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Sabato, 06 Settembre 2008 21:00

Asia, scuola di pluralismo (Sandra Mazzolini)

Asia, scuola di pluralismo

di Sandra Mazzolini *





Se diversi sono i motivi per i quali sempre più persone viaggiano per il mondo, molto spesso è comune il fine conseguito: l’incontro tra persone di varie provenienze culturali e religiose. Che, per periodi più o meno lunghi e in forma più o meno stabile, interagiscono in uno stesso contesto, che per gli uni è quello conosciuto delle origini e per gli altri è un vero e proprio «nuovo mondo» da scoprire.

Le forme dell’incontro sono molte, certificate sia dall’esperienza quotidiana, sia dall’informazione, spesso concentrata sugli esiti negativi o sui fallimenti che sembrano sigillare l’impossibilità di una pacifica convivenza. Pare così giustificato, per esempio, il pensiero di coloro che ipotizzano uno scontro di civiltà o le paure e i timori di possibili «invasioni», ulteriormente destabilizzanti il già precario assetto istituzionale, politico ed economico del nostro Paese.

Se è un fenomeno sostanzialmente nuovo per il nostro Paese, non è così per altre aree continentali, la più significativa delle quali è quella asiatica. Qui il dialogo è tematizzato e praticato come modalità specifica dell’evangelizzazione, con riferimento a tre realtà che caratterizzano l’Asia: i poveri, le culture e le grandi religioni. Liberazione, inculturazione, dialogo interreligioso sono conseguentemente assunti quale terminologia specifica per descrivere i modi e gli ambiti dell’evangelizzazione in Asia.

Padre Michael Amaladoss, gesuita indiano, docente di teologia e autore di diverse opere sul dialogo interculturale e tra le grandi religioni, mette in rilievo che il dialogo interreligioso - l’interazione tra persone che appartengono a varie tradizioni religiose - può essere compreso e praticato in due modi differenti e complementari: o come dimensione della missione (e quindi con riferimento all’annuncio evangelico), o come dialogo praticato da credenti di religioni diverse che vivono insieme nella società civile, spazio pubblico multireligioso, che offre un’effettiva possibilità di collaborazione in ordine alla creazione di una nuova società giusta, libera e fraterna.

Il dialogo non esclude perciò alcun ambito della vita dei credenti e non è neppure appannaggio dei soli specialisti. La collaborazione per la difesa e la promozione di comuni valori umani e spirituali, e allo stesso tempo la condivisione della vita quotidiana della comunità di appartenenza, delle proprie esperienze spirituali, delle riflessioni sul proprio specifico modo d’intendere la vita e la realtà, sono le coordinate lungo le quali si sviluppano - certo non senza difficoltà - esperienze di dialogo tra le religioni, dalle quali può conseguire una reciproca ed effettiva comprensione e conoscenza, volta a superare quei pregiudizi che stanno all’origine delle divisioni anche conflittuali e che le mantengono vive.

Quindi l’apporto che i cristiani possono offrire al dialogo interreligioso, senza in alcun modo indebolire o negare la specificità della loro professione di fede e della loro appartenenza ecclesiale, si muove nella doppia linea della conoscenza degli interlocutori e del riconoscimento, che in ultima analisi riguarda un fattore determinante: Dio è già presente in essi e nelle loro tradizioni religiose. Destinatario dell’annuncio evangelico è, dunque, un mondo nel quale Dio non è estraneo.

Considerare in modo non pregiudiziale o idealizzato l’esperienza dei processi dialogici già in atto altrove permette di sottrarre dal limbo dell’utopia l’ipotesi di un’effettiva possibilità d’incontro.

Le nostre società, che si stanno configurando come interculturali e interreligiose, hanno bisogno certamente di leggi ad hoc che determinino i modi della convivenza civile, ma hanno anche e soprattutto bisogno di superare preliminarmente i pregiudizi; se questi permangono, la diversità è percepita e vissuta sostanzialmente come attentato alla propria identità. Invece occorre pervenire a una fondata conoscenza degli interlocutori, senza la quale non ci può essere un reale ed efficace riconoscimento

* Teologa, docente di missiologia alla Pontificia università urbaniana

(da Mondo e Missione, m aggio 2007)

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  Corea del Sud

A scuola di dialogo interreligioso

di Peter Njoroge Githaiga


«La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» (FelixAdler).

