in ogni chiesa”.

Osservatore Romano: Per la prima volta il giornale del Papa intervista il segretario del Consiglio ecumenico delle Chiese. E accade in occasione dei 100 anni della settimana di preghiera per l'unità. Cento anni passati con quale bilancio?

Samuel Kobia: Cento anni fa, la Settimana di preghiera per l'Unità dei Cristiani sfidava l'odio e l'ostilità che avrebbe spinto i paesi cosiddetti cristiani verso la Prima guerra mondiale. La cooperazione ecumenica e la ricerca di unità tra le Chiese ha certamente svolto un ruolo nel superare il retaggio di due guerre mondiali e costruire rapporti pacifici in Europa.
Chi avrebbe pensato, all'inizio dello scorso secolo, che solo pochi decenni dopo ortodossi, anglicani, luterani, riformati, metodisti, battisti e Chiese di altra tradizione avrebbero lavorato insieme nel Consiglio Mondiale delle Chiese? Certamente il Concilio Vaticano II è stato uno spartiacque e ha aperto le porte a una cooperazione ecumenica significativa tra la Chiesa cattolica romana e molti membri del World Curch Council.

O.R. Parlando di ecumenismo sono in molti a sottolineare ciò che ancora divide e le difficoltà da superare. Perché di solito si mettono meno in evidenza i passi compiuti e gli obiettivi raggiunti?

S.K. Cercare l'unità visibile della Chiesa è come scalare una montagna. Il cammino diventa più erto e difficile più ci si avvicina alla vetta. Qualcuno vorrebbe fare una sosta prima di procedere, altri vorrebbero affrettarsi, forse perché ritengono che la meta sia vicina; ma sottovalutano la distanza che ancora rimane e i rischi che corrono arrampicandosi troppo in fretta. Più si è vicini alla vetta, più occorre fare attenzione affinché arriviamo tutti insieme e nessuno venga lasciato indietro o precipiti.

O.R. Si pensa in alcuni ambiti ecumenici, ma anche tra i cattolici, che il dialogo tra Roma e il Wcc sia più difficile rispetto al dialogo con le Chiese ortodosse. È fondata questa impressione, quali sono i motivi di questa maggiore difficoltà?

S.K. Il Wcc è una associazione di trecentoquarantasette Chiese membro, di tradizione ortodossa, protestante e anche di altre tradizioni. Non è facile paragonare il dialogo tra la Chiesa cattolica romana e quelle ortodosse con il dialogo multilaterale che il Wcc persegue attraverso la Commissione Fede e Costituzione. Le persone alle quali lei si riferisce forse non sanno che il Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani partecipa pienamente al lavoro di questa commissione. Naturalmente, sia la Chiesa ortodossa sia quella cattolica romana sottolineano il ruolo centrale del vescovo e della successione apostolica. Non tutte le Chiese membro del Wcc concordano con ciò. Questo rimane uno degli ostacoli sul cammino verso l'unità della Chiesa.

O.R. In ambito ecumenico ora si cerca di andare in profondità. Dopo il dialogo della carità ora si punta a considerare il dialogo teologico. Pensa che potranno sorgere nuove difficoltà?

S.K. In effetti, il dialogo teologico sull'insegnamento e sulle pratiche delle Chiese è sempre stato una dimensione fondamentale del movimento ecumenico e del Wcc. Inoltre, il Wcc ha sempre considerato l'unità, la testimonianza e il servizio congiunto come tre dimensioni correlate della vita e della missione della Chiesa. Oggi le tensioni sorgono non tanto intorno alle questioni teologiche classiche dell'unità della Chiesa, quanto su convinzioni etiche e morali. Le questioni morali stanno minacciando di dividere le Chiese e le comunioni mondiali cristiane. Secondo alcuni è in gioco la verità del Vangelo. Dicono che bisogna scegliere fra unità e verità. Questa situazione riguarda molte Chiese, a prescindere dalla loro tradizione teologica.

O.R. Benedetto XVI ha trovato un generale riscontro positivo nell'ambito ecumenico quale interlocutore affidabile ed esperto dei problemi sul tappeto. Ci sono delle attese particolari da parte del Wcc nei suoi confronti?

S.K. Abbiamo grande rispetto per l'impegno ecumenico di Sua Santità Papa Benedetto XVI. All'inizio del suo pontificato il Papa ha ribadito il suo pieno impegno per l'ecumenismo e ha detto che il cammino verso l'unità visibile è irreversibile. Ciò ci è servito come grande incoraggiamento e ispirazione. Siamo molto grati per il sostegno che offre al cardinale Kasper e al Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani.

O.R. Può delineare un bilancio di massima nel dialogo tra Roma e Wcc? Ci sono speranze per nuovi progressi?

S.K. Permettetemi di dare un esempio dei risultati del dialogo e della cooperazione tra il Vaticano e il Wcc. Ai tempi del Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica romana non era membro di nessun consiglio di Chiese nazionale o regionale. Tuttavia, nel 1971, solo sette anni dopo la promulgazione del decreto sull'ecumenismo Unitatis redintegratio, la Chiesa era entrata a far parte dei consigli nazionali delle Chiese in undici Paesi. Nel 2003 questo numero era salito a settanta. La Chiesa cattolica romana ora fa parte di tre organizzazioni ecumeniche regionali su sette. Le Chiese membro del Wcc e la Chiesa cattolica romana devono affrontare molte sfide comuni nel contesto sociale, politico, culturale e religioso e nel panorama ecclesiale in rapido cambiamento.

O.R. Che significato assume per il Wcc la Settimana di preghiera per l'unità che quest'anno festeggia il suo centesimo anniversario?

S.K. La Settimana di preghiera per l'Unità dei Cristiani offre un'opportunità a ogni congregazione e alle Chiese locali di praticare insieme l'ecumenismo in maniera fondamentale ed essenziale. Spesso non raggiungiamo le Chiese locali con le nostre pubblicazioni e gli altri mezzi di comunicazione; il materiale per la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani invece le raggiunge. La pagina dedicata alla Settimana di preghiera è tra le più visitate nel sito internet del Wcc.

O.R. Quali sono le iniziative del Wcc per la Settimana?

S.K. Abbiamo celebrato il centenario la scorsa domenica a Ginevra, insieme con le Chiese locali della regione ginevrina e con i rappresentanti delle Chiese provenienti da diversi parti del mondo. Volevamo dimostrare che la Settimana di preghiera ha un profondo significato per l'ecumenismo locale e per la cooperazione ecumenica in tutto il mondo.
Abbiamo volutamente programmato l'incontro del gruppo congiunto di lavoro della Chiesa cattolica romana e del Wcc a Roma durante il periodo della Settimana di preghiera. Venerdì parteciperò, insieme con i membri del gruppo, alla celebrazione ecumenica in occasione del centenario che si terrà nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, presieduta da Papa Benedetto.

O.R. Il Wcc celebra quest'anno anche i suoi sessanta anni di vita. Può tracciare un bilancio dei risultati e delle difficoltà registrati in questi decenni?

S.K. Il Wcc è cresciuto molto in questi 60 anni. Mentre la maggior parte delle Chiese fondatrici hanno sede in Europa e in Nord America, il Wcc è diventata un'associazione di Chiese veramente mondiale nel 1961, quando molte Chiese del sud si sono unite ad essa insieme con il Consiglio Missionario Internazionale. E un numero rilevante delle Chiese ortodosse orientali degli ex Paesi comunisti potrebbero entrare a far parte del Wcc durante l'assemblea che si terrà a New Delhi. Un altro importante passo avanti è stato la partecipazione di osservatori ecumenici al Concilio Vaticano II e l'istituzione del Segretariato per l'unione dei cristiani, poi diventato il Pontificio consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani. Si sono sviluppati vincoli strutturali tra il Wcc e la Chiesa cattolica romana. L'Assemblea di Uppsala nel 1968 ha segnato una svolta nella testimonianza sociale del Wcc. L'impegno per la giustizia e contro il razzismo venne messo in cima all'agenda. Negli ultimi venti anni la globalizzazione ha cambiato il contesto in cui viviamo a tutti i livelli. I profondi cambiamenti dopo la caduta del muro di Berlino hanno inciso sui rapporti con le Chiese membro ortodosse. Ci siamo dovuti confrontare con una crisi profonda nel 1997, subito prima dell'assemblea di Harare. Oggi ringraziamo Dio perché questa crisi ha messo in evidenza alcune delle nostre debolezze fondamentali. La Commissione speciale sulla partecipazione ortodossa al Wcc ha avviato cambiamenti importanti nell'ethos e nei processi decisionali del Wcc. Ritengo che le Chiese vedono sempre più e di nuovo l'importanza e la necessità della cooperazione ecumenica attraverso il Wcc.

O.R. Quali sono i principali impegni e obbiettivi che attendono il Wcc nei prossimi mesi?

S.K. Nel programma abbiamo introdotto una nuova enfasi sull'accompagnamento delle Chiese nelle situazioni di conflitto. Ci stiamo preparando a inviare «lettere viventi» — vale a dire delegazioni delle Chiese membro che visitano una Chiesa membro che deve affrontare sfide difficili — nel mio paese natale, il Kenya, e anche in Sudan. Le «lettere viventi» contribuiscono al Decennio per superare la violenza che culminerà in una Convocazione Ecumenica Internazionale per la Pace nel 2011. Con il tema «Gloria a Dio e pace in terra», questo evento è inteso a rafforzare la testimonianza di riconciliazione e di pace giusta delle Chiese.
Un'altra priorità per le Chiese membro del Wcc è la situazione nel Medio Oriente e la necessità urgente di pace nell'intera regione. Attraverso il Forum Ecumenico Israele Palestina, costituito di recente, possiamo accompagnare le Chiese a un livello più profondo, aumentando la loro capacità di contribuire ai processi di pace in loco. Molte delle nostre Chiese membro e dei nostri interlocutori ecumenici hanno anche intensificato il lavoro nell'ambito dei cambiamenti climatici, riconoscendo le gravi conseguenze del riscaldamento globale su molti aspetti della vita.

O.R. Quali aree di conflitto interreligioso la preoccupano maggiormente?

S.K. Abbiamo osservato conflitti mortali di dimensioni etniche e interreligiose nascere in troppi posti negli ultimi anni, talmente tanti che non posso nemmeno elencarli. Uno degli sviluppi recenti che mi incoraggia è la lettera firmata da centotrentotto religiosi e studiosi musulmani. È un'iniziativa notevole e sfida le Chiese a rispondere con voce coerente.

O.R. Di fronte alla modernità e alle sfide della secolarizzazione secondo alcuni osservatori il Wcc si sente meglio attrezzato della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse. È un'opinione fondata?

S.K. È quello che si diceva in passato. Molti pensavano che le Chiese non avessero altra scelta che adattarsi al mondo moderno secolarizzato. Non credo più che ciò sia vero. Abbiamo visto la rinascita della religione e nuove politiche d'identità in risposta alla globalizzazione. Le comunità in molte parti del mondo si oppongono al forte individualismo e all'egemonia dei valori liberali occidentali. Questa è una delle ragioni per il crescente fondamentalismo. Osservo però anche l'emergere di nuove risposte al contesto che cambia, specialmente tra i giovani. Tutti noi dovremo adattarci alle nuove realtà del ventunesimo secolo, ma spero che possiamo farlo senza essere troppo relativistici. Dobbiamo rimanere saldamente radicati nei nostri valori cristiani fondamentali.

O.R. La figura di Gesù Cristo è diventata una delle questioni attuali anche nell'ambito della cultura laica. Esiste un comune sentire tra i cristiani su Gesù rispetto alla sensibilità laica e secolarizzata?

S.K. Papa Benedetto XVI ha scritto un libro molto istruttivo su Gesù. Gesù Cristo, figlio di Maria e figlio di Dio, che è una cosa sola con il Padre e con lo Spirito Santo, è l'origine e il centro della nostra fede cristiana. Mentre una simile affermazione è incompatibile con una mentalità secolarizzata, è il terreno comune per le Chiese membro del Wcc e per molte altre comunità cristiane. Unisce i cristiani attraverso l'ampio spettro delle denominazioni. Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, ci ha sempre ricordato che Gesù crocifisso e abbandonato è al centro della spiritualità dell'unità. Sono lieto di andarla a trovare sabato.

O.R. Quali sono i risultati emersi dalla tavola rotonda di Ginevra in occasione della settimana di preghiera per l'unità?

S.K. Quando ai partecipanti alla tavola rotonda all'inizio della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani a Ginevra è stato chiesto di dare esempi concreti dei risultati della mancanza di unità delle Chiese, la risposta di suor Sheila Flynn, religiosa domenicana che opera tra persone che convivono con hiv e aids nei pressi di Johannesburg, è stata: «Il risultato della mancanza di unità nel nostro contesto è la morte!». Questa affermazione mostra che l'unità della Chiesa non è soltanto una domanda o un concetto che qualche teologo o funzionario ecclesiastico potrebbe considerare importante. No, è un interrogativo che riguarda ogni singolo cristiano, poiché è una questione sulla vita o sulla morte. L'unità è imperativa per la credibilità della testimonianza della Chiesa nel nostro mondo.

O.R. Quali sono le basi per un dialogo fecondo tra le Chiese? In che modo la cultura e l'economia influenzano questo dialogo?

S.K. Il dialogo non può ignorare le condizioni contestuali delle Chiese. La cultura e l'economia sono fattori importanti che incidono sulla vita dei cristiani e sul loro reciproco percepirsi. Per molto tempo, i cosiddetti «fattori non teologici» non sono stati presi sufficientemente sul serio. La credibilità degli interlocutori nel dialogo soffrirà se lo scandalo del crescente divario tra ricchi e poveri o l'egemonia della cultura consumistica, che va di pari passo con l'espansione dell'economia globale, non verranno affrontati. La credibilità è un presupposto per la fiducia e la confidenza reciproche, necessarie per un dialogo fecondo.

O.R. Trecentoquarantasette fra Chiese e comunità religiose fanno parte del Wcc. Quale di queste sta portando contributi nuovi e/o nuovi impegni per l'organizzazione?

S.K. L'appartenenza al Wcc è stata ripetutamente definita come il desiderio delle Chiese membro di essere «insieme sul cammino» verso l'unità visibile e la testimonianza comune. In questo modo, le Chiese membro sono preparate a portarsi avanti reciprocamente, ognuna offrendo un dono particolare all'associazione, un dono che aiuta tutti noi a riconoscere la nostra unità in Cristo.

O.R. Qual è la sua visione personale dei futuri rapporti con Roma e del cammino ecumenico in generale?

S.K. La mia visione del movimento ecumenico è che entro la metà del ventunesimo secolo avremo raggiunto un livello di unità tale che i cristiani ovunque, a prescindere dalla loro affiliazione confessionale, potranno pregare e venerare insieme e sentirsi i benvenuti alla Mensa del Signore in ogni chiesa; e che attraverso questo esempio la Chiesa potrà aiutare l'umanità a superare ogni divisione e i popoli del mondo a riuscire a vivere insieme in pace e armonia, indipendentemente dal loro sfondo culturale e dalla loro identità. A tal fine, sono convinto che i rapporti tra il Wcc e Roma saranno più forti e profondi negli anni a venire. Personalmente sono impegnato a portare questo rapporto verso vette più alte.


* L’intervista con Samuel Kobia, segretario generale del Consiglio
ecumenico delle Chiese, è stata realizzata da Marco Bellizi e pubblicata da L’Osservatore
Romano’
il 24-01-2008.

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Il documento di Ravenna
Commissione mista cattolici-ortodossi




Cattolici e ortodossi concordano sul fatto che «il vescovo di Roma è... il protos tra i patriarchi... La conciliarità a livello universale, esercitata nei concili ecumenici, implica un ruolo attivo del vescovo di Roma, quale protos tra i vescovi delle sedi maggiori, nel consenso dell'assemblea dei vescovi». Queste affermazioni costituiscono «un positivo e significativo progresso» nel dialogo tra cattolici e ortodossi portato avanti dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, che riunitasi a Ravenna dall'8 al 14 ottobre 2007 per la sua X Sessione plenaria ha approvato il documento intitolato Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità («Documento di Ravenna»).

Pubblichiamo qui di seguito la traduzione italiana del Documento di Ravenna discusso e approvato all'unanimità dai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa durante la X sessione plenaria della Commissione a Ravenna, 8-14.10.2007.

