Ecumene

Venerdì, 01 Luglio 2011 18:49

Una «terra pura» in ciascuno di noi (Dagpo Rimpotché)

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Primo lama tibetano che si sia istallato in Francia, nel 1960, Dagpo Rimpotché dirige oggi un centro buddista nella regione di Parigi. Per avvicinarsi al nirvana e abbandonare il ciclo delle reincarnazioni, spiega, bisogna superare l'illusione dell'ego, grazie a una lunga pratica della meditazione.

 

 

 

Il Venerabile Dagpo Rimpotché è nato nella regione del Kongpo, al sud est del Tibet, nel febbraio 1932. Aveva soltanto un anno quando il tredicesimo Dalai Lama Thoupen Gyarso (1875-1933) lo riconobbe come la reincarnazione di un maestro della fine del XIX secolo, Bamtcheu Rimpotché. A sei anni, Dagpo Rimpotché entra in un monastero. A 24 anni si reca nel Tibet centrale nella grande università monastica di Drepoung, dove riceve l’insegnamento di molti maestri guelugpa. Vi rimane fino all'insurrezione del 1959. Dopo aver vissuto per otto anni sotto l'occupazione cinese, riesce ad attraversare l'Himalaya. Giunto in India vi incontra degli studiosi francesi che lo invitano a collaborare ai loro lavori di ricerca e di traduzione. Per questo Dagpo Rompotché è, nel 1960, il primo Lama tibetano che si stabilisce in Francia. A Parigi insegna lingua e cultura tibetana all'Istituto nazionale delle lingue e culture orientali. Attualmente dirige l'Istituto Ganden Ling, situato in zona parigina a Veneux-les-Sablon, nei pressi di Fontainebleau, dove dirige molte sessioni di formazione buddista. Il Venerabile Dagpo Rimpotché ha anche creato altri centri buddisti in Francia, nei Paesi Bassi e nel Sud-Est dell'Asia, specialmente in India, dove si reca regolarmente per insegnare nel suo monastero.

Che cosa è la felicità nel buddismo?

Nel pensiero buddista la gamma delle felicità ammette varie sfumature da quel che è transitorio a ciò che è finale, ma, in senso pieno, la felicità « autentica » suppone una felicità inalterabile. La vera felicità è dunque ben diversa dalle felicità ordinarie, semplici esperienze dell'ordine del piacere o della gioia che sono fra le più fluttuanti. Nel ciclo delle esistenze condizionate, chiamato il samsara, che si definisce con il fatto di nascere e morire senza libertà, in nessun caso si può conoscere una felicità superiore, cioè durevole. Divenirne consapevoli suscita il desiderio di liberarsi del samsara. È l'unica soluzione efficace, perché finché si vive sul supporto di «aggregati condizionati», cioè di un corpo e di uno spirito imperfetti, le felicità più intense scompaiono in capo a un istante e generano la sofferenza - frustrazione, delusione.

Come comprendere tali fluttuazioni?

Vivere nel samsara significa essere sotto il potere di karma sporchi e dei klesha: fattori che perturbano lo spirito, come l'avversione o l'attaccamento, che ci tiranneggiano. Siamo realisti: a causa di questi non abbiamo né indipendenza né libertà. Per esempio, vorremmo sempre dare una buona impressione agli altri; ma ecco, basta pochissimo, uno sguardo, una parola, perché talvolta siamo colti dalla collera. La persona graziosa dell'istante precedente, appena perde così tutta la padronanza di sé, diventa arcigna, persino spaventosa. E rischia di lasciarsi sfuggire delle parole che, da sé, non avrebbe mai proferito. Si sente male e mette a disagio gli altri. Difatti, finché si rimane soggetti a questi fattori perturbanti non ci si può mantenere in uno stato felice. I nostri fattori perturbanti ci dettano attività poco opportune sia sul piano fisico che su quello vocale o mentale. Esse ci fanno accumulare dei karma « sporchi », nel senso che questi karma introdurranno nuove rinascite nel samsara, con il pericolo di cadere di nuovo in stati disgraziati da cui sarà difficile trarsi fuori. È una concatenazione molto penosa. Il buddismo distingue, oltre il dolore puro e semplice, due forme di sofferenza più sottili. La « sofferenza per cambiamento » si annida in sensazioni innegabilmente piacevoli, ma che sboccano su un dolore dell'ordine della delusione, della frustrazione. La « sofferenza inerente all'esistenza condizionata » dipende dalle nostre sensazioni neutre. Poiché queste non sono connotate, può sembrare abusivo qualificarle come sofferenza. La ragione è che esse sono degli stati mentali impregnati di karma capaci di scatenare sensazioni piacevoli o spiacevoli. Le sensazioni neutre sono dunque catalogate come « sofferenza » in quanto ricettacolo di due altri tipi di sensazioni, Precisiamo tuttavia che il buddismo non nega né rifiuta le felicità del samsara. Anzi spiega come procurarsele. Ma se ammette che è certamente meglio della sofferenza bruta, constata però che non bastano, perché non soddisfano totalmente. Insomma, non si tratta di disprezzarle; soltanto si attira l'attenzione sul fatto che non si può pretendere da esse più di quello che possono dare. Si tratta di un richiamo a essere realisti: le felicità ordinarie sono degli obbiettivi limitati ed effimeri.

