Vita nello Spirito

Giovedì, 25 Aprile 2013 21:39

La dinamica della speranza: dal promettente desiderio al fiducioso abbandono (Alessandro Gamba)

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Propongo una definizione di speranza molto comprensiva che è questa: una certezza sul futuro in forza di qualcosa di attuale.

La conversazione di oggi vuole entrare nel merito della dinamica della speranza quale grande espressione dell'umano. Ho indicato, nel titolo, un punto di partenza e un punto di arrivo attraverso i termini scelti.

Lo stupore

Il punto di partenza è questo desiderio promettente. Per capire bene di che si tratta, dobbiamo aiutarci a constatare quale sia la prima evidenza che noi cogliamo. E l'assolutamente prima evidenza è che c'è qualche cosa. C'è qualche cosa (prima ancora di distinguere che cosa c'è), c'è l'essere e non il nulla. Dunque, il primo sentimento di fronte alla realtà è uno stupore, uno stupore che però si accompagna immediatamente a un'altra presa di coscienza: queste cose che percepisco di fronte a me, non hanno origine in me. Mentre le percepisco so che io non ne sono l'origine. Ora, se io non ne sono l'origine, la parola "realtà" può essere espressa anche dalla parola "dato" (che implica qualcuno che dia): queste cose che ho davanti a me o le ho fatte io - ma so che non le ho fatte io - oppure il fatto che ci siano implica un'origine del loro esserci (che non sono io). La parola più umana per tradurre il verbo "dare" è "donare". La realtà è un dato e insieme è un dono. E tutta la storia della religiosità umana, nasce dal riconoscimento di questo dato. Quando l'essere umano si accorge di avere intorno una realtà che non ha fatto lui, la prima reazione è di venerazione rispetto a un'entità misteriosa che è l'origine di questo mondo che abbiamo intorno a noi, e di noi stessi come parte di esso.
L'attrattiva della realtà è, per certi versi, la scaturigine dell'esperienza della religiosità. Questa realtà, infatti, ha particolari caratteristiche: ed è qui che usiamo la parola "cosmo" (dal greco "cosmos") che significa ordine. La realtà non è solo donata, ma anche ordinata (le stagioni, il giorno e la notte: tutta una ciclicità assolutamente indispensabile e favorevole alla nostra vita). È per questo che il pensiero cristiano ha spesso tradotto la parola ordine con il concetto di "provvidenza". Questo ordine, questa ciclicità, questa realtà favorevole alla possibilità di vita dell'uomo, diventa una vera e propria realtà provvidenziale che allo stesso tempo risveglia in noi un senso di dipendenza dalle cose. Da un lato dipendenza fisica (aria, cibo); dall'altro una dipendenza ben più profonda, per la quale all'interno di questo mondo mi rendo conto di non essere necessario, e che, quindi, come tutto è dato, anch'io sono voluto, sono specificatamente voluto nell'essere. Questo da cosa lo possiamo capire? Molto semplicemente dal fatto che non siamo noi a darci la vita, a decidere di darcela, né siamo noi a numerare i nostri giorni. Dirò di più: è il motivo per cui si è attribuito a Dio il nome di Padre. Il Padre in natura chi è? Colui che genera il figlio. Solo che il Padre (con la maiuscola) non si limita, come il padre (con la minuscola), a generarci in un momento, ma continuamente ci genera. Si tratta di una constatazione elementare: in questo istante nessuno di noi si sta dando l'essere. Potrebbe esserci il nulla, potremmo non esserci e invece in questo momento ci siamo. Questa è una evidenza da non dare banalmente per scontata, perché sennò potrebbe sembrarci che sì, qualcuno ci ha messo nel mondo, ma poi siamo noi che "andiamo con le nostre gambe". Questo è vero per quanto riguarda la libertà, ma per quanto riguarda l'essere non è mai vero. Noi siamo come un'acqua che zampilla continuamente dalla sorgente di chi ci vuole, in questo momento, in ogni momento. Sono consapevolezze rispetto al Padre che anche Gesù esprime in frasi come: «Pure i capelli del vostro capo sono contati». Una tale vicinanza di questo Padre ai figli fa riconoscere che tutto è voluto. Cioè tutto è promesso.