Il documento è pertanto emanazione di una Commissione e non deve intendersi come una dichiarazione magisteriale. Il progetto base e la stesura finale del documento sono in lingua inglese. La traduzione italiana è stata curata dal Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani. Cf. Regno-att. 20,2007,664ss.

Introduzione

1. «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv17,21). Rendiamo grazie al Dio trino che ci ha riuniti - noi, i membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa nel suo insieme - affinché possiamo rispondere insieme in obbedienza a questa preghiera di Gesù. Siamo consapevoli che il nostro dialogo prende un nuovo avvio in un mondo che nei tempi recenti è profondamente cambiato. Il processo di secolarizzazione e di globalizzazione, come anche le sfide poste da nuovi incontri tra i cristiani e i credenti di altre religioni, richiedono con rinnovata urgenza ai discepoli di Cristo di dare testimonianza della loro fede, del loro amore e della loro speranza. Possa lo Spirito di Cristo risorto consentire al nostro cuore e alla nostra mente di recare i frutti dell'unità nelle relazioni tra le nostre Chiese, affinché possiamo servire insieme l'unità e la pace di tutta la famiglia umana. Possa lo stesso Spirito condurci alla piena espressione del mistero della comunione ecclesiale, che noi riconosciamo con gratitudine come un dono meraviglioso di Dio al mondo, un mistero la cui bellezza rifulge specialmente nella santità alla quale siamo tutti chiamati.

2. Secondo il «Piano» adottato nel primo incontro di Rodi nel 1980, la Commissione mista aveva iniziato a trattare il mistero della koinonia ecclesiale alla luce del mistero della santa Trinità e dell'eucaristia. Ciò aveva permesso di comprendere più profondamente la comunione ecclesiale, sia a livello della comunità locale radunata attorno al suo vescovo, che a livello delle relazioni tra i vescovi e tra le Chiese locali sulle quali ciascun [vescovo] presiede in comunione con la Chiesa una di Dio che si estende attraverso l'universo (cf. Documento di Monaco, 1982). Nell'intento di chiarire la natura della comunione, la Commissione mista aveva sottolineato la relazione esistente tra fede, sacramenti - con speciale riguardo ai tre sacramenti dell'iniziazione cristiana - e l'unità della Chiesa (cf. Documento di Bari, 1987). Successivamente, studiando il sacramento dell'ordine nella struttura sacramentale della Chiesa, la Commissione aveva indicato chiaramente il ruolo della successione apostolica quale garante della koinonia di tutta la Chiesa, e la sua continuità con gli apostoli, in ogni tempo e in ogni luogo (cf. Documento di Valamo, 1988). Dal 1990 al 2000, il principale argomento discusso dalla Commissione è stato «l'uniatismo» (Documento di Balamand, 1993; Documento di Baltimora, 2000), argomento che la Commissione mista considererà ulteriormente in un prossimo futuro. Essa affronta attualmente il tema sollevato nella conclusione del Documento di Valamo, e riflette sulla comunione ecclesiale, la conciliarità e l'autorità.

3. Sulla base di tali affermazioni comuni della nostra fede, dobbiamo trarre ora le conseguenze ecclesiologiche e canoniche derivanti dalla natura sacramentale della Chiesa. Poiché l'eucaristia, alla luce del mistero trinitario, costituisce il criterio della vita ecclesiale nella sua interezza, in che modo le strutture istituzionali riflettono visibilmente il mistero di questa koinonia? Poiché la Chiesa una e santa è realizzata in ciascuna Chiesa locale che celebra l'eucaristia e, allo stesso tempo, nella koinonia di tutte le Chiese, in che modo la vita delle Chiese manifesta tale struttura sacramentale?

4. Unità e molteplicità, la relazione tra la Chiesa una e le molte Chiese locali, tale relazione costitutiva della Chiesa pone anch'essa la questione della relazione tra l'autorità, inerente a ogni istituzione ecclesiale, e la conciliarità, che deriva dal mistero della Chiesa come comunione. Poiché i termini «autorità» e «conciliarità» abbracciano uno spazio molto vasto, inizieremo con il definire il modo secondo il quale noi li comprendiamo.1

I. I fondamenti della conciliarità e dell'autorità

1. Conciliarità

5. Il termine conciliarità o sinodalità deriva dalla parola «concilio» (synodos in greco, concilium in latino), che denota soprattutto un raduno di vescovi che esercitano una particolare responsabilità. Tuttavia è anche possibile comprendere il termine in un'accezione più ampia, nel senso di tutti i membri della Chiesa (cf. il vocabolo russo sobornost). Di conseguenza parleremo dapprima di «conciliarità» nel suo significato secondo il quale ciascun membro del corpo di Cristo, in virtù del battesimo, ha il suo spazio e la sua propria responsabilità nella koinonia (communio in latino) eucaristica. La conciliarità riflette il mistero trinitario e ha il suo fondamento ultimo in tale mistero. Le tre persone della santa Trinità sono «enumerate», come afferma san Basilio il Grande (Sullo Spirito Santo, 45), senza che la designazione come «seconda» o «terza» persona implichi una diminuzione o una subordinazione. Analogamente esiste anche un ordine tra le Chiese locali, che tuttavia non implica disuguaglianza nella loro natura ecclesiale.

6. L'eucaristia manifesta la koinonia trinitaria attualizzata nei fedeli come un'unità organica di molteplici membri, ciascuno dei quali ha un carisma, un servizio o un ministero proprio, i quali sono necessari, nella loro varietà e nella loro diversità, all'edificazione di tutti nell'unico corpo ecclesiale di Cristo (cf. 1Cor 12,4-30). Tutti sono chiamati, sono impegnati e sono resi responsabili - ciascuno in modo diverso, ma tuttavia non meno effettivo - nel comune compimento delle azioni che, per mezzo dello Spirito Santo, rendono presente nella Chiesa il ministero di Cristo, «via, verità e vita» (Gv 14,6). Così è realizzato nel genere umano il mistero della koinonia salvifica con la santa Trinità.

7. L'intera comunità e ciascuna persona che ne fa parte ha la «consapevolezza della Chiesa» (ekklesiastike syneidesis), come essa è definita dalla teologia greca, ovvero il sensus fidelium secondo la terminologia latina. In virtù del battesimo e della cresima (o crismazione), ciascun membro della Chiesa esercita una forma di autorità nel corpo di Cristo. In questo senso, tutti i fedeli (e non soltanto i vescovi) sono responsabili per la fede professata all'atto del loro battesimo. Secondo l'insegnamento che dispensiamo in comune, l'insieme del popolo di Dio, avendo ricevuto «l'unzione dal Santo» (1Gv 2,20.27), in comunione con i loro pastori, non può errare in materia di fede (cf. Gv 16,13).

8. Nel proclamare la fede della Chiesa e nel chiarire le norme del comportamento cristiano, i vescovi, per istituzione divina, hanno un compito specifico. «Quali successori degli apostoli, i vescovi sono responsabili della comunione nella fede apostolica e della fedeltà alle esigenze di una vita secondo l'Evangelo» (Documento di Valamo, n. 40; EO 3/1851).

9. I concili costituiscono il principale modo di esercizio della comunione tra i vescovi (cf. Documento di Valamo, n. 52). In effetti, «il raccordo alla comunione apostolica collega l'insieme dei vescovi che assicurano l'episkope delle Chiese locali al collegio degli apostoli. Anch'essi formano un collegio radicato dallo Spirito Santo nell'"una volta per sempre" del gruppo apostolico, testimone unico della fede. Questo significa non solo che devono essere uniti tra loro nella fede, nella carità, nella missione, nella riconciliazione, ma anche che comunicano nella stessa responsabilità e nello stesso servizio alla Chiesa» (Documento di Monaco, III, 4; EO 1/2197).

10. Tale dimensione conciliare della vita della Chiesa appartiene alla sua natura più profonda. Ciò equivale a dire che essa è fondata sulla volontà di Cristo per i suoi seguaci (cf. Mt 18,15-20), sebbene le sue realizzazioni canoniche siano necessariamente determinate anche dalla storia e dal contesto sociale, politico e culturale. Definita in questo modo, la dimensione conciliare della Chiesa dev'essere presente nei tre livelli della comunione ecclesiale, locale, regionale e universale: a livello locale della diocesi affidata al vescovo; a livello regionale di un insieme di Chiese locali con i loro vescovi che «riconoscono colui che è il primo tra loro» (Canoni degli apostoli, n. 34); e a livello universale, coloro che sono i primi (protoi) nelle varie regioni, insieme con tutti i vescovi, collaborano per ciò che riguarda la totalità della Chiesa. Inoltre a questo livello i protoi debbono riconoscere chi è il primo tra di loro.

11. La Chiesa esiste in molti luoghi diversi, ciò che manifesta la sua cattolicità. Essendo «cattolica», essa è un organismo vivente, il corpo di Cristo. Ciascuna Chiesa locale, se essa è in comunione con le altre Chiese locali, è una manifestazione della Chiesa di Dio, una e indivisibile. Essere «cattolica» significa pertanto essere in comunione con l'unica Chiesa di tutti i tempi e in ogni luogo. Per questo motivo rompere la comunione eucaristica significa ferire una delle caratteristiche essenziali della Chiesa, la sua cattolicità.

2. Autorità

12. Quando parliamo di autorità, ci riferiamo all'exousia, così come il Nuovo Testamento la descrive. L'autorità della Chiesa deriva dal suo capo e Signore, Gesù Cristo. Avendo ricevuto la sua autorità da Dio Padre, Cristo, dopo la sua risurrezione, l'ha condivisa, per mezzo dello Spirito Santo, con gli apostoli (cf. Gv 20,22). Attraverso di loro essa è stata trasmessa ai vescovi, ai loro successori e, attraverso di loro a tutta la Chiesa. Nostro Signore Gesù Cristo ha esercitato questa autorità in vari modi attraverso i quali, e fino al suo compimento escatologico (cf. 1Cor 15,24-28), il regno di Dio si manifesta al mondo: ammaestrando (cf. Mt 5,2, Lc 5,3); compiendo miracoli (cf. Mc 1,30-34; Mt 14,35-36); scacciando gli spiriti impuri (cf. Mc 1,27; Lc 4,35-36); rimettendo i peccati (cf. Mc 2,10; Lc 5,24); e guidando i suoi discepoli sulla via della salvezza (cf. Mt 16,24). In conformità al mandato ricevuto da Cristo (cf. Mt 28,18-20), l'esercizio dell'autorità propria agli apostoli e successivamente ai vescovi comprende la proclamazione e l'insegnamento del Vangelo, la santificazione attraverso i sacramenti, in particolare l'eucaristia, e la guida pastorale di coloro che credono (cf. Lc 10,16).

13. L'autorità nella Chiesa appartiene a Gesù Cristo stesso, l'unico capo della Chiesa (cf. Ef 1,22; 5,23). Per mezzo del suo Spirito Santo, la Chiesa, in quanto suo corpo, partecipa alla sua autorità (cf. Gv 20,22-23). Scopo dell'autorità nella Chiesa è radunare tutta l'umanità in Gesù Cristo (cf. Ef 1,10; Gv 11,52). L'autorità, connessa alla grazia ricevuta nell'ordinazione, non è possesso privato di coloro che la ricevono né è un qualcosa che la comunità dà in delega; al contrario, è un dono dello Spirito Santo destinato al servizio (diakonia) della comunità e mai esercitato al di fuori di essa. Il suo esercizio comporta la partecipazione di tutta la comunità, essendo il vescovo nella Chiesa e la Chiesa nel vescovo (cf. Cipriano, Ep. 66, 8).

14. L'esercizio dell'autorità compiuto nella Chiesa, in nome di Cristo e per mezzo della potenza dello Spirito Santo, deve essere - in ogni sua forma e a tutti i livelli - un servizio (diakonia) d'amore, al pari di quello che fu di Cristo (cf. Mc10,45; Gv 13,1-16). L'autorità di cui parliamo, in quanto esprime l'autorità divina, può sussistere nella Chiesa soltanto nell'amore tra colui che la esercita e coloro che sono soggetti a essa. Pertanto si tratta di un'autorità senza dominazione, senza coercizione sia essa fisica o morale. In quanto partecipazione all'exousia del Signore crocifisso ed esaltato, al quale è stata data ogni autorità in cielo e sulla terra (cf. Mt 28,18), essa può e deve esigere obbedienza. Allo stesso tempo, a causa dell'incarnazione e della croce, essa è radicalmente diversa da quella esercitata dai capi delle nazioni e dai grandi di questo mondo (cf. Lc 22,25-27). Sebbene sia fuori dubbio che l'autorità è affidata a persone, le quali - a causa della debolezza e del peccato - sono spesso tentate di abusarne, non di meno per sua natura stessa l'identificazione evangelica dell'autorità con il servizio costituisce una norma fondamentale per la Chiesa. Per i cristiani, governare equivale a servire. Ne consegue che l'esercizio e l'efficacia spirituale dell'autorità ecclesiale sono assicurati attraverso il libero consenso e la collaborazione volontaria. A un livello personale ciò si traduce nell'obbedienza all'autorità della Chiesa per seguire Cristo, il quale è stato amorevolmente ubbidiente al Padre fino alla morte e alla morte di croce (cf. Fil 2,8).

15. L'autorità nella Chiesa si fonda sulla parola di Dio, che è presente e viva nella comunità dei discepoli. La Scrittura è la parola di Dio rivelata, così come la Chiesa - per mezzo dello Spirito Santo presente e attivo in essa - l'ha percepita nella Tradizione vivente ricevuta dagli apostoli. Il fulcro di questa Tradizione è l'eucaristia (cf. 1Cor 10,16-17; 11,23-26). L'autorità della Scrittura deriva dal fatto che è la parola di Dio che, letta nella Chiesa e dalla Chiesa, trasmette il Vangelo di salvezza. Attraverso la Scrittura, Cristo si rivolge alla comunità radunata e al cuore di ciascun credente. La Chiesa, attraverso lo Spirito Santo presente in lei, interpreta autenticamente la Scrittura, rispondendo ai bisogni dei tempi e dei luoghi. La consuetudine costante nei concili d'intronizzare i Vangeli al centro dell'assemblea attesta la presenza di Cristo nella sua Parola, la quale costituisce il necessario punto di riferimento per tutti i loro dibattiti e decisioni, e afferma nel contempo l'autorità esercitata dalla Chiesa nell'interpretare tale parola di Dio.

16. Nella sua divina economia, Dio vuole che la sua Chiesa abbia una struttura orientata alla salvezza. A tale essenziale struttura appartengono la fede professata e i sacramenti celebrati nella successione apostolica. L'autorità nella comunione ecclesiale è legata a questa struttura essenziale: il suo esercizio è regolato dai canoni e dagli statuti della Chiesa. Alcune di queste regole possono essere differentemente applicate, secondo i bisogni della comunione ecclesiale, in tempi e luoghi diversi, a patto però che la struttura essenziale della Chiesa sia sempre rispettata. Pertanto, come la comunione nei sacramenti presuppone la comunione nella stessa fede (cf. Documento di Bari, nn. 29-33), allo stesso modo, perché vi sia la piena comunione ecclesiale, dev'esserci, tra le nostre Chiese, il reciproco riconoscimento delle legislazioni canoniche nelle loro legittime diversità.

II. La triplice attualizzazione della conciliarità e dell'autorità

17. Avendo evidenziato i fondamenti sui quali poggiano la conciliarità e l'autorità nella Chiesa, e dopo aver rilevato la complessità del contenuto di tali termini, dobbiamo ora rispondere alle seguenti domande: in che modo gli elementi istituzionali della Chiesa esprimono visibilmente e sono a servizio del mistero della koinonia? In che modo le strutture canoniche della Chiesa esprimono la loro vita sacramentale? Per rispondere abbiamo distinto tre livelli delle istituzioni ecclesiali: il livello della Chiesa locale attorno al suo vescovo; il livello di una regione che comprende un certo numero di Chiese locali limitrofe; e il livello dell'intera terra abitata (oikoumene), che abbraccia tutte le Chiese locali.