«La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» «La religione è come il mago e la sibilla... Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» Mahatma Gandhi diceva che «uno studio amichevole delle religioni è un dovere sacro». Sono quindi contento di potermi dedicare allo studio comparato delle religioni, di avere l’opportunità non solo di assolvere a questo sacro dovere, ma di gustare, seppure come un semplice novizio, le ricchezze delle esperienze religiose del mondo al di fuori della sfera del cristianesimo. La realtà religiosa del mondo sta diventando sempre più pluralistica; perciò, qualsiasi religione venga professata, deve essere vissuta in un atteggiamento di incontro e dialogo con la fede del vicino. «E arrivato il tempo in cui i contatti interreligiosi basati sulla cortesia e una conoscenza generica non sono più sufficienti. È indispensabile conoscere in profondità la religione di colui con cui si vuole dialogare» (Card. .Arinze). Lo studio del mondo delle religioni non consiste puramente nel cercare possibili vie di armoniosa coesistenza o pacifica interazione, ma è molto di più: è un arricchimento reciproco.


Quando lo studio delle religioni è fatto avendo in mente il dialogo interreligioso, è importante accettare che la maggioranza di tali religioni sono «i modi di vita di immense porzioni di umanità…, l’espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani. Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi, di saggezza assimilata da popoli e culture. Sono tutte cosparse di innumerevoli “germi del Verbo” Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare,come vivere e morire, come custodire i propri defunti» (cfr Evangelii nuntiandi 53).


Infatti, il nocciolo della questione nello studio delle religioni è proprio qui: al di là dei contenuti di fede che vengono professati, esiste una realtà vissuta che è stata espressa in molti e differenti termini, come «esperienza religiosa», «esperienza spirituale», «esperienza divina», «esperienza del sacro, del trascendente, delle potenze divine» ecc. Nella tradizione abramitica possiamo chiamarla «esperienza di Dio».


Questa vasta gamma di «esperienze religiose», senza ignorare la realtà dell’errore umano, è una profonda, autentica e onesta avventura spirituale, che costituisce il cuore della storia umana di tutte le generazioni che si sono succedute nel tempo e nelle differenti situazioni geografiche. E poiché nessuno può pretendere di avere una completa e perfetta esperienza di Dio, lo studio delle differenti tradizioni religiose non può che arricchire la nostra limitata esperienza.


Noi non comprendiamo a pieno l’universo; non possiamo parlare della morte senza conoscere la vita. Almeno finché esistiamo, c’è una ragione per cui siamo al mondo, E la nostra volontà di credere in questa ragione più ampia ci aiuta ad agire in compagnia delle «potenze divine». E per affrontare la morte bisogna diventare collaboratori di cielo e terra nella creazione di un universo migliore: un traguardo raggiungibile se siamo aperti alle esperienze religiose altrui.


Lo studio delle religioni è di grande importanza anche nella stessa teologia cristiana. Senza raggiungere una prospettiva comparativa mondiale, la teologia cristiana non può né conoscere totalmente le proprie forze, né corroborare le sue debolezze. Per questo, la teologia cristiana ha bisogno di essere fondata sullo studio comparato delle religioni.


Il dialogo interreligioso è uno dei principali traguardi dello studio delle religioni. E’ importante nel nostro tempo inculcare nella mente della gente la «cultura del dialogo». «Il dialogo come attività umana e umanizzante - afferma il gesuita Raimond Panikkar, uno dei più grandi filosofi e teologi viventi - non è mai stato cosi indispensabile in tutti gli ambiti della vita quanto nel nostro tempo di individualismo accademico. Tutto il nostro loquace parlare di ”villaggio globale” si effettua su paraventi artificiali sotto chiave». Pace e coesistenza armoniosa della gente sono minacciate da estremismo e terrorismo. Per questo in tutto il mondo c’è un risveglio tra le persone di buona volontà, impegnate in uno sforzo di creare un’atmosfera di amicizia e cordialità verso le religioni altrui.