Quali mezzi utilizzare, allora, per liberarsi del samsara e per tentare di raggiungere quella felicità di liberazione che è il nirvana?

Bisogna risalire a quello che è l'origine del samsara e dei suoi inconvenienti: i fattori che perturbano il nostro spirito. Uno di essi è la radice degli altri: l'ignoranza di quel che noi siamo. È una percezione da parte nostra tanto naturale quanto erronea: la « coscienza del sé » apprende in maniera falsa che cosa sia « io », che cosa sia « me ». Essa immagina che esista un « io », un « me » che sia indipendente, assoluto. Questa coscienza dell'individuo, aspetto ben preciso della nostra ignoranza, bisogna distruggerla per liberarci del samsara. Perché da questa scaturisce tutto il resto. E non basta ripetersi a pappagallo « l'io non esiste », « l'io non esiste ». Il solo mezzo, secondo noi, consiste nell'entrare in una osservazione più profonda del modo in cui è costituito l'io, il me, per arrivare a poco a poco a discernere in quale maniera appare l'individuo. Esso esiste, certo, ma in maniera relativa, in dipendenza da ogni specie di altro fenomeno. Man mano che si discernerà meglio l'interdipendenza, si indebolirà l'erronea percezione del sé e questa perderà di credibilità. Un giorno diventerà evidente che, sì, un individuo esiste, ma dipendente. Allora l'ignoranza in quanto coscienza del sé non potrà più manifestarsi; sarà stata distrutta dalla comprensione di quello che si chiama la vacuità - non il nulla, ma l'assenza ( il vuoto) di una entità assoluta.

Questa comprensione viene dalla pratica della meditazione?

L'ignoranza ci fa credere che l'individuo che noi siamo sia dotato di caratteristiche proprie, che si stabilisca da sé in maniera intrinseca. Ora questo è falso. Evidentemente la nostra maniera di pensare non può operare all'improvviso una rivoluzione radicale. Non è perché si è ottenuta una comprensione discorsiva, ancora intellettuale, della vacuità, che la coscienza del sé sarà stata spazzata via. Ciò avviene gradatamente. In un primo tempo la comprensione discorsiva mina la  coscienza del sé: la rende per così dire malata. L'ignoranza indebolita perde la sua capacità di spingerci ad accumulare dei karma che introducono nel samsara, ma la partita non è ancora vinta. Adesso deve intervenire la meditazione. Meditare equivale ad abituare lo spirito a percepire le cose da un nuovo punto di vista: in questo caso, l'assenza di una natura propria. Ciò lo disabitua dalla visione fallace di un sé sostanziale. Mentre al punto di partenza la comprensione della vacuità è necessariamente discorsiva, dopo un qualche tempo essa diviene evidente. Si ottiene allora quello che si chiama la comprensione diretta del non-sé. Tale sapienza è uno strumento prezioso, il solo che sia capace di sradicare e distruggere la coscienza del sé, percezione falsa, ma saldamente ancorata in noi. Tuttavia, perché la comprensione della vacuità abbia abbastanza forza, bisogna che si fondi su uno spirito ben saldo. Di qui la necessità di allenarsi alla concentrazione, in vista di ottenere la « calma mentale » (shamatha): un livello di concentrazione che ha superato e neutralizzato la distrazione più sottile.  Ma per innalzarsi al livello della calma mentale bisogna prima aver superato la distrazione sotto i suoi aspetti più grossolani, in mancanza di che non si può neppure cominciare a concentrarsi. La cosa più urgente dunque è di adottare una osservanza minimale dell'etica: finché si ha lo spirito « distratto », cioè turbato da voglie di uccidere, di rubare, di mentire o anche... di chiacchierare, si è incapaci di concentrarsi. Insomma l'etica che consiste prima di tutto nel guardarsi dall'agire male è la base indispensabile, grazie alla quale la concentrazione supererà le forme più sottili della distrazione. La stabilità che nasce dalla concentrazione conferisce alla sapienza il potere di portare a perfezione le sue analisi. Ne nasce la comprensione diretta della vacuità, che annullerà l'ignoranza in quanto coscienza del me. Per ottenere la liberazione dal samsara, il Buddha ha preconizzato le tre istruzioni superiori - etica  concentrazione e sapienza. Se si ricorre a queste tre si otterrà la liberazione personale desiderata, diventando un arhat - un essere liberato. E se questo metodo tripartito viene applicato al fine di portare tutti gli esseri alla liberazione, si raggiungerà lo stato del Buddha.