1. Il livello locale

18. La Chiesa di Dio esiste laddove vi è una comunità radunata dall'eucaristia, presieduta, direttamente o attraverso i suoi presbiteri, da un vescovo legittimamente ordinato nella successione apostolica, il quale insegna la fede ricevuta dagli apostoli, in comunione con gli altri vescovi e con le loro Chiese. Il frutto di questa eucaristia e di questo ministero consiste nel radunare in un'autentica comunione di fede, di preghiera, di missione, di amore fraterno e di reciproco aiuto tutti coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Cristo nel battesimo. Tale comunione è il quadro entro il quale è esercitata tutta l'autorità ecclesiale. La comunione è il criterio di tale esercizio.

19. Ciascuna Chiesa locale ha per missione di essere, per grazia di Dio, un luogo dove Dio è servito e onorato, dove è annunciato il Vangelo, sono celebrati i sacramenti, un luogo dove il fedele si adopera ad alleviare le miserie del mondo, e dove ogni credente può trovare la salvezza. Essa è la luce del mondo (cf. Mt 5,14-16), il lievito (cf. Mt 13,33), la comunità sacerdotale di Dio (cf. 1Pt 2,5.9). Le norme canoniche che la governano hanno lo scopo di garantire tale missione.

20. In virtù dello stesso battesimo, che fa di loro le membra di Cristo, ciascuna persona battezzata è chiamata, secondo i doni dell'unico Spirito Santo, al servizio nella comunità (cf. 1Cor 12,4-27). Pertanto, attraverso la comunione, che pone tutti i membri a servizio gli uni degli altri, la Chiesa locale appare già «sinodale» o «conciliare» nella sua struttura. Questa «sinodalità» non risulta soltanto nella relazione di solidarietà, nell'assistenza reciproca e nella complementarità, che i vari ministri ordinati hanno tra di loro. Senza dubbio il presbiterio è il consiglio del vescovo (cf. sant'Ignazio d'Antiochia, Ai Tralliani, 3), e il diacono è la sua «mano destra» (Didascalia apostolorum, 2, 28, 6), in modo che, secondo la raccomandazione di sant'Ignazio d'Antiochia, ogni cosa si faccia di concerto (cf. Ef. 6). La sinodalità, tuttavia, come esige la comunione ecclesiale, riguarda anche tutti i membri della comunità nell'obbedienza al vescovo, il quale è il protos e il capo (kephale) della Chiesa locale. Conformemente alle tradizioni orientale e occidentale, la partecipazione attiva del laicato, uomini e donne, degli appartenenti a comunità monastiche e delle persone consacrate si attua nella diocesi e nella parrocchia attraverso svariate forme di servizio e di missione.

21. I carismi dei membri della comunità hanno origine nell'unico Spirito Santo, e sono orientati al bene di tutti. Questo fatto mette in luce sia le esigenze sia i limiti dell'autorità di ciascuno nella Chiesa. Non dovrebbero esistere né passività né sostituzione di funzioni, né negligenza né sopraffazione dell'uno sull'altro. Tutti i carismi e i ministeri della Chiesa convergono nell'unità sotto il ministero del vescovo, il quale serve la comunione della Chiesa locale. Tutti sono chiamati dallo Spirito Santo a rinnovarsi nei sacramenti e a rispondere in una costante conversione (metanoia), di modo che sia garantita la loro comunione nella verità e nella carità.

2. Il livello regionale

22. Poiché la Chiesa rivela la sua cattolicità nella synaxis della Chiesa locale, tale cattolicità deve effettivamente manifestarsi in comunione con le altre Chiese che professano la stessa fede apostolica e condividono la stessa struttura ecclesiale fondamentale, a cominciare da quelle che sono vicine tra loro in virtù della loro comune responsabilità per la missione nella regione di cui fanno parte (cf. Documento di Monaco, III, 3 e Documento di Valamo, nn. 52 e 53). La comunione tra le Chiese è espressa nell'ordinazione dei vescovi. Tale ordinazione è conferita secondo l'ordine canonico da tre o più vescovi, e almeno da due (cf. Concilio di Nicea, canone 4), i quali agiscono in nome del corpo episcopale e del popolo di Dio, avendo essi stessi ricevuto il loro ministero dallo Spirito Santo per il tramite dell'imposizione delle mani nella successione apostolica. Quando ciò è compiuto in conformità ai canoni, è garantita la comunione tra le Chiese nella retta fede, nei sacramenti e nella vita ecclesiale, così come è garantita la comunione vivente con le generazioni precedenti.

23. Una tale comunione effettiva tra Chiese locali, ciascuna delle quali è la Chiesa cattolica in un determinato luogo, è stata espressa da alcune pratiche: la partecipazione dei vescovi delle sedi limitrofe all'ordinazione di un vescovo per la Chiesa locale; l'invito rivolto a un determinato vescovo di un'altra Chiesa a concelebrare nella synaxis della Chiesa locale; l'accoglienza estesa a fedeli di tali Chiese a condividere la mensa eucaristica; lo scambio di lettere in occasione di un'ordinazione; nonché l'offerta di assistenza materiale.

24. Un canone accettato in Oriente e in Occidente esprime la relazione tra le Chiese locali in una determinata regione: «I vescovi di ciascuna nazione (ethnos) debbono riconoscere colui che è il primo (protos) tra di loro, e considerarlo il loro capo (kephale), e non fare nulla di importante senza il suo consenso (gnome); ciascun vescovo può soltanto fare ciò che riguarda la sua diocesi (paroikia) e i territori che dipendono da essa. Ma il primo (protos) non può fare nulla senza il consenso di tutti. Poiché in questo modo la concordia (homonoia) prevarrà, e Dio sarà lodato per mezzo del Signore nello Spirito Santo» (Canoni degli apostoli, n. 34).

25. Tale norma, che riaffiora in svariate forme nella tradizione canonica, si applica a tutte le relazioni tra i vescovi di una regione, sia quelli di una provincia, che i vescovi di una metropolia, o di un patriarcato. La sua pratica applicazione può rilevarsi nei sinodi o concili di una provincia, regione o patriarcato. Il fatto che un sinodo regionale sia sempre composto essenzialmente di vescovi, anche quando esso comprende altri membri della Chiesa, rivela la natura dell'autorità sinodale. Soltanto i vescovi hanno voce deliberativa. L'autorità di un sinodo si basa sulla natura del ministero episcopale stesso, e manifesta la natura collegiale dell'episcopato a servizio della comunione delle Chiese.

26. Un sinodo (o concilio) implica in sé la partecipazione di tutti i vescovi di una regione. Esso è governato dal principio del consenso e della concordia (homonoia), che è espressa dalla concelebrazione eucaristica, così come si evince dalla dossologia finale del citato canone apostolico 34. Resta comunque il fatto che ciascun vescovo, nell'esercizio della cura pastorale, è giudice e responsabile davanti a Dio per le questioni che riguardano la sua propria diocesi (cf. Cipriano, Ep. 55, 21); pertanto egli è il custode della cattolicità della sua Chiesa locale, e deve sempre attentamente adoperarsi a promuovere la comunione cattolica con le altre Chiese.

27. Ne deriva che un sinodo o un concilio regionale non hanno autorità alcuna su altre regioni ecclesiastiche. Non di meno lo scambio d'informazioni e le consultazioni tra rappresentanti di diversi sinodi sono una manifestazione della cattolicità, come anche di quella fraterna e reciproca assistenza e carità che debbono costituire la regola tra tutte le Chiese locali a maggiore vantaggio di tutte. Ogni vescovo è responsabile dell'intera Chiesa assieme a tutti i suoi colleghi nella stessa e unica missione apostolica.

28. In questo modo alcune province ecclesiastiche sono pervenute a rafforzare i loro legami di responsabilità comune. Ciò costituisce uno dei fattori che, nella storia delle nostre Chiese, hanno condotto alla costituzione dei patriarcati. I sinodi patriarcali sono governati dagli stessi principi ecclesiologici e dalle stesse norme canoniche dei sinodi provinciali.

29. Nei secoli successivi, sia in Oriente che in Occidente si sono sviluppate alcune nuove configurazioni della comunione tra Chiese locali. Nuovi patriarcati e Chiese autocefale sono stati istituiti nell'Oriente cristiano, e recentemente nella Chiesa latina è emerso un tipo particolare di raggruppamento dei vescovi, le conferenze episcopali. Queste ultime, da un punto di vista ecclesiologico, non sono mere suddivisioni amministrative: esse esprimono lo spirito di comunione nella Chiesa, rispettando allo stesso tempo la diversità delle culture umane.

30. In effetti, indipendentemente dal profilo e dalle regole canoniche della sinodalità regionale, quest'ultima dimostra che la Chiesa di Dio non è una comunione di persone o di Chiese locali estirpate dalle loro radici umane. In quanto comunità di salvezza e poiché questa salvezza è «la restaurazione della creazione» (cf. Ireneo, Adv. Haer. 1, 36, I), essa ingloba la persona umana in ogni cosa che la lega all'umana realtà così come essa è stata creata da Dio. La Chiesa non è una congerie di individui; è fatta di comunità con culture, storie e strutture sociali diverse tra loro.

31. Nelle Chiese locali raggruppate tra loro a livello regionale, la cattolicità appare sotto la sua vera luce. Essa è espressione della presenza della salvezza non in un universo indifferenziato, ma in un'umanità che Dio ha creato e che egli viene a salvare. Nel mistero della salvezza, la natura umana è assunta nella sua pienezza e, allo stesso tempo, è guarita da ciò che il peccato ha introdotto in essa con l'autosufficienza, l'orgoglio, l'incapacità di aver fiducia negli altri, l'aggressività, la gelosia, l'invidia, la falsità e l'odio. La koinonia ecclesiale è il dono per mezzo del quale tutta l'umanità è radunata insieme, nello Spirito del Signore risorto. Questa unità, creata dallo Spirito, lungi dallo scadere nell'uniformità, esige e dunque preserva - e in una certa maniera, accresce - la diversità e la particolarità.

3. Il livello universale

32. Ciascuna Chiesa locale non è soltanto in comunione con le Chiese vicine, ma anche con la totalità delle Chiese locali, con quelle attualmente presenti nel mondo, quelle che esistevano sin dall'inizio, quelle che esisteranno in futuro, e con la Chiesa già nella gloria. In conformità con la volontà di Cristo, la Chiesa è una e indivisibile, è la stessa, sempre e in ogni luogo. Cattolici e ortodossi confessano entrambi, nel Credo di Nicea-Costantinopoli, che la Chiesa è una e cattolica. La sua cattolicità abbraccia non soltanto la diversità delle comunità umane, ma anche la loro fondamentale unità.

33. Di conseguenza, è chiaro che una sola e unica fede dev'essere confessata e vissuta in tutte le Chiese locali, ovunque dev'essere celebrata la stessa e unica eucaristia, e un solo e unico ministero apostolico dev'essere all'opera in tutte le comunità. Una Chiesa locale non può modificare il Credo formulato dai concili ecumenici, sebbene essa debba sempre dare «a nuovi problemi (...) risposte appropriate, fondate sulla Scrittura, in armonia e continuità essenziali con i precedenti enunciati dei dogmi» (Documento di Bari, n. 29; EO 3/1790). Allo stesso modo una Chiesa locale non può modificare, con una decisione unilaterale, un punto fondamentale che riguardi la forma del ministero, né essa può celebrare l'eucaristia in volontario isolamento dalle altre Chiese locali senza nuocere alla comunione ecclesiale. Tutte queste cose riguardano il vincolo stesso di comunione e dunque l'essere stesso della Chiesa.

34. Proprio in ragione di tale comunione tutte le Chiese, per mezzo dei canoni, regolano tutto ciò che riguarda l'eucaristia e i sacramenti, il ministero e l'ordinazione, la trasmissione (paradosis) e l'insegnamento (didaskalia) della fede. Si comprende chiaramente il motivo per il quale sono necessarie in questo campo delle regole canoniche e delle norme disciplinari.

35. Nell'evolversi della storia, quando sono sorti seri problemi circa la comunione universale e la concordia tra le Chiese - a riguardo dell'autentica interpretazione della fede, o ai ministeri e alla loro relazione all'intera Chiesa, o alla disciplina comune che la fedeltà al Vangelo esige - si è fatto ricorso ai concili ecumenici. Tali concili erano ecumenici non soltanto per il fatto che essi radunavano insieme i vescovi di tutte le regioni e in particolare quelli delle cinque maggiori sedi secondo l'antico ordine (taxis): Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Essi erano ecumenici anche perché le loro solenni decisioni dottrinali e le loro comuni formulazioni di fede, specialmente su argomenti cruciali, erano vincolanti per tutte le Chiese e per tutti i fedeli, per tutti i tempi e tutti i luoghi. Tale è il motivo per il quale le decisioni dei concili ecumenici restano normative.

36. La storia dei concili ecumenici evidenzia quelle che debbono essere considerate le loro caratteristiche speciali. Tale questione dev'essere ulteriormente studiata nel nostro futuro dialogo, tenendo in considerazione l'evoluzione di strutture ecclesiali verificatasi nei secoli più recenti sia in Oriente sia in Occidente.

37. L'ecumenicità delle decisioni di un concilio è riconosciuta attraverso un processo di ricezione di durata lunga o breve, per il cui tramite il popolo di Dio nel suo insieme - attraverso la riflessione, il discernimento, il dibattito e la preghiera - riconosce in tali decisioni l'unica fede apostolica delle Chiese locali, che è stata sempre la stessa e di cui i vescovi sono i maestri (didaskaloi) e i custodi. Tale processo di ricezione è diversamente interpretato in Oriente e in Occidente, secondo le loro rispettive tradizioni canoniche.

38. Pertanto la conciliarità o sinodalità implica molto di più dei vescovi radunati in assemblea. Essa coinvolge anche le loro Chiese. I primi sono i depositari della fede e danno voce alla fede delle seconde. Le decisioni dei vescovi devono essere ricevute nella vita delle Chiese, specialmente nella loro vita liturgica. Ciascun concilio ecumenico accettato come tale, nel significato proprio e pieno del termine, è, di conseguenza, una manifestazione della comunione di tutta la Chiesa e un servizio reso a essa.

39. Contrariamente ai sinodi diocesani e regionali, un concilio ecumenico non è un'«istituzione» la cui frequenza può essere regolata da canoni; piuttosto esso è un «evento», un kairos, ispirato dallo Spirito Santo, che guida la Chiesa affinché essa generi al suo interno le istituzioni di cui ha bisogno e che corrispondono alla sua natura. Tale armonia tra la Chiesa e i concili è così profonda da far sì che entrambe le Chiese - anche dopo la rottura tra Oriente e Occidente, che rendeva impossibile la convocazione di concili ecumenici nel senso stretto del termine - abbiano continuato a tenere dei concili ogni volta che insorgevano serie crisi. Tali concili radunavano i vescovi di Chiese locali in comunione con la Sede di Roma o, rispettivamente, e sebbene compresi in modo diverso, con la Sede di Costantinopoli. Nella Chiesa cattolica romana, alcuni di tali concili tenuti in Occidente erano considerati ecumenici. Questa situazione, che ha costretto le due parti della cristianità a convocare concili propri a ciascuna di esse, ha favorito i dissensi che hanno contribuito al reciproco estraniamento. Debbono essere ricercati i mezzi che permetteranno di ristabilire il consenso ecumenico.

40. Durante il primo millennio, la comunione universale delle Chiese, nel normale svolgersi degli eventi, fu mantenuta attraverso le relazioni fraterne tra i vescovi. Tali relazioni dei vescovi tra di loro, tra i vescovi e i loro rispettivi protoi, e anche tra gli stessi protoi nell'ordine (taxis) canonico testimoniato dalla Chiesa antica, ha nutrito e consolidato la comunione ecclesiale. La storia registra consultazioni, lettere e appelli alle principali sedi, specialmente la Sede di Roma, che esprimono palesemente la solidarietà creata dalla koinonia. Disposizioni canoniche quali l'inserimento nei dittici dei nomi dei vescovi delle sedi principali e la comunicazione della professione di fede agli altri patriarchi in occasione di elezioni erano espressioni concrete di koinonia.

41. Entrambe le parti concordano sul fatto che tale taxis canonica era riconosciuta da tutti all'epoca della Chiesa indivisa. Inoltre concordano sul fatto che Roma, in quanto Chiesa che «presiede nella carità», secondo l'espressione di sant'Ignazio d'Antiochia (Ai Romani, Prologo), occupava il primo posto nella taxis, e che il vescovo di Roma è pertanto il protos tra i patriarchi. Tuttavia essi non sono d'accordo sull'interpretazione delle testimonianze storiche di quest'epoca per ciò che riguarda le prerogative del vescovo di Roma in quanto protos, questione compresa in modi diversi già nel primo millennio.