Il traguardo da raggiungere nel dialogo interreligioso è, a sua volta, quello di rimuovere le nostre maschere religiose, che non hanno nulla a che fare con la vera esperienza religiosa. Il vero dialogo religioso ha luogo solo quando raggiunge le profondità delle intime credenze religiose e affronta gli interrogativi fondamentali sul senso della vita. Quando le maschere sono rimosse una ad una e siamo immersi nel dialogo con tutta la nostra persona, allora emerge qualcosa dal di dentro e comincia il «dialogo interreligioso». A conclusione, riporto un poetico sermone di Panikkar, che contiene alcune linee-guida fondamentali per il dialogo interreligioso: «Quando intraprendi un dialogo interreligioso, non pensare in anticipo ciò che devi credere. Quando testimoni la tua fede, non difendere te stesso o i tuoi interessi acquisiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fai come gli uccelli de cielo: essi cantano e volano, e non difendono la loro musica o la loro bellezza. Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come un’esperienza rivelatrice, come tu vorresti (e dovresti) guardare il giglio nei campi. Quando prendi parte a un dialogo interreligioso, cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio prima di togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo prossimo. Beato te, quando non ti senti autosufficiente mentre stai dialogando. Beato te, quando hai fiducia dell’altro, perché confidi in Dio. Beato te, quando affronti incomprensioni dalla tua stessa comunità o da altri per amore della tua fedeltà alla verità. Beato te, quando non abbandoni le tue convinzioni e tuttavia non le poni come norme assolute».


(da MC,  marzo 2008)

Pubblicato in Dialoghi
Mercoledì, 18 Giugno 2008 02:22

Un presente senza catture (Raimundo Panikkar)

Un presente senza catture

di Raimundo Panikkar


L'incontro delle tradizioni religiose dell'umanità oggi è inevitabile, importante, urgente, confusionale, rischioso, purificante.

Ripeto, è inevitabile. Lo splendido isolamento dei vedantisti, dei cattolici, dei cristiani, di quelli che stanno dentro la muraglia cinese non è più possibile; l'incontro avviene già a casa nostra.

Alcuni paesi o civiltà come l'India sono sempre stati un mosaico di religioni, ma anche l'India ha creato le sue caste, caste religiose, per non contaminarsi gli uni con gli altri e da parecchi secoli spesso i cristiani hanno vissuto accanto agli indù senza avere nessun rapporto più profondo. L'Occidente ha vissuto con una certa ossessione dell'Islam durante alcuni secoli, ma poi si è accomodato in uno splendido isolamento, al punto che è stato necessario che venissero fuori i protestanti, perché altrimenti i cattolici da soli si sarebbero annoiati troppo.

L'incontro è inevitabile, ma ho detto che è importante, perché non è un incontro casuale; dal risultato di questo incontro dipende il futuro dell'umanità, che si verifichi una nuova guerra, una guerra religiosa; le guerre sono sempre più o meno religiose, perché si tratta di vita o di morte e non c'è altro modo di risolvere il problema; la definizione fenomenologica della religione: un problema ultimo.

L'incontro è così importante che il futuro dell'umanità dipende non dal capriccio di un politico o di un altro, ma dal clima che si è creato, che renda possibile che i politici in seguito ne siano influenzati.

Se le tradizioni religiose del mondo - e per tradizione religiosa intendo non soltanto quelle che hanno l'etichetta di religione, ma anche il marxismo, l'umanesimo, - non trovano in questo incontro un qualche cosa di positivo, l'umanità è condannata a sparire, i popoli a distruggersi a vicenda.