La speranza

Ora, proviamo a dare subito una definizione di speranza in modo da recuperare le cose che abbiamo sin qui detto. Propongo una definizione di speranza molto comprensiva che è questa: una certezza sul futuro in forza di qualcosa di attuale. È una certezza su qualcosa che non c'è ancora in forza di qualcosa che c'è già. Perché, possiamo chiederci? Perché se non ci fosse già qualcosa, difficilmente potremmo distinguere la speranza dall'illusione, dal sogno, dall'utopia, dall'ipotesi. Ciò che caratterizza la speranza è da un lato la proiezione nel futuro, ma dall'altro il fatto, che nel presente, vi è qualcosa in forza della quale questa speranza è pienamente ragionevole. Esattamente questo intende dire il passo del Vangelo che afferma che «Colui che ha iniziato in voi quest'opera buona la porterà a compimento nel giorno di Cristo Signore». Non: «nello squallido deserto della vostra vita, prima o poi arriverà qualcosa che la renderà degna», ma: «quest'opera positiva che è già iniziata (anche solo germinalmente) verrà portata a termine». Così, la mia certezza sul futuro, si basa su qualcosa che c'è già. «Colui che ha iniziato in voi quest'opera la porterà a termine».
Come si caratterizza questo Colui (io per brevità sono subito andato al grande Colui, ma la dinamica è identica per qualsiasi colui)? Anzitutto si configura come il soggetto che esaudisce un desiderio. Immaginiamoci la nipotina che va a trovare il nonno che le regala una saporita caramella. Chi è in quel momento il nonno per la nipotina? Una persona che esaudisce un desiderio. Qual è la speranza della nipotina? Che ogni volta che andrà dal nonno riceverà una caramella. È una dinamica assolutamente quotidiana. Vediamo il nostro desiderio esaudito e desideriamo che permanga un rapporto con la persona che ce lo ha esaudito. Se ho scelto un bravo dottore, mi ha curato bene quella volta, ogni volta che avrò un problema di salute ricorrerò a lui. Così è tra gli amici: è così bello questo rapporto che esaudisce il bisogno affettivo, che nasce il desiderio di condividere il più possibile con quella persona. Oppure, pensiamo ai poveri che assistiamo: si affezionano a noi perché vedono esaudito un desiderio e desiderano tornare nel posto in cui questo desiderio può essere esaudito (sia esso un bisogno materiale o spirituale). Questa è la normale dinamica con cui noi viviamo l'attaccamento a qualcosa che corrisponde a un nostro desiderio.
Nello specifico della vostra forma di vita, non stiamo parlando di un bisogno qualsiasi, stiamo parlando del bisogno profondo dell'essere umano: potremmo chiamarlo il bisogno di perfezione, di realizzazione, di compimento. Non uno specifico bisogno (del mangiare, dei soldi) ma il bisogno che costituisce la totalità della nostra antropologia, il bisogno di cui siamo fatti. Questo passaggio dal bisogno particolare al bisogno totale è alla base di uno dei brani più famosi, ma anche più spigolosi della vita di Gesù. Mi riferisco al giorno in cui il bisogno era di mangiare e bere, e Gesù moltiplicò pani e pesci. Il giorno dopo Gesù era seduto a parlare in sinagoga e dalla porta entra tutta la folla che il giorno prima era stata sfamata da lui. Perché tornava da Gesù? Perché Gesù aveva esaudito un bisogno, quindi, questa folla aveva speranza che anche il giorno dopo Gesù l'avrebbe sfamata. Gli dicono: «se sei uno che ogni volta che abbiamo fame ci dà da mangiare, Ti facciamo re subito, più di così cosa possiamo volere?». E lì succede una cosa un po' strana, perché invece di andare incontro all'entusiasmo, Gesù li fissa e dice: «voi venite da Me perché avete fame e sete; però Io devo essere onesto: se vi do solo i pani e i pesci, questo non risolve il bisogno vero che avete, questo è solo un segno. Voi avete bisogno di ben altro: la mia carne da mangiare e il mio sangue da bere». La gente rimane impietrita: «speravamo di aver trovato quello che ci dava da mangiare», e si spegne subito tutto l'entusiasmo, tutti se ne vanno. Gesù, che non ha paura della verità, addirittura prende i suoi apostoli e dice loro: «Amici, ma anche voi siete qui solo per mangiare il pane e il pesce?». E qui c'è quella bellissima risposta di cui saremo sempre debitori al nostro futuro primo papa: «Guarda, se devo essere sincero, neanche noi capiamo niente di questa storia della Tua carne e del Tuo sangue, ma se abbiamo Te possiamo affrontare la vita»! Anche noi possiamo illuderci o illudere gli altri che il bisogno umano sia la somma di tanti piccoli bisogni, mettiamo a posto il problema del cibo, del lavoro, eccetera; ma sappiamo anche, che in realtà abbiamo bisogno di ben altro, di trovare la risposta vera al motivo per cui siamo al mondo. Perciò Gesù dice: «La risposta vera al motivo per cui voi siete al mondo è la Mia carne e il Mio sangue: Io sono colui che può esaudire il vostro bisogno, il vostro bisogno di uomini, non il vostro bisogno di affamati e di assetati. Il bisogno che voi siete ha una sola risposta: sono Io, sono venuto per questo». Gesù preferisce perdere l'acclamazione del popolo piuttosto che prenderlo in giro, cioè illuderlo semplicemente risolvendo problemi particolari. Alla fine occorre risolvere il problema fondamentale della vita. È lì che inizia la Sua opera («Colui che ha iniziato in voi quest'opera buona»).
Quest'opera buona non è semplicemente esaudire alcuni bisogni, ma esaudire quello che noi siamo: la nostra felicità, la nostra contentezza, il nostro senso di giustizia, le nostre paure. E di fronte a Uno che promette questo, scatta il problema di come si può rimanere con Lui. La particolarità è che Gesù, che ha cominciato quest'opera buona, dà un'indicazione su cosa sostiene la speranza cristiana, la dà nella formula «chiedete e vi sarà dato»: «così come la prima volta, per un bisogno particolare, voi Mi avete chiesto del mangiare, così continuate con questo metodo: chiedete!», il metodo non cambia, è lo stesso. Ecco l'origine della domanda cristiana: il Signore del cielo e della terra ha promesso che se si chiede si ottiene. Quali sono le promesse alle quali noi crediamo? Sono le promesse fatte da persone che ci hanno dimostrato di essere in grado di mantenerle. In forza di aver dimostrato di essere in grado di mantenere le promesse, Gesù dice: «continuate con questo metodo: chiedete e vi sarà dato, ve lo prometto Io».