42. La conciliarità a livello universale, esercitata nei concili ecumenici, implica un ruolo attivo del vescovo di Roma, quale protos tra i vescovi delle sedi maggiori, nel consenso dell'assemblea dei vescovi. Sebbene il vescovo di Roma non abbia convocato i concili ecumenici dei primi secoli, e non li abbia mai presieduti, egli fu non di meno strettamente coinvolto nel processo decisionale di tali concili.

43. Primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Per tale motivo il primato ai diversi livelli della vita della Chiesa, locale, regionale e universale, dev'essere sempre considerato nel contesto della conciliarità e, analogamente, la conciliarità nel contesto del primato.

Per quanto riguarda il primato ai diversi livelli, desideriamo affermare i seguenti punti:

1. Il primato, a tutti i livelli, è una pratica fermamente fondata nella tradizione canonica della Chiesa.

2. Mentre il fatto del primato a livello universale è accettato dall'Oriente e dall'Occidente, esistono delle differenze nel comprendere sia il modo secondo il quale esso dovrebbe essere esercitato, sia i suoi fondamenti scritturali e teologici.

44. Nella storia dell'Oriente e dell'Occidente, almeno fino al IX secolo, e sempre nel contesto della conciliarità, era riconosciuta una serie di prerogative, secondo le condizioni dei tempi, per il protos o kephale, in ciascuno dei livelli ecclesiastici stabiliti: localmente, per il vescovo in quanto protos della sua diocesi rispetto ai suoi presbiteri e ai suoi fedeli; a livello regionale, per il protos di ciascuna metropoli rispetto ai vescovi della sua provincia, e per il protos di ciascuno dei cinque patriarcati rispetto ai metropoliti di ciascuna circoscrizione; e universalmente, per il vescovo di Roma come protos tra i patriarchi. Tale distinzione di livelli non diminuisce né l'eguaglianza sacramentale di ogni vescovo né la cattolicità di ciascuna Chiesa locale.

Conclusione

45. Resta da studiare in modo più approfondito la questione del ruolo del vescovo di Roma nella comunione di tutte le Chiese. Qual è la funzione specifica del vescovo della «prima sede» in un'ecclesiologia di koinonia, in vista di quanto abbiamo affermato nel presente testo circa la conciliarità e l'autorità? In che modo l'insegnamento sul primato universale dei concili Vaticano I e Vaticano II può essere compreso e vissuto alla luce della pratica ecclesiale del primo millennio? Si tratta di interrogativi cruciali per il nostro dialogo e per le nostre speranze di ristabilire la piena comunione tra di noi.

46. Noi membri della Commissione internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa nel suo insieme siamo convinti che la dichiarazione di cui sopra sulla comunione ecclesiale, la conciliarità e l'autorità rappresenta un positivo e significativo progresso nel nostro dialogo, e che essa fornisce una solida base per la discussione futura sulla questione del primato nella Chiesa a un livello universale. Siamo consapevoli delle molte questioni difficili che restano da chiarire, ma è nostra speranza che, sostenuti dalla preghiera di Gesù «perché tutti siano una cosa sola (...) perché il mondo creda» (Gv 17,21), e in obbedienza allo Spirito Santo, ci sarà possibile avanzare sulla base dell'accordo già raggiunto. Riaffermando e confessando «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5), rendiamo gloria a Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, che ci ha riuniti insieme.

1 Alcuni dei partecipanti ortodossi considerano importante sottolineare che l'uso dei termini «Chiesa», «Chiesa universale», «Chiesa indivisa» e «corpo di Cristo», nel presente documento e negli altri documenti elaborati dalla Commissione mista, non sminuiscono in alcun modo la comprensione che la Chiesa ortodossa ha di se stessa quale Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, di cui parla il Credo di Nicea. Dal punto di vista cattolico, la stessa consapevolezza di sé implica che: la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica sussiste nella Chiesa cattolica (Lumen gentium, n. 8); ciò non esclude il riconoscimento che elementi della vera Chiesa siano presenti al di fuori della comunione cattolica.
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Riflessione, a più voci, sull'ecumenismo

Una riforma della Chiesa, che la adegui a ciò che il Signore le chiede oggi, esige che essa tenga conto di quelli che sono i "segni dei tempi" e cioè del fatto che, essendo essa pienamente inserita nella storia dell’uomo, i mutamenti che avvengono nella società la toccano nella viva carne e profondamente. Lo Spirito condurrà la Chiesa all’unità, ma già fin d’ora è auspicabile un dialogo serio, portato avanti con coraggio e determinazione.
1. La riforma della Chiesa:
una necessità costante

di Giovanni Cereti *

Con il concilio Vaticano II l’appello alla riforma è tornato a risuonare nella Chiesa cattolica in stretto collegamento con l’invito a impegnarsi per la riconciliazione dei cristiani.
Il Concilio stesso ha operato una grande riforma nella teologia e nella prassi ecclesiale, ma non possiamo nasconderci che ci sono ancora ambiti non rivisitati.

La coscienza della necessità di rinnovamento e di riforma nella comunità cristiana è stata viva sin dalle origini. Quando sorgevano nuove necessità, gli apostoli stessi vi sapevano provvedere (cf At 6,1).

Gli interventi dei responsabili delle comunità, così come le deliberazioni dei concili, determinarono sempre dei cambiamenti e delle riforme, che intendevano rispondere alle nuove esigenze e alle nuove situazioni. Se l’accento veniva posto per lo più sulla conversione e sul rinnovamento personale, che ha trovato la sua espressione più alta nel monachesimo, non è mai mancato nella Chiesa neppure il richiamo alle riforme e ai rinnovamenti comunitari, invocati per esempio da tanti movimenti popolari nel corso di tutto il Medioevo.

Un più esplicito appello alla riforma della Chiesa è risuonato poi più volte nella prima metà del secondo millennio, e di esso si sono fatti portavoce anche grandi uomini spirituali, più tardi venerati come santi nella Chiesa cattolica. Questo appello raggiunse anche i responsabili della Chiesa, ma naufragò nel contrasto fra i sostenitori dell’autorità del Papa ed i sostenitori di quella del Concilio, oltre che in una inadeguata concezione della riforma da realizzare, in quanto si guardava più a tornare a un passato idealizzato che a una nuova incarnazione del Vangelo nel mondo contemporaneo.

Il tempo del sospetto

Dopo gli eventi del XVI secolo e della Riforma protestante, lo stesso appello a una riforma divenne sospetto per secoli nella Chiesa cattolica. Soltanto con il concilio Vaticano II esso è tornato a risuonare, in stretto collegamento con l’invito a impegnarsi per la riconciliazione dei cristiani, a partire dalla convinzione che le divisioni esistenti sono state in larga misura la conseguenza non solo delle inadeguatezze, dei ritardi, dei difetti o dei peccati dei cristiani, e in particolare dei ministri della Chiesa, ma anche di insufficienze pastorali e culturali non imputabili a nessuno ma egualmente esiziali per l’unità.

Qualora la comunità cristiana avesse saputo operare a tempo debito i rinnovamenti richiesti dalle circostanze, molte dolorose separazioni non avrebbero avuto luogo. La riconciliazione delle Chiese esige pertanto che esse tornino a riavvicinarsi fra di loro, confrontandosi insieme con il Vangelo e con i segni dei tempi, e operando ovunque quelle riforme e quei rinnovamenti che si rivelassero necessari sulla base di questo confronto.

Agli inizi del XX secolo la Chiesa cattolica venne fecondata da molti movimenti di rinnovamento, i quali contribuirono fortemente al riavvicinamento fra i cristiani, come ricorda il secondo paragrafo di Unitatis redintegratio 6, dove si parla dei movimenti biblico, patristico, liturgico, teologico, che avevano posto le basi di un nuovo approccio alla fede cristiana, consentendo un ritorno alla Bibbia e alla tradizione più antica, un approfondimento delle vicende storiche e quindi una migliore conoscenza degli avvenimenti che hanno portato alle separazioni, oltre che dei condizionamenti culturali e storici che hanno accompagnato le formulazioni teologiche confessionali.

Oltre a questi movimenti, che operarono soprattutto sul piano della ricerca e dello studio, possono essere ricordati i rinnovamenti attuati sul piano pastorale, con un maggiore impegno del laicato, che lo portò progressivamente a prendere coscienza della dignità del suo battesimo e del suo essere Chiesa, determinando così una nuova valorizzazione del sacerdozio universale del popolo di Dio; l’elaborazione di una dottrina sociale della Chiesa, che non è stata senza paralleli con l’analogo cammino dei movimenti del "cristianesimo sociale" e di "Vita e Azione"; e l’impegno missionario risvegliato soprattutto con i pontificati di Benedetto XV e di Pio XI, che puntarono sulla creazione di un clero e di un episcopato "indigeni" e che consentirono alle giovani Chiese di Africa e di Asia di acquistare in pieno la propria dignità.

Fedeltà al Vangelo

È proprio in questa prospettiva di rinnovamento e di riforma che deve essere letta la decisione di far entrare la Chiesa cattolica nel movimento tendente alla realizzazione della piena comunione fra i cristiani. Il movimento verso l’unità e il movimento per la riforma e il rinnovamento ecclesiale vanno di pari passo, in quanto entrambi consistono nella ricerca di una maggiore fedeltà al Vangelo e alla propria vocazione, che sono comuni a tutti i battezzati e a tutte le Chiese, al di là delle attuali separazioni. Il Concilio lo ha affermato esplicitamente: «Siccome ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione, esso è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità. La Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (UR 6).

Non è superfluo sottolineare il fatto che in questo passo il Concilio afferma, riprendendo quasi alla lettera un’affermazione di Lutero («Ecclesia indiget reformatione»), che di rinnovamento la Chiesa ha sempre bisogno («perpetuo indiget»), e che l’impegno per la riforma è un dovere («ut oportet»), a cui è chiamata da Cristo.

Questa necessità può derivare da una situazione di peccato che si è determinata nella comunità cristiana, il che impone un atteggiamento di penitenza, ma forse la ragione di fondo che rende la riforma indispensabile dobbiamo trovarla proprio nella condizione peregrinante della Chiesa, nella sua stessa condizione ontologica, per la quale l’elemento divino in essa può diventare visibile e concreto solo in forme umane, storicamente e culturalmente determinate, incarnate nelle diverse epoche storiche. La resistenza al cambiamento negli elementi umani della Chiesa è il frutto di una mentalità "monofisita", che anche in essa sa scorgere solo la dimensione divina e considera quindi tutto irreformabile.

Si può anche ricordare che il Concilio utilizza nel passo appena citato l’aggettivo perennis e l’avverbio perpetuo, per rimarcare a due riprese che la necessità della riforma non viene mai meno, facendo in qualche modo proprio anche il principio delle Chiese riformate: «Ecclesia reformata semper reformanda». Per quante riforme siano già state realizzate nel corso della storia e anche nelle epoche più recenti, la Chiesa non solo ha bisogno di riforma, ma questa è talmente collegata alla sua condizione peregrinante, che non può mai considerarsi conclusa.

Una riforma della Chiesa, che la adegui a quello che il Signore chiede a lei oggi, esige che essa tenga conto di quelli che abbiamo definiti i "segni dei tempi", e cioè del fatto che, essendo la Chiesa pienamente inserita nella storia dell’uomo, i cambiamenti che avvengono in essa toccano profondamente la Chiesa. Ci si può domandare se ciò non costituisca un invito ad abbandonare il linguaggio che ha ereditato da una cultura medioevale, statica, rurale, prescientifica, il linguaggio di una società paternalista e fortemente gerarchizzata, il linguaggio di una cultura europea, per cercare di comprendere e parlare il linguaggio degli uomini ai quali essa è inviata.

Una nuova inculturazione del cristianesimo esige che esso sappia incarnarsi in tutte le culture del mondo; e in tutte le culture intese non solo in senso geografico, ma anche quelle culture contemporanee che tengono conto dei dati delle scienze naturali, delle scienze storiche, delle stesse scienze umane. E tutto questo, non per un superficiale adattamento al mondo e alle sue mode, ma per discernere e accogliere lo Spirito Santo che opera nel mondo.

I rinnovamenti decisi dal Concilio cominciarono a essere tradotti in atto in una serie di disposizioni, provenienti per lo più dalla Santa Sede, nel corso degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, che svilupparono anche nuove istanze sinodali ai diversi livelli della vita della Chiesa, e ciò nonostante le difficoltà e le resistenze che un tale rinnovamento incontrava al suo interno.

La strada è ancora lunga

Altri rinnovamenti tuttavia attendono di essere realizzati nella vita quotidiana delle Chiese attraverso la disponibilità alla riforma, l’apertura al cambiamento, l’impegno nel rinnovamento della vita concreta delle comunità locali, l’ascolto delle richieste che ci possono provenire da altri cristiani che ci aiutano a comprendere quante cose si rivelano discutibili alla luce del Vangelo.

Il pensiero corre a tante devozioni popolari, all’uso di titoli onorifici, a ricchezze non necessarie; ma anche a quei rinnovamenti nella celebrazione dell’eucaristia e nel culto dell’eucaristia al di fuori della celebrazione, richiesti dal Vaticano II e dalle riforme postconciliari, o a tutto quello che riguarda i rapporti fra l’episcopato e il primato del vescovo di Roma, o infine alla situazione della donna nella Chiesa. Tutto quello che viene fatto per il rinnovamento teologico e pastorale è al servizio non soltanto di una vita ecclesiale sempre più piena e più fedele al Vangelo, ma anche del riavvicinamento fra le Chiese. Il cristiano sa che il suo impegno porterà a tempo debito i suoi frutti, perché ha fiducia nello Spirito, che guida la Chiesa nella storia e che ha suscitato in essa il desiderio dell’unione (cf UR 1).

L’incessante rinnovamento, al quale la Chiesa è chiamata da Cristo (cf UR 6) per poter restare degna sposa del suo Signore (cf LG 9), si può realizzare grazie all’opera dello Spirito Santo, che incessantemente fa nuove tutte le cose. È lo Spirito che con i suoi doni rende atti i fedeli ad assumere opere e compiti per il rinnovamento e la crescita della Chiesa (cf LG 12), e che «con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo» (LG 4), in una fedeltà al passato, al depositum fidei, e nello stesso tempo anche al futuro, dal quale il Signore ci chiama, in una perenne attenzione al Vangelo e ai segni dei tempi.

È lo stesso Spirito che condurrà la Chiesa all’unità (cf UR 24), suscitando forse un incontenibile movimento nel popolo cristiano, analogo a quello che è riuscito a travolgere situazioni che apparivano sclerotizzate e immodificabili.

«Tra le tentazioni e le tribolazioni del cammino la Chiesa è sostenuta dalla forza della grazia di Dio [...], affinché per l’umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà, ma permanga degna sposa del suo Signore, e non cessi, sotto l’azione dello Spirito Santo, di rinnovare sé stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto» (LG 9).


* docente presso l’Istituto di studi ecumenici, Venezia, e la Pontificia facoltà teologica Marianum, Roma

(da Vita Pastorale, dicembre 2005)

Bibliografia

Cereti G., Riforma della Chiesa e Unità dei cristiani nell’insegnamento del concilio Vaticano II, Il Segno 1985, Verona; Cereti G., Molte chiese cristiane, un’unica Chiesa di Cristo, Queriniana 1992, Brescia; Congar Y. M., Vraie et fausse réforme dans l’Eglise, Cerf 1952, Paris (tr. it., Vera e falsa riforma nella chiesa, Jaca Book 1968, Milano); Dizionario del Movimento Ecumenico, Dehoniane 1994 (1992), Bologna; Von Allmen J.J., Prophétisme sacramentel. Neuf études pour le renouveau et l’unité de l’église, Delachaux et Niestlé 1964, Neuchatel.