L'incontro è importante, non è un lusso, ma è anche urgente. Il culmine della saggezza in certo senso, anche in quello più volgare. consiste nel sa-per combinare l'urgenza della cosa con la sua importanza. Ci sono cose molto urgenti, ma non importanti, mentre al contrario, ci sono cose molto importanti, ma non tanto urgenti. A volte dimentichiamo le cose importanti e facciamo soltanto quelle urgenti, rovinando così la nostra vita; altre volte cerchiamo soltanto l'importante, senza accorgerci che questa cosa importante è rovinata perché quella urgente è già avvenuta e tutto è finito. La saggezza personale di ogni individuo consiste precisamente nel combinare l’urgente con l'importante. E urgente perché non c'è molto tempo. Non siamo preparati, dunque dobbiamo prepararci. L'incontro fra le religioni è confusionale. Io prima sapevo dove sono stato e adesso... sono confuso; chi non si sente confuso vuol dire che non ha capito, vuol dire che è superficiale, vuol dire che non gli importa niente di niente. Dunque anche la confusione fa parte del cammino, perché poi questa confusione è tanto più profonda in quanto tocca i pilastri stessi della nostra sicurezza. Abbiamo sentito una delle frasi più belle di Sartori, che se uno non muore alla sua fede non è degno della sua fede. E tutte le nostre sicurezze? Questa grande ossessione post-cartesiana dell'umanità, che fa sì che si cominci con la certezza e si finisca con la sicurezza, che si cominci con la certezza epistemologica e si finisca con la sicurezza politica delle armi?

È dunque confusionale questo incontro e lo deve essere; inoltre è rischioso. E rischioso perché quello che io metto in gioco è la mia fede, è la mia vita, è tutto quello che io penso sia la verità, è la cosa più importante e più centrale di tutta la mia esistenza, è quello che finora non si toccava. E rischioso, detto in linguaggio storico religioso, perché tocca il tabù. Come dice Avinava Gupta e dopo di lui Giovanni della Croce, (gli estremi si toccano) c'è un momento dove non c'è sentiero: anupaya, y en la fin no hay camino. Una in sanscrito, l'altra in spagnolo, ma vogliono dire la stessa cosa. E dunque rischioso. E rischioso, perché là dove non c'è un sentiero c'è pericolo.

Ultimo, è purificante. Forse proprio oggigiorno che siamo così sofisticati con la psicologia e con tante altre cose, questo incontro è l'unica scuola di vera umiltà. L'umiltà specifica che da solo non ce la faccio, che non sono autosufficiente, che non so tutto, che quel poco che sapevo e ritenevo che fosse certo, nemmeno questo lo è. E purificante, perché ci fa vedere nello stesso tempo i nostri errori personali e quelli del passato. E purificante, perché non giustifica che io mi lavi le mani perché durante le crociate io non c'ero, e quindi la mia visione personale, fantastica, del Cristianesimo va molto bene, ma non vuol sapere niente di altre pagine nere. E l'Induismo, il Buddhismo, per limitarmi a queste tre religioni, hanno anche loro le pagine nere. Se io fossi unjaìna, e lo sono un po' quasi onorariamente vi potrei parlare delle persecuzioni indù ai jaina. Quindi nessuno ha il diritto di scagliare la pietra su nessuno. E una purificazione collettiva, che riguarda i buoni, i cattivi, i giusti, tutti quanti. Sostengo dunque, come introduzione, che l'incontro fra le religioni ha queste caratteristiche.

le catture

Ma veniamo al tema le catture. La mia riflessione è che noi ci dobbiamo liberare, e liberazione vuol dire nirvana, vuol dire moksha, vuol dire soteria, vuol dire anche teologia della liberazione, se volete. Ci dobbiamo liberare dalle possibili catture che ci tengono o ci possono tenere prigionieri durante questo pellegrinaggio verso il futuro, perché mi si chiede che parli del futuro senza catture. Io preferirei questa volta disubbidire, soltanto parzialmente, e sognare un momento con voi, un presente senza catture. Se riesco a spezzare alcune di queste catture per il presente, avrò fatto - penso - il migliore servizio per il futuro.

Io ne vedo troppe di catture, ma ne vorrei segnalare quattro.

La prima ci viene dal di dentro, dalle nostre reazioni viscerali, da ciò che non è stato mai sognato, mai pensato, che è stato giudicato impossibile e quindi costituisce una specie di resistenza passiva, incosciente la maggior parte delle volte. Esiste un'inerzia dello spirito, favorita da tutta la parte pesante del nostro essere, dal costume, dalle consuetudini. Si dovrebbe e si potrebbe fare una psicoanalisi di questa nostra inerzia, che non è formulata, perché non è nemmeno cosciente, ma che è normale; là si fa così, ma qui si fa in questo modo e basta. Dobbiamo superare questa reazione viscerale.

le idee comandano?