La speranza cristiana

Da questo punto di vista nasce quella che storicamente è la grande obiezione alla speranza cristiana: poiché non succede ciò che mi aspettavo, allora non è vero che la promessa è mantenuta. L'obiezione si concentra sul "come", ma la promessa di Gesù è sul "che cosa": non risolvere i problemi così come noi abbiamo in mente, ma rispondere alla domande più profonde che sono in noi (come nelle persone che abbiamo intorno). Dunque non è pertinente l'obiezione su come questo avverrà. Il problema, piuttosto, è: abbiamo una certezza nel presente sufficiente a sostenere una certezza per il futuro? Questa è l'unica autentica verifica che possiamo fare: in questo momento ho qualcosa di certo su cui poggia la mia vita che mi consente di sperare ragionevolmente per il mio futuro? La risposta non è multipla; è un sì o un no. E ci conviene rispondere onestamente.
Questo vale anche per le persone che incontriamo. La speranza che noi offriamo al prossimo è il rimandare illusoriamente alla possibilità che si risolva un problema o l'indicare qualcosa di così forte che costruirci sopra la vita è pienamente ragionevole? Si capisce perché la tradizione ebraico-cristiana preferisce come metafora delle verità l'immagine della roccia. La roccia, in ebraico "amari", da cui deriva la parolina che noi tutti diciamo alla fine di una preghiera: "amen". Cosa vuol dire concludere una preghiera con l'amen? Vuol dire: questa cosa è così certa e sicura che su di essa posso costruire. Esattamente come per il popolo giudaico trovare nel mezzo del deserto una roccia, voleva dire aver trovato qualcosa di sicuro. Da qui si capisce che il nostro poter essere esauditi ha un aspetto oggettivo, cioè noi riconosciamo immediatamente che da lì si può (ri)partire. Ecco la grandiosità della parola amen.