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Venerdì, 07 Dicembre 2007 00:10

L'ecumenismo spirituale (Walter Kasper)

L'Ecumenismo spirituale

Card. Walter Kasper



I. Sono trascorsi più di quaranta anni dalla conclusione, l’8 dicembre del 1965, del Concilio Vaticano II, che ha segnato una svolta decisiva per l’impegno ecumenico, definendo nel Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani uno dei suoi principali intenti. Questo documento inizia con le parole: “Il ristabilimento dell'unità da promuoversi fra tutti i Cristiani, è uno dei principali intenti del Sacro Concilio Ecumenico Vaticano Secondo” (UR 1). Questa opzione del Concilio Vaticano II è fondata sul mandato di nostro Signore, che alla vigilia della sua morte ha pregato “affinché tutti siano una cosa sola.” Il Decreto chiarisce che non si tratta di un ecumenismo qualunque, ma di un ecumenismo della verità e dell’amore, volto a ricomporre l’unità visibile della Chiesa (cf. UR 2 s.).

Da allora in poi l’opzione ecumenica del Concilio è stata dichiarata irreversibile da Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint (1995) (UUS 3), dove egli aggiunge che essa non è una semplice “appendice” all’attività tradizionale della Chiesa (UR 20), ma “una delle priorità pastorali” del suo pontificato (UR 99). E Papa Benedetto XVI fin dal giorno successivo alla sua elezione a sommo pontefice, in un discorso programmatico pronunciato davanti ai cardinali riuniti nel conclave, si è dichiarato disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo, ribadendo poi questa affermazione durante la cerimonia d’inaugurazione del suo ministero, il 24 aprile 2005 in Piazza San Pietro. Da allora Papa Benedetto ha ripetuto questa affermazione in più occasioni.

Da quando la Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, si è aperta ufficialmente al movimento ecumenico, il dialogo ecumenico ha compiuto grandi passi in avanti. Questo è avvenuto sia a livello delle singole chiese locali che a livello della Chiesa universale. Il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani ha stabilito dialoghi ufficiali o conversazioni ed incontri con quasi tutte le Chiese e Comunità ecclesiali, con le Federazioni o Alleanze confessionali mondiali e con il Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ne è scaturito un gran numero di documenti. Grazie a questi dialoghi è stato possibile pervenire ad avvicinamenti sostanziali in varie questioni ed, in alcuni casi, persino a consensi. Pietra miliare di questo percorso è stata la firma della “Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione” con la Federazione Luterana Mondiale (1999), e l’adesione a questa Dichiarazione da parte del Consiglio Metodista Mondiale nel luglio scorso.

Accanto a questi dialoghi è importante ricordare le visite di Papa Giovanni Paolo II a quasi tutti i Patriarchi orientali e soprattutto la recente visita di Papa Benedetto XVI al Patriarca ecumenico e la visita dell’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia a Roma. Le due visite a cui ho appena accennato sono da considerarsi storiche. Oltre ad esse, il rilancio del lavoro della Commissione teologica internazionale per il dialogo con le Chiese ortodosse nel loro insieme ha segnalato una nuova fase nei rapporti con le Chiese ortodosse. Ciò non vuol dire che abbiamo dimenticato i contatti con le comunità che nascono dalla Riforma del XVI secolo. Si potrebbe accennare a tanti incontri incoraggianti ad alto livello con queste Comunità ecclesiali durante l’anno scorso, l’ultimo in ordine di tempo è stata la visita di una delegazione finlandese all’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Ancora più importante dei singoli risultati dei dialoghi e degli incontri ufficiali ai vertici delle chiese è tuttavia ciò a cui Papa Giovanni Paolo II fa riferimento nella sua Enciclica sull’ecumenismo Ut unum sint (1995), ovvero la fratellanza nuovamente scoperta tra i cristiani. Oggi non parliamo più tanto – come fa osservare il Santo Padre – di “cristiani separati” o di “fratelli e sorelle separati”, ma di “altri cristiani” e di “altri battezzati”. Questo ampliamento di vocabolario è rappresentativo. I cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali oggi non si vedono più come avversari; non si pongono più gli uni di fronte agli altri con sentimenti di antagonismo, di competizione o di indifferenza, ma si considerano come fratelli e sorelle che hanno intrapreso insieme il cammino verso la piena unità.

Già oggi si impegnano insieme a favore della pace e della giustizia nel mondo. Sin dall’inizio del moderno movimento ecumenico la promozione dell’unità e la missione nel mondo sono andate di pari passo. Nella promozione dell’unità e nella missione si attua l’auto-trascendenza della Chiesa e inizia la raccolta escatologica di tutti i popoli già annunciata dai profeti.

Alla base di questo sviluppo positivo ed incoraggiante, là dove il movimento ecumenico è inteso nella giusta maniera, non c’è né un filantropismo liberale, né un relativismo o un pluralismo postmoderno che non tiene conto delle differenze confessionali o abbandona l’identità cattolica; anzi, la base dei dialoghi è la comune confessione di fede nella santissima Trinità e in Gesù Cristo, unico e universale salvatore e redentore, e il mutuo riconoscimento dell’unico battesimo, attraverso il quale tutti i battezzati entrano a far parte dell’unico Corpo di Cristo e sono pertanto, fin da ora, in una comunione reale e profonda, anche se non ancora completa. La nuova fratellanza ecumenica dunque non significa semplicemente una realtà sentimentale e una sensazione familiare di cordialità, ma riguarda una realtà spirituale ontologicamente fondata.

Nonostante questi progressi incoraggianti, non si può tuttavia tacere che, al di là delle singole difficoltà, normali e facenti parte della vita, il dialogo si è in qualche modo arenato, anche se non si sono arrestati i colloqui e gli incontri, le visite e la corrispondenza. La situazione è mutata, l’atmosfera non è più la stessa, sono apparse all’orizzonte nuove sfide come per esempio l’enorme crescita dei movimenti evangelicali, pentecostali e carismatici che si sono sviluppati soprattutto nell’emisfero meridionale del mondo. D’altra parte, in alcune comunità protestanti si mostrano tendenze liberali soprattutto in questioni etiche, che creano nuove differenze e difficoltà. Mentre immediatamente dopo il Concilio si constatava talvolta un’atmosfera ottimistica e utopistica, oggi si prevede che il cammino ecumenico, almeno secondo le misure umane, sarà ancora lungo. Come frutto di questa riflessione il tema dell’ultima Sessione plenaria del PCPUC nel novembre 2006 aveva come titolo “L’ecumenismo in via di trasformazione”.

Come sempre ci sono diversi motivi per il cambiamento di una situazione. Uno dei motivi sta nel fatto che, dopo aver superato molti malintesi ed aver conseguito un consenso fondamentale sul fulcro della nostra fede, ora siamo giunti al nocciolo delle nostre differenze ecclesiologiche, o piuttosto delle nostre differenze istituzionali ed ecclesiologiche. Nel dialogo con le Antiche Chiese Orientali e con le Chiese ortodosse questa divergenza riguarda la questione del ministero petrino, mentre, nei rapporti con le Chiese riformate, concerne la questione della successione apostolica nel ministero episcopale. Quest’ultimo punto è tuttavia solamente la punta dell’iceberg di una differenza più profonda nella stessa ecclesiologia. Per poter risolvere tali punti, la Chiesa cattolica ritiene che sia fondamentale affrontare due questioni fondamentali.

Primo: abbiamo bisogno di un ecumenismo fondamentale, cioè dobbiamo rafforzare i fondamenti del nostro impegno ecumenico, la fede in Dio e in Gesù Cristo. Non solo per le altre Chiese, ma spesso anche per noi queste verità fondamentali e centrali stanno scomparendo in molti fedeli. Ma come si può parlare della giustificazione dei peccatori da parte di Dio, se non c’è più un vivace rapporto con Dio e se non c’è più la consapevolezza d’essere peccatore e di avere bisogno della redenzione? Secondo: la questione delle Chiese, quelle intese come Comunione. Intanto dobbiamo essere grati che la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio mondiale delle Chiese ha pubblicato un documento ancora provvisorio su “La natura e la missione della Chiesa”, alla cui elaborazione ha collaborato il nostro Consiglio e alla cui stesura finale vogliamo continuare a cooperare attivamente. Speriamo che questo possa essere un passo e un contributo importante per raggiungere la piena comunione e cioè la comunione eucaristica con i nostri fratelli e sorelle, il che è lo scopo dell’impegno ecumenico.

II. Dopo aver affermato tutto questo e tenendo in considerazione anche i vari passi di avvicinamento, rimane comunque un certo sentimento di delusione e di frustrazione. Per rimettere in moto la situazione attuale, è necessario un impulso ben più forte e vigoroso di quello che, per loro natura, i dialoghi accademici possono dare. In questo momento critico, dobbiamo richiamarci alla forza motrice originaria del movimento ecumenico ed alla dimensione pneumatologica dell’esistenza cristiana e della Chiesa. Perciò accanto alle basi teologica e ecclesiologica già menzionate bisogna riflettere sulle basi pneumatologica e spirituale. Perché l’unità dei discepoli di Cristo non si può “fare”, né tramite dialoghi teologici anche se sono importanti e irrinunciabili, né tramite una certa così detta diplomazia ecclesiastica o tramite azioni pragmatiche, anche se hanno una loro utilità. In ultima analisi l’unità della Chiesa è, sebbene visibile, una realtà peumatologica e quindi un dono dello Spirito di Dio. Secondo l’apostolo Paolo c’è una diversità di carismi nella Chiesa, ma uno solo è lo Spirito (1 Cor 12,4), che è quasi l’anima della Chiesa. È significativo che le parole di Gesù “affinché tutti siano una sola cosa” non è un comandamento ma una preghiera; e l’ecumenismo in ultima analisi non è altro che unirsi a questa preghiera di nostro Signore e farla nostra.

Queste per me non sono solamente riflessioni astratte, sono pensieri che vengono della mia esperienza personale, maturata nel corso di molti anni ma anche di ogni giorno. In questo lasso di tempo ho partecipato a molti dialoghi e a molti incontri ecumenici. Ed era sempre lo stesso. Se questi dialoghi rimanevano soltanto a livello accademico erano forse interessanti ma non portavano frutto. Spesso, quando non c’era preghiera e un’atmosfera spirituale, si poteva dimenticarli. Mentre se c’era un clima di preghiera i cuori si aprivano, era possibile superare malintesi e pregiudizi, promuovere comprensione anche per le differenze, trovare convergenze e talvolta anche consensi e soprattutto cresceva il mutuo amore e lo slancio per continuare.

Questa esperienza personale è confermata dall’esperienza storica della Chiesa. Le divisioni in seno alla cristianità non sono dovute primariamente a dispute a livello di discussioni o a controversie su formule dottrinali divergenti, ma ad un’esperienza di vita che ha portato ad un reciproco allontanamento. Varie forme di vita di fede cristiana sono diventate estranee le une alle altre, fino a non potersi più capire. Così le divisioni del passato sono il risultato – come ha detto il Concilio – di un raffreddamento dell’amore. Problemi, come tali risolvibili, sono diventati ostacoli insormontabili, da differenze, di per sé legittime, sono sorte controversie, che si sono esagerate e assolutizzate. Alla fine ci si è allontanati e non ci si è più compresi. Questo ha condotto ad inevitabili fratture. Diverse condizioni e costellazioni culturali, sociali e politiche hanno svolto un ruolo importante in tutto ciò. Con questo non vogliamo scordare che si è trattato anche di una ricerca della verità e di serie differenze di fede. Ritorneremo in seguito su questo importante aspetto. Ma la ricerca della verità è stata sempre iscritta nell’esperienza concreta e legata a questa inscindibilmente.

D’altra parte già agli inizi, il movimento ecumenico fu in gran parte alimentato da un movimento spirituale, che ha trovato una sua espressione soprattutto nella Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, avviata nel 1933 dall’Abate Paul Couturier, e per noi questa settimana è tuttora il centro ecumenico dell’anno liturgico.

Il Concilio Vaticano II, nel suo Decreto sull’Ecumenismo Unitatis Redintegratio, vede il movimento ecumenico come impulso ed opera dello Spirito Santo (UR 1; 4). E non a caso il Concilio ed il Papa di allora hanno descritto l’ecumenismo spirituale come il cuore del movimento ecumenico (UR 8). Ecumenismo spirituale secondo il Concilio significa: preghiera, soprattutto preghiera ecumenica comune, conversione personale e riforma istituzionale, penitenza e sforzo per la santificazione personale (UR 5-8). Papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Ut unum sint e in molti altri documenti ha spesso ripetuto e sottolineato questa posizione e Papa Benedetto XVI continua sulla stessa scia.

Recentemente il PCPUC ha pubblicato un piccolo libro sull’ecumenismo spirituale, che si fonda su molte esperienze concrete. La pubblicazione era stato raccomandata dalla Plenaria del 2003. Un primo progetto era stato presentato e discusso alla Conferenza internazionale tenutasi a Rocca di Papa nel novembre 2004 in occasione della celebrazione del 40mo anniversario del Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II. Nel frattempo abbiamo ricevuto molti suggerimenti da organismi ecumenici internazionali e locali. Così il libro è il risultato di molte esperienze mie personali e di tanti altri in varie situazioni e parti del mondo. L’intento della pubblicazione è di dare suggerimenti concreti e pratici a tutti coloro che – come si suol dire sono alla base, cioè nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle varie comunità – sono impegnati nel lavoro ecumenico.

Il particolare accento posto sull’ecumenismo spirituale è importante anche alla luce della situazione spirituale attuale che, da una parte, è segnata dal relativismo e dallo scetticismo postmoderni, e dall’altra presenta un desiderio nostalgico di esperienza spirituale, spesso vago e imprecisato. È evidente una scontentezza che scaturisce da un vuoto lasciato da una civilizzazione tecnica, funzionale ed economica. Si percepisce anche una scontentezza con una chiesa prevalentemente istituzionale, che non dà abbastanza nutrimento spirituale, che non soddisfa i desideri più profondi del cuore. Questo è uno dei motivi per cui tanti fedeli lasciano la Chiesa e si associano in comunità carismatiche e pentecostali o si affidano a pratiche esoteriche. Questa situazione ci obbliga a chiarire dapprima il concetto di spiritualità.

III. Attualmente, la parola “spiritualità” è molto utilizzata e racchiude molti significati. È bene allora, per prima cosa, fare un po’ di chiarezza su questo termine e sul suo significato. E poi potremo dare suggerimenti concreti.

Spiritualità è un “prestito” lessicale, che proviene dal cattolicesimo francese. Tradotto letteralmente significa: “pietà”. Tuttavia, con ciò, non è coperta tutta la gamma di significati di tale concetto. Il Dictionary of Christian Spirituality descrive la spiritualità come quel comportamento, quella fede e quell’insieme di pratiche che definiscono la vita degli uomini, aiutandoli a raggiungere realtà che vanno oltre la percezione dei sensi. Per migliorare questa descrizione, potremmo dire che spiritualità è uno stile di vita guidato dallo spirito. Il Lessico ecumenico dice pertanto: “La spiritualità consiste nel dispiegamento dell’esistenza cristiana sotto la guida della Spirito Santo.”

È chiaro allora che il concetto di spiritualità ha due componenti: una dimensione che proviene “dall’alto” e che non è influenzata dall’uomo poiché è opera dello Spirito di Dio, ed una dimensione “dal basso”, che racchiude la condizione umana e la situazione contingente in cui si trova l’esistenza cristiana ed in cui essa tenta di forgiarsi e definirsi spiritualmente. La spiritualità vive dunque in tensione tra l’unico Spirito Santo, che opera ovunque ed in tutto, e la varietà delle realtà e delle forme di vita umane, culturali e sociali. È quindi nella tensione tra unicità e pluralità che risiede fondamentalmente il significato della spiritualità.

Con questa tensione la spiritualità racchiude il pericolo o di una spaccatura o di preponderanza di un elemento. In quanto espressioni culturali e terrene della fede incarnata, le spiritualità portano in sé il rischio del sincretismo, quando la fede cristiana si mischia ad elementi religiosi e culturali non adatti, che falsano la fede stessa. Le varie spiritualità possono anche unirsi a scopi e questioni politiche, conferendo alla fede cristiana non solo un tono nazionale, ma anche un’impronta ideologica pseudo-spirituale o nazional-sciovinista. In alcune forme di fondamentalismo religioso tale pericolo è estremamente evidente. A fianco di queste, esistono altre forme di spiritualità, di cosiddetta spiritualità ecumenica che sono solo emotive e sentimentali e possono essere descritte come banalizzazione borghese della fede cristiana.