Una volta ottenuto questo stato di liberazione non ci si reincarna più. Ma poiché non si ritorna più sulla Terra e non c'è più identificazione a un sé, « chi » è felice e dove?

Nei due Risvegli, in quello individuale come nel Risveglio supremo di Buddha, ciò che è annullato è una percezione completamente erronea a proposito di quel che si è. Non è l'individuo a essere distrutto, ma una visione falsa dell'individuo. Questo continua tranquillamente a esistere. La differenza è che si è sbarazzato della sua ignoranza e delle sue implicazioni. Non è dunque più esposto alla sofferenza sotto nessuna delle sue forme. Esso è liberato nel senso che non è più obbligato a rinascere in questo basso mondo, il samsara, sotto il potere dei karma e dei klesha. Ma se lo desidera e se lo considera utile, potrebbe rinascere fra gli esseri umani non ancora liberati, pur continuando  per se stesso a sperimentare la felicità duratura che deriva dalla liberazione. Detto questo, quando il Buddha ha dispensato i suoi insegnamenti, li ha sempre adattati ai suoi ascoltatori. Perciò sono quattro i sistemi filosofici del buddhismo. Secondo il sistema Vaibhashika, il nirvana si riduce a una estinzione pura e semplice, ma gli altri sistemi non sono d'accordo con questa interpretazione. In questo caso dove si trova il nirvana? In nessun posto al di fuori dell'individuo. È un modo di essere, uno stato di spirito. Dall'esterno non lo si vede necessariamente. Il nirvana non è un mondo lontano, o trascendente, dove vivrebbe una élite liberata e completamente separata dal comune dei mortali. Di fatto la persona che ha ottenuto il Risveglio ha, in se stessa, la sua terra pura, il « suo paradiso » se volete, e questo dovunque si trovi. D'altronde essa conserva una certa individualità. Quando si parla di « unione », è nel senso di eguaglianza - di qualità, di conoscenze, ecc - ma non di « osmosi ».

Lei stesso ha finito col trovare, praticando l'addestramento dello spirito, una felicità stabile?

Durante questa vita ho avuto l'opportunità di studiare molto il buddhismo e ho avuto la grande fortuna di incontrare maestri grandissimi che mi hanno trasmesso le loro preziose istruzioni. Come chiunque ho potuto incontrare delle difficoltà. Sono ben lontano dall'avere raggiunto la felicità durevole, ma finora non sono mai stato schiacciato dalla sofferenza. Forse perché non ho mai vissuto una reale sofferenza? Ma forse può anche essere il frutto della formazione di cui ho beneficiato. Sul piano fisico, quando si produce un dolore io lo sento, ma rimango cosciente che è un risultato dei miei cattivi karma e non mi lascio schiacciare. Ho abbastanza larghezza di visuale. Sul piano mentale, talora ho delle preoccupazioni, per esempio quando le cose non vanno come vorrei, ma nello stesso tempo ammetto che si tratti di risultati di cattivi karma. Non credo che si tratti di distacco, ma piuttosto di lucidità nei confronti di ciò che avviene. Perché ribellarsi? Ciò che si produce non è una « ingiustizia », ma qualche cosa di normale: quando si riuniscono le cause, appaiono i risultati. A meno che io non sia profondamente egoista, al punto di non essere colpito degli eventi?... Per concludere, è importante sottolineare che non tutti sono necessariamente pronti per aspirare alle felicità superiori della liberazione. Nel buddhismo esistono anche dei mezzi per ottenere la felicità dal samsara. La maggior parte delle persone possono incominciare di là. Ciò consente loro di progredire a poco a poco , secondo il loro ritmo, fino al giorno in cui saranno, chissà, agguerrite al punto di poter sentir parlare di liberazione.

Risposte raccolte da Frèderic Lenoir e Jennifer Schwarz

(da Le monde des religions, mai-juin 2010, n. 41, pp. 40-43)

Letto 5623 volte Ultima modifica il Domenica, 03 Luglio 2011 08:35
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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