La pazienza

Qual è allora l'attitudine umana legata alla speranza? La pazienza. Anche qui faccio una piccola sottolineatura sulla parola. Pazienza deriva dal latino "patior" che vuol dire "portare su di sé" (addirittura la traduzione figurata è "portare sulle spalle"). Quindi la pazienza non è tanto un subire, ma è un portare su di sé. La pazienza non ha nulla di passivo, non è mera sopportazione o tolleranza: è il portare coscientemente su di sé. Questo significa che il bene che la speranza cristiana ci vuol far conseguire richiede da parte nostra una pazienza, intesa come prendere sul serio la promessa di Gesù. Rispetto a quest'ultima componente, ci sono tre verbi che ben rappresentano le difficoltà che si incontrano nell'esperienza della pazienza. Il primo verbo è "rinnegare", che è fare i capricci, esattamente come i bambini che si impuntano per negare le evidenze. Il secondo verbo è "dimenticare": ho sentito quella promessa, ma faccio finta di niente, eludo il problema, tento di distrarmi con altre cose, cerco soddisfazione in altri punti che non sono quella promessa (per esempio la carriera o il denaro), sperando che il tempo mi faccia metter una pietra sopra - ma prima o poi il nostro bisogno umano risalterà fuori (perché io otterrò quell'avanzamento di carriera e un minuto dopo sarò insoddisfatto, otterrò quei soldi e un minuto dopo sarò insoddisfatto) implorando un punto che soddisfi davvero, e questo punto è uno solo: è Gesù che non ci prende in giro dicendoci «torna domani che ti ridarò il pane e il pesce», ma dice: «torna domani che ti darò Me stesso» -. Il terzo verbo, torse lì più drammatico dei tre, è "rifiutare": io capisco bene quella promessa, ho capito molto bene quello che Lui sta dicendo, ma dico di no, rifiuto questa possibilità, e divengo scettico («è inutile che mi parli di verità, tanto non c'è; è inutile che mi parli di gratuità, tanto nessuno fa niente per niente»).
Occorre pazienza, appunto. Nell'ingratitudine, nella freddezza, nell'incomprensione che spesso accompagnano il nostro agire nel mondo. Il bene che portiamo non deriva da noi, anche noi l'abbiamo ricevuto, ma la promessa che tutto questo si compia l'abbiamo sentita con le nostre orecchie. Sopportare con pazienza, non subire: «vedo questa certezza e su questa certezza voglio costruire».
Vorrei concludere con un piccolo paradosso. A tutta prima potremmo pensare che l'opposto della pazienza si l’impazienza. In realtà, l'impazienza è una deficienza della pazienza (come la miopia è una deficienza della vista). L'opposto della pazienza è la rassegnazione: quel vivere da sconfitti, da rinunciatari, da prigionieri. Da persone che, fingendo di non avere tempo per attendere, sono perennemente annoiate.
Vi è una virtù umana - nella quale oggi più che mai dobbiamo esercitarci asceticamente - che fa da insuperabile antidoto a questo problema: la fortezza, che è costituita di fermezza nelle difficoltà e di costanza nella ricerca del bene. Quella fortezza che è proprio la virtù eminente del martire, di chi giunge fino al sacrificio della propria vita abbandonandosi fiduciosamente all'unica speranza degna di questo nome.

Prof. Alessandro Gamba *

* Docente di Storia della filosofia presso Università Cattolica del Sacro Cuore

Nota:  Relazione tenuta al corso di formazione indetto da USMI Diocesana di Milano il 7 novembre 2008.


(in Vita consacrata in Lombardia, XXXIII, n. 79, giugno 2009, pp. 37-43)

 

Letto 3088 volte Ultima modifica il Mercoledì, 08 Maggio 2013 09:20
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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