Ogni spiritualità deve pertanto chiedersi da quale spirito si lascia guidare, dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo e del tempo. La spiritualità richiede un discernimento degli spiriti. La spiritualità non è esonerata dalla ricerca della verità. Per questo, non ci si può sottrarre comodamente alla teologia richiamandosi alla spiritualità. La spiritualità, per rimanere sana, ha bisogno di una riflessione teologica.

IV. I grandi maestri della vita spirituale ci hanno lasciato un ricco tesoro di esperienze per il discernimento degli spiriti. Le più conosciute sono le regole per il discernimento degli spiriti del libretto di esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Vale la pena rileggerle attentamente, dal punto di vista ecumenico; è possibile, in tal senso, trarne un grande beneficio. Tuttavia, io preferisco intraprendere qui un altro cammino ed interrogarmi, in tre punti, su quale sia la natura e l’opera dello Spirito a livello sia biblico che sistematico per giungere ad una spiritualità ecumenica oggettiva sulla base di una teologia riflettuta dello Spirito Santo.

1. Il significato fondamentale in ebraico e in greco di “spirito” (ruah, pneûma) è vento, respiro, soffio e – poiché il respiro è segno di vita – vita, anima ed infine, in senso traslato, lo spirito come principio vitale dell’uomo, come sede delle sue sensazioni spirituali e della sua volontà. Non si tratta tuttavia di un principio immanente nell’uomo; si riferisce piuttosto alla vita donata e resa possibile da Dio. Dio dona lo spirito e lo può anche riprendere. Lo spirito di Dio è dunque la forza vitale creatrice di tutte le cose. Esso dà all’uomo sensibilità artistica e perspicacia, discernimento e saggezza.

È lo Spiritus creator, che opera in tutta la realtà della creazione. “Lo spirito del Signore riempie l’universo, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce” (Sap 1,7; cf. 7,22-8,1). Secondo l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, soccorre nelle attese e sofferenze del mondo, intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili (Rom 8,26 s). Secondo Agostino, lo Spirito è “la forza di gravità della carità, lo slancio verso l’alto, che si oppone alla forza di gravità verso il basso e conduce tutto alla realizzazione in Dio” (Conf. XIII, 7,8). Ogni verità – come ci insegna Tommaso d’Aquino – da ovunque essa derivi, proviene dallo Spirito Santo (cf. S. th I/II,109,1).

Una dottrina dello Spirito Santo pertanto non si deve rintanare fin dall’inizio dietro le mura di una chiesa o ripiegarsi su se stessa. Essa deve situarsi all’interno di una prospettiva universale. La pneumatologia è possibile soltanto nell’ascolto, nell’attenzione rivolta alle tracce, alle attese, alle gioie e alle vanità della vita, nell’osservazione dei segni del tempo che si trovano ovunque, là dove la vita nasce, è in fermento, si espande, ma anche là dove le speranze di vita vengono frantumate, strozzate, imbavagliate e soppresse. Ovunque si mostri la vita vera e nuova, là è all’opera lo Spirito di Dio.

Il Concilio Vaticano II ha visto questo operare universale dello Spirito non solo nelle religioni dell’umanità, ma anche nella cultura e nel progresso degli uomini (cf. Gaudium et spes, 26; 28; 38; 41; 44). Papa Giovanni Paolo II ha sviluppato ulteriormente questo pensiero nella sua Enciclica sulle missioni Redemptoris missio, dove leggiamo: “Lo Spirito, dunque, è all’origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere”. Poi il Santo Padre continua: “La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito, infatti, sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell’umanità in cammino” (n. 28).

Una spiritualità ecumenica ispirata alla Bibbia non può dunque ripiegarsi su se stessa o essere esclusivamente ecclesiocentrica. Essa deve essere attenta alla vita e servire la vita. Deve occuparsi della quotidianità, delle piccole esperienze di tutti i giorni, così come delle grandi questioni di vita e sopravvivenza dell’uomo moderno, ma anche delle religioni e delle opere della cultura umana. Secondo un principio della mistica tardomedioevale e di Ignazio di Loyola, è possibile trovare Dio in tutte le cose.

Spiritualità ecumenica significa cooperazione in favore della vita, della giustizia, dei diritti dell’uomo e della pace. In questo contesto non penso in primo luogo a azioni spettacolari, ma a cooperazione nelle opere di carità di ogni giorno, per i bambini, i giovani, i malati, gli handicappati e gli anziani. Penso anche alla cooperazione nella pastorale per i turisti, nei mass media ecc. In tutti questi ambiti dobbiamo superare lo spirito di competitività, perché deve imperare la solidarietà. Possiamo fare tante cose insieme, e tramite questa cooperazione ci conosciamo meglio e cresciamo insieme.

2. Lo spirito nella Bibbia non è solo forza creatrice di Dio: è anche la forza divina che si esplicita nella storia. Lo Spirito parla attraverso i profeti e viene promesso come lo spirito messianico (Is 11,2; 42,1). È la forza della nuova creazione, che trasforma il deserto in paradiso e lo rende luogo di legge e di giustizia (Is 42,15 ss). “Non con la potenza, né con la forza, ma col mio spirito” (Zac 4,6). Lo spirito avvicina dunque la creatura che geme e soffre al Regno della libertà dei figli di Dio (cf. Rom 8,19 ss).

Il Nuovo Testamento annuncia la venuta del Regno della libertà in Gesù Cristo. Egli nasce dallo Spirito (Lc 1,35; Mt 1,18.20); nel momento del battesimo, lo Spirito discende su di lui (Mc 1,9-11); tutta la sua opera sulla terra è nel segno dello Spirito (Lc 4,14.18; 10,21; 11,20). Lo Spirito riposa in lui; così egli può annunciare il messaggio di gioia ai poveri, la libertà ai prigionieri, la vista ai ciechi e la giustizia agli afflitti (Lc 4,18). La sua risurrezione avviene nella forza dello Spirito (Rom 1,3) e nella forza dello Spirito egli continua ad essere presente nella Chiesa e nel mondo. “Il Signore è spirito” (2 Cor 3,17).

Poiché in Gesù Cristo, nella sua vita sulla terra e nella sua opera come Redentore, l’azione dello Spirito iscritta nella storia della salvezza giunge alla sua pienezza escatologica, lo Spirito è per Paolo lo Spirito di Cristo (Rom 8,9; Fil 1,19), lo Spirito del Signore (2 Cor 3,17) e lo Spirito del Figlio (Gal 4,6). La confessione di Gesù Cristo è quindi il criterio fondamentale per il discernimento degli spiriti: “…nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: ‘Gesù è anatema’, così nessuno può dire: ‘Gesù è Signore’, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).

Con ciò viene affermato il criterio cristologico, che è decisivo in una spiritualità ecumenica. Esso vuole lottare contro il pericolo di un relativismo e sincretismo spirituale, che minaccia le esperienze spirituali delle varie religioni, confondendole tra loro o selezionandole in maniera eclettica. La spiritualità ecumenica preserva l’unicità e l’universalità del significato salvifico di Gesù Cristo. Essa è anche contraria alla tentazione sognatrice ed esaltata di eliminare l’intermediazione cristologica e accedere direttamente a Dio. E ricorda: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18).

Una spiritualità ecumenica legittima sarà dunque in prima linea una spiritualità biblica ed avrà un influsso sulla lettura comune delle scritture e sullo studio comune della Bibbia. Essa si impregnerà della Lectio divina, tanto raccomandata dal Concilio (DV 25), cioè la lettura della Bibbia legata alla preghiera che diventa un colloquio fra Dio e l’uomo. Essa rifletterà continuamente sui racconti biblici della venuta di Gesù, sul suo messaggio di libertà, sulla sua opera liberatoria e salvifica, sul suo servizio degli altri, sulla sua kenosi fino alla morte, sulla sua intera persona e sul suo intero operato, facendo di questi il criterio fondante. Essa si impregnerà della sequela di Gesù e continuerà a cercare il volto di Cristo, come ha menzionato in maniera programmatica Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Novo millennio ineunte del 2001. Tale spiritualità si rivela in ciò che Paolo definisce i frutti dello Spirito: carità, gioia, pace, pazienza, affabilità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22).

Spiritualità cristocentrica significa spiritualità dell’ascolto della parola e significa anche spiritualità sacramentale. Cristo è presente nella parola e nei sacramenti; il Concilio ha rinnovato l’immagine della mensa della parola e del corpo di Cristo (DV 21). Ecumenicamente abbiamo in comune soprattutto il Battesimo, tramite il quale siamo membra dell’unico corpo di Cristo e già adesso in una comunione profonda sebbene non piena. Pertanto le celebrazioni di commemorazione del Battesimo comune sono centrali per una spiritualità ecumenica. Si può pensare alla festa del Battesimo di Cristo o a cerimonie nel periodo della Quaresima. Purtroppo non è possibile una piena comune partecipazione all’eucaristia. Conosco bene i problemi pastorali che ne possono scaturire. Negli ultimi anni si è sviluppata la consuetudine, che coloro che non possono pienamente partecipare e non possono comunicarsi chiedono la benedizione del sacerdote; così non si sentono esclusi e partecipano come è loro possibile.

La spiritualità cristologica valorizza anche i testimoni di Cristo. Abbiamo in comune molti santi dei primi secoli e abbiamo moltissimi testimoni, che possiamo chiamare martiri soprattutto nel secolo scorso. Essi sono modelli ed esempi della sequela di Gesù. Non da dimenticare Maria, la Madre di Gesù. Anche molti evangelici oggi la riscoprono come una figura biblica e come sorella nella fede.

Infine, nello Spirito, possiamo e dobbiamo dire “Abba, Padre!” come Gesù ha detto a Dio (Rom 8,15.26 ss; Gal 4,6). Pertanto, una spiritualità ecumenica è una spiritualità della preghiera. Come Maria e gli Apostoli – ed insieme ad essi – tale spiritualità deve raccogliersi sempre nella preghiera per la venuta dello Spirito che unisce tutti i popoli nell’unica lingua, nella preghiera per la venuta di una Pentecoste rigeneratrice (cf. Atti 1,13 ss.). Una spiritualità ecumenica vive, come lo stesso Gesù, della preghiera; si accorda alla preghiera di Gesù e si unisce a lui, nel chiedere che tutti siano uno (cf. Gv 17,21). Nella preghiera sopporta, come Gesù sulla croce, anche l’esperienza dell’abbandono dello spirito e dell’abbandono di Dio (cf. Mc 15,34); solo nella forza della preghiera può sopportare difficoltà e delusioni ecumeniche, come pure l’esperienza ecumenica del deserto.

3. Accanto al criterio cristologico per Paolo c’è anche il criterio ecclesiologico. Paolo collega lo Spirito alla costruzione della comunità e al servizio nella Chiesa. Lo Spirito è stato donato per il bene di tutti. I vari doni dello Spirito devono servire quindi gli uni agli altri (1 Cor 12,4-30). Lo Spirito non è uno Spirito di confusione, ma un Dio di pace (1 Cor 14,33). Però l’opera dello Spirito non è limitata alle istituzioni della Chiesa e monopolizzata da esse, lo Spirito è dato a tutti come afferma la Bibbia, ognuno ha il suo carisma. Ma lo Spirito non opera quando gli uomini sono gli uni contro gli altri, ma quando essi sono gli uni con gli altri, e grazie al contributo personale da parte di ciascuno. Lo Spirito è avverso ad ogni divisione in fazioni e partiti. Il maggior dono dello Spirito è la carità, senza la quale la conoscenza non ha nessun valore. La carità non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio; tutto sopporta e non viene mai meno (cf. 1 Cor 13,1-4.7).

La tradizione teologica ha sviluppato proprio questo aspetto. Secondo Ireneo di Lione, la Chiesa è “il recipiente, in cui lo Spirito ha riversato la fede e la mantiene fresca”; là dove è la Chiesa, è anche lo Spirito di Dio; là dove è lo Spirito di Dio, là è la Chiesa e tutta la grazia” (Adv. haer. III, 24,1). Ed Ippolito dice: “Festinet autem et ad ecclesiam ubi floret spiritus” (Trad apost. 31; 35). In tutta la tradizione occidentale, ispirata soprattutto da Agostino, lo Spirito è l’amore tra Padre e Figlio, è ciò che c’è di più interno a Dio ed al tempo stesso è di più esterno a Dio, poiché, in lui e attraverso di lui, l’amore di Dio si riversa nei nostri cuori. Nello Spirito Dio dona il suo intimo all’esterno cosicché noi possiamo condividere la sua vita. Lo Spirito è dunque il principio vitale della vita cristiana e quasi l’anima della Chiesa (cf. LG 7).

La spiritualità ecumenica è dunque una spiritualità ecclesiale e, per questo, una spiritualità comunitaria. La spiritualità ecumenica si sforzerà di giungere al “Sentire ecclesiam”, tenterà di entrare più profondamente nell’essenza, nella tradizione ed in particolare nella liturgia della Chiesa, rendendo la liturgia attuale e consapevole. La spiritualità ecumenica vive della festa della liturgia. Tale spiritualità ecumenica perlopiù viene vissuta soprattutto in gruppi e circoli ecumenici. Questi gruppi, tuttavia, non possono distaccarsi dalla più ampia comunità della Chiesa ed elevarsi sopra di essa. Non possono fare ecumenismo a loro proprio gusto e maniera. Debbono sentirsi come membri che contribuiscono alla vita di tutto il corpo della Chiesa e d’altra parte ricevono anche dalla comunità più grande. La spiritualità ecumenica si studia di conservare l’unità dello Spirito (cf. Ef 4,3).

Vivere nella Chiesa, con la Chiesa e vivere la Chiesa vuol dire soffrire anche nella Chiesa e con la Chiesa. Essa soffre e sanguina per le ferite inferte dalle divisioni. Tale sofferenza è essenziale per la spiritualità ecumenica. Così, la spiritualità ecumenica mobilita la coscienza della Chiesa, impedendole di ripiegarsi su se stessa e sulla sua autosufficienza confessionale stimolandola, al contrario, a ricorrere e ad attingere alla ricchezza delle altre tradizioni per cercare una più ampia unità ecumenica e, in tal modo, pervenire alla pienezza concreta della sua cattolicità. Essa, quindi, schiude in maniera profetica una visione del futuro davanti alla realtà ecclesiale concreta, senza sfuggire di fronte a questa realtà, ma sforzandosi invece con pazienza e costanza di giungere al consenso.

È lo Spirito che ci fa entrare nella verità sempre più grande e sempre più profonda; esso deve guidarci in tutta la verità (Gv 16,13). Ciò avviene in vari modi, uno dei quali, secondo il testo conciliare già citato, è l’esperienza spirituale. Di questa fa parte anche l’esperienza spirituale ecumenica. Infatti, il dialogo ecumenico non è semplicemente uno scambio di idee, ma uno scambio di doni e di esperienze spirituali (UUS 28). Ciò è possibile per ogni cristiano, nel luogo e nel modo suo proprio, poiché ognuno a suo modo è un esperto, è una persona che ha fatto delle esperienze e vuole comunicarle ad altri. Per il dialogo ecumenico vale dunque quanto ha detto Paolo per ogni raduno della comunità: Quando vi riunite, ognuno porti il proprio contributo (cf. 1 Cor 14,26).

Negli ultimi decenni noi cattolici abbiamo imparato molto dalle esperienze dei nostri fratelli e delle nostre sorelle protestanti per quanto riguarda il significato della Parola di Dio e l’interpretazione della Sacra Scrittura; essi, a loro volta, imparano dalla realtà dei nostri segni sacramentali e dal nostro modo di celebrare la liturgia. Nell’incontro ecumenico con le Chiese orientali, possiamo apprendere dalla loro ricchezza spirituale e dal loro rispetto per il mistero, mentre esse possono condividere le nostre esperienze pastorali e le nostre esperienze a contatto con il mondo odierno. Come suggerisce un’espressione ispirata di Papa Giovanni Paolo II, la Chiesa può dunque imparare a respirare di nuovo con due polmoni.

Pertanto, il dialogo ecumenico non ha come obiettivo primario quello di indurre gli altri a convertirsi alla nostra Chiesa ma la conversione di tutti a Cristo. Naturalmente, le singole conversioni nel senso tradizione non possono e non devono essere escluse; dobbiamo avere un grande rispetto per le decisioni prese a livello di coscienza personale che motivano tali scelte. Tuttavia, anche nel caso della singola conversione, difatti non si tratta di una conversione ad un’altra Chiesa, ma di una conversione alla piena verità di Gesù Cristo. In tal senso, tutti devono convertirsi, dato che la conversione non è un atto compiuto una volta per sempre, ma è un processo continuo.

L’incontro ecumenico sostiene tale conversione, poiché conduce all’esame di coscienza ed è inseparabile dalla conversione personale e dal desiderio di una riforma della Chiesa (cf. UUS 16; 34 ss; 83 ss). Quando, scambiandoci le nostre reciproche esperienze confessionali e partendo dai nostri diversi presupposti, ci avviciniamo a Gesù e raggiungiamo la misura della piena statura di Cristo (Ef 4,13), allora diventiamo con lui una cosa sola. Lui è la nostra unità. In lui, dopo aver superato le nostre divisioni, possiamo realizzare storicamente, in maniera concreta, anche tutta la pienezza della cattolicità.

Chiediamoci adesso: qual è l’unità della pienezza verso cui ci avviamo? La risposta è la seguente: non si tratta di una fusione come quella delle grandi ditte internazionali nel nostro mondo globalizzato; non è neppure un sistema complessivo, dal punto di vista speculativo o istituzionale, nel quale gli opposti si annullano, sul tipo della dialettica hegeliana. In questo risiede la differenza di fondo tra dialogo e dialettica. Certo, il dialogo tenta di dissipare i malintesi e superare le divisioni tra i partner, tendendo alla riconciliazione. Ma proprio la riconciliazione non cancella l’alterità dell'altro, non l’assorbe e non la risucchia, facendola scomparire. Al contrario, la riconciliazione riconosce l’altro nella sua alterità. L’unità nella carità non viene raggiunta quando l’identità dell’altro è annullata e assorbita, ma, al contrario, quando questa viene confermata e riempita.

Quest’esperienza dell’unità nella carità è il modello dell’unità cristiana ed ecclesiale. Essa trova, in ultima analisi, il suo fondamento nell’amore trinitario tra Padre, Figlio e Spirito Santo ed è il modello per l’unità ecclesiale; l’unità della Chiesa è come un’icona della Trinità (cf. LG 4; UR 3).


In ultima analisi, l’ecumenismo e l’unità sono un evento spirituale. Là dove si perviene ad un consenso ecumenico, questo consenso sarà sperimentato come un dono spirituale e come una nuova Pentecoste. Di questa nuova Pentecoste ha parlato Papa Giovanni XXIII, aprendo il Concilio Vaticano II con una chiara prospettiva ecumenica. Sono convinto che, se noi preghiamo come Maria e gli apostoli nel Cenacolo (Atti 1,12-14) e se ci impegniamo per quanto ci è possibile, un giorno riceveremo questo dono.

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Zwingli e Lutero: l'impossibile intesa

di Marco Galloni



Lutero? Più cattolico del papa, almeno secondo il punto di vista di Ulrich Zwingli, il teologo svizzero (1484 – 1531) che con il riformatore di Eisleben ebbe profonde divergenze sulla concezione dell’Eucaristia, culminate con il faccia a faccia di Marburg nel 1529. È quanto emerso venerdì 20 aprile 2007 durante il sesto appuntamento degli Incontri Celimontani di quest’anno, organizzati presso il monastero camaldolese di San Gregorio al Celio in Roma. Titolo dell’incontro: “Esperienza corporea dello spirito ed esperienza spirituale del corpo alla luce della teologia eucaristica della fede riformata”. Relatore il teologo e pastore valdese Paolo Ricca, moderatore dom Guido Innocenzo Gargano, priore del monastero.

Le tre obiezioni di Zwingli

La via cristiana alla salvezza, questa l’opinione di Gargano, passa necessariamente attraverso la carne: è attraverso la carne che si arriva a Dio. Una visione che Lutero, con ogni probabilità, non avrebbe avuto difficoltà a condividere. Non così Zwingli, secondo Paolo Ricca: per Zwingli noi uomini dell’era moderna viviamo nel tempo dello spirito, non più dell’incarnazione. Se Lutero è teologo dell’incarnazione, Zwingli lo è dell’ascensione. Secondo quest’ultimo il pane della cena eucaristica non “è” il corpo di Cristo ma “significa” il corpo di Cristo, mentre per Lutero l’”est” va inteso letteralmente, grammaticalmente: il pane “è” il corpo di Cristo. A Lutero avrebbe fatto peraltro gioco la concezione zwingliana, per combattere la dottrina della transustanziazione. Ma, dice il teologo tedesco, il testo è troppo forte, quasi perentorio: “est”, “è”! Entrambi i teologi affermano una presenza reale, ma mentre per Lutero si può parlare di corporeità dello spirito, per Zwingli è più opportuno ragionare in termini di spiritualità del corpo. La visione di Zwingli è sintetizzata nelle tre obiezioni che egli muove all’idea di una presenza corporea di Cristo nel pane eucaristico. Prima obiezione: l’”absurditas”, tale presenza è a ssurda, inconcepibile. Seconda obiezione: “nulla necessitas”, si tratta di una presenza non necessaria. Terza obiezione: la presenza corporea è addirittura sconveniente, indegna di un Dio che è comunque spirito.

Le risposte di Lutero

Alla prima obiezione Lutero risponde che molte sono le cose inconcepibili e inspiegabili nella creazione, eppure non a ssurde: l’anima, per esempio, che nessuno ha mai visto né sa esattamente cosa sia. E poi la voce, che è solo un soffio. O il piccolo seme che si trasforma in pianta. Eppure tutte queste cose esistono realmente, accadono. Cos’è questo pane che diventa corpo? È uno dei tanti miracoli che Dio opera. Possiamo riconoscere Dio ovunque, il creato è pieno di Lui: nulla è così grande che Dio non sia ancora più grande, nulla è così piccolo che Dio non sia ancora più piccolo, nulla è così stretto che Dio non sia ancora più stretto, nulla è così largo che Dio non sia ancora più largo... Alla seconda obiezione di Zwingli, Lutero risponde in modo sbrigativo: chi sei tu per insegnare a Dio cosa è necessario? Quasi scontata la risposta alla terza obiezione: il vero onore di Dio è proprio l’incarnazione, l’abbassamento; ciò non soltanto non è sconveniente ma esalta l’onore di Dio. Zwingli, dichiara Lutero, vuole riportarci all’Antico Testamento, al tempo delle teofanie, delle ombre, mentre il Nuovo Testamento è il tempo della presenza reale, corporea di Dio. Al contrario di quanto generalmente si crede, Lutero è un accanito sostenitore della presenza del corpo di Cristo nell’Eucaristia, al punto che Zwingli arriva ad accusarlo di cattolicesimo latente: “Tu parli come quelli di Roma, sei rimasto uno di loro”.

Il pane-corpo

Ma se Lutero è un sostenitore della presenza reale, egli è nello stesso tempo nemico dichiarato della transustanziazione, che secondo lui è un cedimento alle esigenze della ragione, un tentativo di spiegare razionalmente le cose di Dio. La ragione umana, invece, dovrebbe soltanto ricevere le cose di Dio, non spiegarle. Nemmeno Zwingli crede nella transustanziazione, come abbiamo visto, ma in modo diverso da quello di Lutero: i due, potremmo dire, sono divisi nella divisione, in disaccordo su ciò che li pone in disaccordo con la chiesa di Roma. Se per transustanziazione la dottrina cattolica intende “il mutamento della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo, resi in tal modo presenti sotto il permanere delle apparenti realtà sensibili del pane e del vino” (Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler: “Dizionario di Teologia”), per Zwingli il corpo non c’è proprio. È sul Golgota. O meglio, in cielo alla destra del Padre. Per Lutero, al contrario, c’è vero pane e vero corpo insieme, al punto che il teologo tedesco arriva a coniare espressamente la parola composta “leibsbrot”, pane-corpo. Questa è la ragione, ricordava Ricca, per cui nella chiesa luterana non si pratica la conservazione dell’ostia, che presuppone la localizzazione: per i luterani c’è presenza reale ma non localizzazione.

La trans-significazione di Zwingli

Zwingli non manca di replicare alle contro-obiezioni di Lutero, ribadendo ancora una volta che l’”est” significa il corpo di Cristo ma non è il corpo di Cristo. A titolo di cronaca ricordiamo che tale posizione non è propria di Zwingli: la si può trovare già in Wycliffe, il fondatore dei lollardi. Per rafforzare la seconda obiezione, quella della “nulla necessitas”, Zwingli si rifà a un passo del Vangelo di Giovanni (Gv 6,63): “È lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla”. Quanto all’accusa mossa da Lutero, secondo la quale Zwingli proporrebbe un ritorno all’Antico Testamento, al tempo delle teofanie, il teologo svizzero risponde risentito: “Non è vero che voglio tornare all’Antico Testamento. E poi anche il Nuovo Testamento è pieno di figure, di ombre, di parabole, di metafore”. In realtà, sostiene Paolo Ricca, Zwingli opera una trans-significazione: egli considera la cena eucaristica come la memoria della croce che prende corpo. Una memoria non come la intendiamo noi, come semplice ricordo, ma nel senso biblico, ebraico del termine “ziqqaron”, una memoria esistenziale, un’esperienza, un rivivere l’evento. L’ebreo che celebra la Pasqua non dice: “Mi ricordo di quando i miei antenati erano schiavi in Egitto”. Dice: “Mi ricordo di quando io ero schiavo nel paese d’Egitto”. Il contenzioso tra Lutero e Zwingli, sottolineava in conclusione dom Innocenzo Gargano, riporta per certi versi alla mente il conflitto tra nestoriani e monofisiti: nella teologia di Zwingli il rischio di monofisismo è concreto. Lutero e Zwingli, come si accennava all’inizio, non riuscirono a trovare un accordo: con il colloquio di Marburg fallì di fatto anche il progetto di una coalizione protestante. Il che non significa che i cristiani di tutte le confessioni e i credenti in genere debbano disperare nella possibilità di un incontro ecumenico autentico e profondo. Noi siamo di Cristo, ricordava Paolo Ricca citando 1 Corinzi 3,23, ma Cristo non è nostro. È il salvatore del mondo, non solo dei cristiani. L’”extra Ecclesiam nulla salus” può diventare così, in senso a ssai più ampio, “extra Christum nulla salus”.

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Dialogo ecumenico

Relazioni inter-ortodosse ed ecumenismo

di Andrea Pacini





Le relazioni ecumeniche tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse sembra stiano attraversando un periodo di miglioramento e di maggiore distensione rispetto all’ultimo decennio trascorso. Si tratta di una distensione concretamente testimoniata anche da alcuni importanti eventi, quali la ripresa - nello scorso mese di settembre - dei lavori della Commissione internazionale di dialogo teologico e - in occasione della festa di sant’Andrea lo scorso 30 novembre - la visita fraterna di papa Benedetto XVI al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, nonché il clima più disteso - o almeno meno conflittuale - che si respira nei rapporti tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa russa. Ci si può chiedere tuttavia se questo processo di distensione, in sé senz’altro positivo, si sviluppi su un fondamento solido, o se rimanga in qualche modo su un piano ancora superficiale e necessiti di un più profondo radicamento.
 
E’ chiaro infatti che alcune questioni che hanno complicato non poco i rapporti ecumenici tra ortodossia e cattolicesimo, come quella dello statuto teologico delle Chiese greco-cattoliche, rimangono ancora non risolte; se la sospensione della discussione su tale argomento ha avuto l’innegabile risultato positivo di consentire la ripresa del dialogo teologico, resta il fatto che non aver raggiunto una soluzione condivisa significa che tale punto nodale potrà riemergere come causa di conflittualità nel presente e nel futuro. Tale rischio si prospetta anche perché non si tratta di un problema di ordine puramente teorico, bensì con diretto riferimento esistenziale, dal momento che coinvolge Chiese vive, che convivono all’interno di Stati a maggioranza ortodossa.

Esiste tuttavia un’altra questione, forse meno nota al vasto pubblico, che ha recentemente influenzato le relazioni ecumeniche cattolico-ortodosse e che è destinata a esercitare un’influenza rilevante anche nel futuro: si tratta dei rapporti interni all’ortodossia, ovvero delle relazioni inter-ortodosse, caratterizzate da tensioni non irrilevanti, che si ripercuotono anche sull’ecumenismo.

Dal momento infatti che la comunione ecclesiale ortodossa è costituita da un insieme di Chiese autonome (normalmente, ma non sempre, di rango patriarcale), le relazioni tra le diverse Chiese svolgono un ruolo essenziale per esprimere una posizione univoca e condivisa o, al contrario, frammentaria. E’ un dato di fatto che con gli inizi degli anni ‘90 e la fine dei governi comunisti nell’Europa orientale, il rinnovato ruolo delle Chiese ortodosse di quei Paesi, in particolare della Chiesa ortodossa russa, ha riacutizzato un’antica e non risolta competizione tra il patriarcato di Mosca e il patriarcato di Costantinopoli. La motivazione di tale competizione non è irrilevante, perché riguarda il ruolo e l’esercizio dell’autorità primaziale all’interno della comunione ortodossa. Com’è noto la tradizione orientale riconosce alla sede di Costantinopoli il rango primaziale, che comporta in particolare la prerogativa di concedere lo statuto di autonomia e di autocefalia a nuove Chiese ortodosse e il diritto di appello al patriarcato ecumenico da parte di Chiese ortodosse che abbiano contenziosi reciproci, nonché da parte di singoli chierici che abbiano contenziosi con la propria giurisdizione ecclesiastica.

Il patriarcato di Mosca non intende riconoscere tali prerogative al patriarcato di Costantinopoli, e spesso ha posto atti unilaterali in cui ha assunto prerogative di tipo primaziale che secondo la tradizione spettano al patriarcato ecumenico, quali la concessione dello statuto di autocefalia alle Chiese ortodosse di Cina, Giappone e America (Stati Uniti), e, più recentemente, il rifiuto della mediazione di Costantinopoli per risolvere la crisi interna all’ortodossia ucraina. Ultimamente la competizione tra Mosca e Costantinopoli ha trovato ulteriori elementi di aggravamento in rapporto alla diaspora russa in Europa occidentale. Qui infatti, in seguito alla rivoluzione sovietica, si sono costituiti forti nuclei di emigrati russi, che si sono organizzati in due giurisdizioni ecclesiastiche, di cui una - la diocesi del Chersoneso - dipende da Mosca e l’altra - che ha il maggior numero di parrocchie - costituisce l’esarcato russo dipendente dal patriarcato di Costantinopoli. Quest’ultimo era stato fondato negli anni ‘20 del secolo XX per un’esplicita volontà di sottrarsi alla giurisdizione di una Chiesa russa che si riteneva compromessa con il governo sovietico.

L’esarcato russo ha svolto e svolge un ruolo fondamentale sul piano delle relazioni ecumeniche e come “ponte” culturale e teologico tra l’Occidente cristiano cattolico e protestante e l’Oriente ortodosso. L’istituto teologico San Sergio che da esso dipende è l’istituzione teologica ortodossa più impegnata in tali campi. Grazie al suo impulso le relazioni ecumeniche con l’ortodossia in tutta Europa hanno conosciuto progressi assai importanti. Tuttavia da circa tre anni il patriarcato di Mosca ha cercato di espandere la sua influenza sulla diaspora di origine russa, partendo dalla Gran Bretagna, dove ha invitato le due giurisdizioni a unificarsi riconoscendosi dipendenti dal patriarcato di Mosca. La strategia, messa in atto anche grazie a nuovi gruppi di immigrati russi giunti in Gran Bretagna, mirava a erodere molte prerogative di autonomia di cui godevano le parrocchie e le diocesi “russe” in terra britannica; inoltre il patriarcato russo ha cercato di diffondere la propria linea teologica e culturale, decisamente meno aperta a una ricerca teologica nuova, a una maggiore autonomia locale e a relazioni ecumeniche ricche e costruttive.

Di fronte a queste prospettive i fedeli e buona parte della gerarchia locale hanno protestato, ottenendo nel 2002 il trasferimento del vescovo ausiliare appena nominato proveniente dalla Russia. La situazione è ulteriormente precipitata nella primavera del 2006, quando a fronte della linea promossa dal patriarcato di Mosca, lo stesso vescovo Basilio - successore del noto vescovo Anthony Bloom nella guida pastorale della giurisdizione britannica del patriarcato russo - ha chiesto al proprio patriarca di passare personalmente all’esarcato russo della giurisdizione di Costantinopoli - che mantiene l’apertura teologica, pastorale ed ecumenica tipica dell’ortodossia dell’Europa occidentale - e di lasciare che potessero seguirlo le parrocchie che lo volessero. La risposta del patriarcato di Mosca è stata l’immediata sospensione a divinis. Il vescovo Basilio si è allora appellato al patriarca di Costantinopoli, che ha riconosciuto come anticanonica la procedura da cui era stato colpito e lo ha accolto nella propria giurisdizione con le parrocchie che intendono seguirlo.

Per il patriarcato di Mosca si è trattato di uno smacco notevole, anche perché tutte le principali Chiese ortodosse - con l’eccezione del patriarca di Antiochia - si sono dichiarate solidali con il vescovo Basilio e la decisione del patriarca ecumenico. Per il patriarcato di Mosca la volontà di espandere la propria influenza sulla diaspora europea si è dimostrata un’arma a doppio taglio, a fronte della notevole differenza di prospettiva culturale, teologica e pastorale tra la porzione maggioritaria dell’ortodossia dell’Europa occidentale - specialmente quella di antico insediamento - e le posizioni teologiche e culturali della Chiesa ortodossa russa attuale. Questo spiega perché anche in occasione del recente incontro della Commissione di dialogo teologico cattolico-ortodossa il capo della delegazione russa abbia contestato in modo violento la responsabilità primaziale di Costantinopoli e le connesse prerogative, senza per altro ottenere alcun successo, perché anche in quell’occasione le altre Chiese ortodosse si sono mostrate solidali con Costantinopoli. L’insieme di queste vicende tuttavia coinvolge anche l’ecumenismo inteso come efficace cammino verso l’unità: forti elementi di competizione e di disgregazione interni a una confessione non possono infatti che ulteriormente complicare i processi di riconciliazione e di dialogo ecumenici interconfessionali.

(da Vita Pastorale, gennaio 2007)

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Lectio divina su Apocalisse 12

La Donna dell'Apocalisse
e la spiritualità ecumenica

di Bruno Forte *

L’Apocalisse è una sorta di teologia della speranza sotto forma di teologia della storia: attraverso un susseguirsi drammatico di messaggi e di visioni essa intende annunciare la fede nella finale vittoria del Dio della promessa, invitando alla fiducia la comunità delle origini - provata dalle prime avvisaglie della persecuzione e dalla lacerazione in atto con la Sinagoga - e i discepoli d’ogni tempo. Quando la missione della Chiesa sarà compiuta e l’alba del Regno di Dio tutto in tutti spunterà sull’orizzonte della storia, allora la grande lotta svoltasi nel tempo giungerà alla fine e la vittoria del Signore risplenderà nei cieli nuovi e nella terra nuova delle Gerusalemme celeste. È nello scenario di questa battaglia che si colloca anche il dramma della divisione dei cristiani ed è nella luce della speranza del trionfo dell’Eterno, fondata sulla resurrezione del Crocifisso, che si fonda l’impegno ecumenico al servizio dell’unità per la quale Cristo ha pregato (cf. Gv 17,21). Proprio perché di questo scenario e di questa speranza si fa voce l’Apocalisse, è illuminante rivolgersi ad essa per approfondire le motivazioni e le caratteristiche di una spiritualità ecumenica.

In questa prospettiva, assume un particolare rilievo il capitolo 12, sintesi simbolica dell’intera storia della salvezza, dove viene presentato un “segno grandioso”, che “appare” nel cielo (la forma verbale usata è “ófthe”, propria delle teofanie e delle apparizioni del Risorto: cf. 1 Cor 15,5-8), la Donna (v. 1), a cui è contrapposta un’altra figura imponente, il Drago (v. 3), altrettanto densa di significato simbolico (come indica l’uso del medesimo verbo “ófthe”). Si tratta del “serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra” (v. 9). La Donna fugge nel deserto, simbolo ricchissimo nella tradizione biblica, dove Dio le ha preparato un rifugio (cf. v. 6), mentre si sviluppa la lotta fra Michele e i suoi angeli contro il Drago (cf. vv. 7ss), che, sconfitto e precipitato sulla terra, si avventa contro la Donna e il Figlio da lei generato (cf. vv. 13 e 17). La Madre e il Bambino non soccomberanno, riportando anzi la vittoria (cf. vv. 14 e 16).

È anzitutto lo sfondo veterotestamentario del racconto ad aiutarci a coglierne il significato: si avverte l’eco di Genesi 3,15, il testo che annuncia l’inimicizia perenne fra la Donna e il serpente, fra il seme di questi e il seme di lei. È poi evocato il contesto dell’Esodo, col tema del deserto (v. 6) e col motivo delle ali di aquila date alla Donna per volare verso di esso (cf. v. 14 e Es 19,4: “Vi ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me”). L’immagine della terra asciutta che assorbe il fiume delle acque suggerisce quindi quella del passaggio del Mar Rosso (cf. vv. 15-16 e Es 14,9 e 15,2). La figura della Donna richiama la nuova Gerusalemme, madre del popolo messianico (cf. Is 66,7), e in generale il popolo eletto (cf. Os 1-3; Is 26,17s e Ger 31,4.15): ella è “vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (v. 1). L’essere vestita di sole - fonte della luce, immagine della sovranità e trascendenza di Dio, “avvolto di luce come di un manto” (Sal 104,2) - avvicina la Donna alla figura di Sion, che sarà “rivestita di magnificenza” (Is 52,1) e “delle vesti di salvezza” (Is 61,10) nel tempo escatologico. Poiché la luna è l’astro su cui si misurano i tempi (cf. Gn 1,14-19), il fatto che la Donna abbia la luna sotto i piedi significa che a lei è assicurata la vittoria sull’avvicendarsi delle stagioni: ella, cioè, non soccomberà alle vicissitudini terrene. La corona di dodici stelle, infine, richiama sia le tribù dell’antico Israele (cf. il sogno di Giuseppe in Gn 37,9), che “i dodici apostoli dell’Agnello” (Ap 21,10.12.14), fondamento della nuova Gerusalemme. Questo insieme di simboli autorizza a vedere nella Donna il popolo di Dio delle due alleanze, l’Israele dell’attesa e la Chiesa dell’avvento messianico. Come quello della Donna, il destino del Popolo dell’alleanza sarà segnato dalla lotta col Drago, di cui certamente il dramma della divisione è un frutto.

La Donna partorisce “un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro” (v. 5): è la madre del Messia, generato nel dolore come indica il fatto che la Donna “gridava per le doglie e il travaglio del parto” (v. 2). Il Figlio è oggetto della feroce avversione del Drago (cf. v. 4b), del quale tuttavia sarà vittorioso, come mostra il fatto di essere “subito rapito verso Dio e verso il suo trono” (v. 5). Il parto doloroso congiunto all’immediata esaltazione è chiara figura del mistero pasquale: è peraltro propria del quarto Vangelo l’immagine del parto applicata al passaggio dalla tristezza alla gioia dei discepoli nell’esperienza della morte e resurrezione del Signore: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,21-23; cf. pure At 13,32-34).

Tenendo conto del duplice simbolismo della Donna e del parto, il messaggio di Apocalisse 12 può allora formularsi così: la Chiesa, nuovo Israele, nell’attuarsi della sua missione nel tempo, conosce le doglie ed è oggetto degli attacchi del Drago, di cui sono segno evidente non solo le persecuzioni dall’esterno, ma anche e specialmente le divisioni interne, frutto del peccato e dell’ostinazione in esso. Come, però, il suo Signore è stato vincitore della morte e dell’Avversario diabolico con la sua Pasqua, così la comunità messianica non soccomberà alla prova e sarà salvata dalla potenza di Colui, che è già presso il trono di Dio. Il trionfo pasquale del Figlio della Donna è anticipo e promessa del trionfo escatologico della Chiesa, anche se essa vive al presente la sua missione fra le doglie e il travaglio del parto, attraversando il suo “deserto”, che è tempo di prova e di grazia analogo a quello dell’esodo di Israele. L’azione del discepolo per realizzare il disegno di unità che Dio Padre ha per la Sua Chiesa può essere pertanto sostenuta da una speranza più forte di ogni disincanto e di ogni sconfitta.

Nella Donna, che genera il Messia Re, può essere vista anche la figura concreta di Maria, la Madre di Gesù, chiamata col titolo di Donna da Giovanni sia quando parla della sua presenza presso la croce (Gv 19,25-27), sia nel racconto delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12). Questo riferimento conferma come nella Chiesa delle origini la figura della Madre di Gesù era evocata quale densa immagine della vocazione e della vicenda dell’intero popolo di Dio e avvertita come motivo di conforto e di speranza di fronte al dolore presente. In questa luce è possibile leggere anche meglio il valore dell’ambiente in cui si svolge la drammatica lotta: il deserto. Combinando i significati vetero-testamentari del deserto a quelli legati alla figura della Donna - che è inseparabilmente la Chiesa e Maria - è possibile individuare quattro condizioni rilevanti per la vita e la missione del popolo di Dio, in particolare per il servizio alla causa dell’unità dei cristiani. Si delinea una spiritualità caratterizzata dall’ascolto contemplativo della Parola di Dio, dalla carità perseverante sotto la Croce, dalla fiducia incondizionata nella fedeltà divina e dalla speranza più forte di ogni delusione o apparenza contraria nella realizzazione della preghiera di Gesù “che tutti siano uno”.

Il deserto nella Bibbia è anzitutto il luogo della memoria dellamore e dellascolto della Parola dell’Amato: secondo quanto è detto nel libro del profeta Geremia, esso richiama il primo amore fra Dio e il suo popolo: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata” (2,2). Al tempo stesso, il deserto (in ebraico: “midbar”) è simbolo dell’ascolto accogliente della Parola (in ebraico: “dabar”), la sola forza che può trasformarlo nel meraviglioso giardino della nuova creazione: perciò, al centro della fede ebraica c’è l’ascolto - lo “shema” -, il silenzio accogliente in cui la Parola viene, come in un silenzioso deserto, a suscitare la vita. Secondo la meditazione dei Padri, Maria è il “deserto fiorito”: in quanto Vergine dell’ascolto ella è il silenzio in cui risuona la Parola di Dio, il “deserto” delle possibilità umane che si lascia totalmente abitare e plasmare dalla Grazia. Riconoscendosi nella Donna dell’Apocalisse condotta nel deserto e riconoscendo parimenti in essa la Vergine Maria come suo modello, la Chiesa apprende a “fare deserto”, a vivere cioè l’ascolto religioso e fecondo della Parola di Dio, da porre alla base della sua missione. Si profila così il primo tratto di una spiritualità che aiuti il popolo di Dio a sostenere la battaglia escatologica e essere vittorioso nella vittoria divina: il primato della dimensione contemplativa della vita spesa al servizio della causa dell’unità e nutrita dall’ascolto perseverante della Parola di Dio, come sorgente che sempre di nuovo convoca la Chiesa e la unifica nella comunione della fede e del servizio.

Il deserto è poi percepito nella Bibbia come il luogo della prova: nel Deuteronomio è scritto: “Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire” (8,14-16). Queste parole evocano le prove conosciute da Israele nel cammino dell’Esodo, ma si adattano anche alla terribile prova della lotta che secondo l’Apocalisse si scatena nel deserto contro la Donna da parte della Bestia. A sua volta, la donna Maria ha conosciuto la prova della fede (cf. la spada di cui parla Lc 2,35), fino ai piedi della Croce (Gv 19,25-27). Da Lei la Chiesa impara a sostenere la prova, fiduciosa in Dio e nella sua fedeltà, attraversando il deserto in tutta la sua ambiguità di luogo di rifugio e di spazio della lotta, dove si sperimenta la protezione dell’Altissimo e la ferocia del Drago. Da questa ricchezza simbolica, viene alla Chiesa la consapevolezza di non poter vivere la propria missione fino al tempo della fine senza essere sottoposta alla crisi ed alla prova, ma le giunge anche la certezza che il Dio che ha salvato la Donna nel deserto custodirà e salverà anche Lei, Madre nella grazia dei figli resi tali nel Figlio. Una spiritualità ecumenica, protesa al superamento delle lacerazioni che l’azione del Drago induce nella vita della Chiesa, è in tal senso anche un cammino sotto la Croce, che sa vivere ed offrire le prove come prezzo dell’amore per la causa dell’unità voluta dal Signore.

Continuando a percorrere la tradizione biblica, il deserto si presenta come il luogo della fedeltà divina: è ancora il Deuteronomio ad assicurarci che nel deserto Israele fa esperienza della fedeltà dell’Altissimo: “Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero” (32,10-12). Come Israele, così la Donna dell’Apocalisse sperimenta nel deserto la tenerezza della protezione divina, la fedeltà dell’Eterno all’alleanza. A sua volta, la Madre del Messia, la donna Maria, canta le meraviglie del Dio fedele: il Suo Magnificat ci insegna a credere nell’impossibile possibilità di Dio in ogni situazione. Da questo insieme di significati risulta per la Chiesa la certezza di non essere mai lasciata sola nella prova legata alla sua missione: il suo Signore è per lei il custode, che manifesta proprio nelle sfide dell’azione missionaria le riserve inesauribili della fedeltà al suo popolo. La spiritualità ecumenica si fonda sulla certezza della fedeltà di Dio, che non abbandona mai chi in Lui confida e porta a compimento le sue promesse, a cominciare da quella della finale riconciliazione di ogni creatura in Cristo, perché sia Lui a consegnare tutto al Padre e Dio sia tutto in tutti.

Il deserto, infine, è nella concezione biblica il luogo della sete del volto di Dio: il Salmo 63 lo testimonia: “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua” (vv. 2.7-8). Nel Salmo 143 il deserto è simbolo dell’attesa di Dio: “A te protendo le mie mani, sono davanti a te come terra riarsa” (v. 6). La Donna dell’Apocalisse è portata nel deserto per esservi nutrita dall’Eterno, segno di una fame e sete che solo Lui può colmare. Maria, la Madre di Gesù, è la credente che cammina verso il Volto nascosto e ci insegna a desiderare sempre la visione del Volto divino con fede umile e abbandonata all’Altissimo. Da questa simbologia ricchissima, la Chiesa impara a vivere la propria missione nel segno della sete di Dio, attraversando il deserto del tempo nella ricerca del Suo Volto, che solo sazia l’attesa, contagiando agli uomini questa sete salutare, di cui l’arsura del deserto è metafora. Una spiritualità ecumenica vuol dire in questa luce l’incessante sete dell’unità voluta dal Signore e invocata da chi si pone nella Sua sequela e la speranza, più forte di ogni delusione o apparenza contraria, nel compimento della preghiera di Gesù affinché tutti siano uno. La spiritualità ecumenica è spiritualità della speranza!

La ricchezza dei simboli condensati nella figura della Donna dell’Apocalisse e della lotta di Lei e del Figlio suo con la Bestia sullo sfondo del deserto converge dunque per far riconoscere alla Chiesa la sua vocazione di popolo dei pellegrini in cammino verso la patria fra le immancabili prove, di cui la prima e forse la più dolorosa è proprio quella della divisione che può determinarsi al suo interno. Chiamata ad attraversare il deserto del tempo con lo sguardo rivolto all’ultimo tempo ed ai segni anticipatori di esso, la Chiesa contempla Maria, Madre del Signore, Donna dell’ottavo giorno, e, confidando nella sua vicinanza materna, Le chiede aiuto per vivere la sua missione di Chiesa della speranza, testimone credibile della carità e della fede, al servizio dell’unità che Cristo vuole, come e quando egli la vorrà. “La dolce Madre di Dio - invoca Lutero all’inizio del Commento al Magnificat da lui scritto nel 1521 - mi procuri lo Spirito, affinché io possa spiegare con giovamento e bene questo suo canto, in modo che tutti ne possiamo trarre un’intelligenza che ci porti alla salvezza e a una vita degna di lode, sì che poi nella vita eterna possiamo celebrare e cantare questo eterno Magnificat”. “Che questo canto - prega ancora il Riformatore in chiusura del suo commento - non soltanto illumini e parli, ma arda e viva nel corpo e nell’anima. Cristo ce lo conceda per l’intercessione e il volere della sua diletta madre Maria!”.

* Arcivescovo di Chieti-Vasto

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