La seconda cattura è ancora più forte. Se fossi in sede accademica direi che ci tiene prigionieri da Parmenide in poi. Siamo prigionieri del pensiero. Le idee comandano e ci dominano. E la prova più straordinaria che il pensiero è così potente, è che io calcolando con numeri irrazionali e facendo pura matematica costruisco un ponte e il ponte sta in piedi. In Occidente - e questo è il grande miracolo, se diabolico o divino, lo lascio da parte adesso - il pensiero ha dominato l'essere. Forse, però, siamo diventati schiavi dei nostri pensieri, dei nostri schemi intellettuali. Detto in un'altra forma, il logos ci domina. Già da principio i Padri greci avevano capito che c'era pericolo in Occidente, del cosiddetto subordinazionismo, cioè di subordinare nel fare teologia lo Spirito al logos e che il logos fosse tutto; mentre lo Spirito soffia non soltanto dove vuole, ma anche come vuole.

L'esempio più chiaro è la prigione dell'ortodossia. Io non ho niente contro l'ortodossia, dico soltanto che è una prigione, anche se alcuni la trovano confortevole perché si trovano sicuri. E interessante vedere questa specie di degradazione dall' ebraico, al greco, alle lingue che già i latini chiamavano volgari, de] termine kabot, la gloria del Signore, doxa, la potenza della gloria e doxa, la ortodossia, che ha molte poco di questa rifulgenza, di queste lume, di questa luminosità interna che si è convertita in schemi chiari precisi, distinti, cartesiani, sicuri forse certi, dentro un certo limite. Ci si è dimenticati che anche grandi pensatori, come il divus Thomas, sostennero che l'atto di fede non consiste nei dogmi, negli enunziati, ma punta direttamente alla cosa e che i dogmi sono soltanto canali per arrivare a quella, come nella metafora orientale in cui è il dito che punta la luna; se tu non guardi il dito, non vedrai la direzione della luna, ma se pensi che la luna stia nel dito, allora ti sbagli. Quindi, una volta che hai visto il dito, lo devi dimenticare.

Tutte le spiritualità, quando arrivano alla ultima formulazione forte, hanno una omogeneità straordinaria. Dice il Mahayana: «Se vedi il Buddha, uccidilo», perché quello che era il tuo aiuto per arrivarci, può dIventare il tuo ostacolo. Dopo Emmaus, penso che i cristiani possano egualmente dire: «Se vedi il Cristo, mangialo, non chiuderlo sotto chiave in qualche parte; fallo tuo, mangialo».

Le dottrine sono necessarie. La dottrina è una cosa straordinaria. Viviamo tutti in una società di consumo sulle dottrine, ma la dottrina non è la vita, lo scheletro non è l'individuo. Io non ho niente contro le dottrine, critico soltanto l'assolutizzazione delle dottrine e la confusione tra dottrina e realtà.

la contingenza delle culture

C'è un'altra cattura più sottile ancora, perché meno cosciente. La parola che forse la può descrivere meglio sarebbe l'ambiente, mentre il termine più appropriato sarebbe la cultura. Tutti quanti noi ci muoviamo dentro un ambiente, dentro una cultura. Abbiamo delle limitatezze che sono necessarie, di cui non possiamo far a meno; tutti noi siamo radicati dentro una cultura.

Un esempio banale, ma almeno chiaro: quando io ho cominciato a parlare, sicuramente tutti quanti di voi avete percepito che io parlavo con un accento piuttosto strano. La mia cattura dell'ambiente, non può essere vinta dicendo: «Beh, io non mi lascio imprigionare!». Ma soltanto essendo consapevole che io sono dentro un ambiente, che sto dentro una cultura, che sono contingente, limitato, che la mia visione non esaurisce l'esperienza umana, che io non posso in nessuna maniera avere la pretesa che le mie parole, le mie verità, le mie idee, le mie rappresentazioni, siano la totalità, che il mio mondo sia il mondo, la verità, l'ambiente, la realtà. Esse sono tinte del mio accento, delle mie limitatezze, della mia contingenza, della mia cultura, della mia forma di vedere, di tutto. Dobbiamo precisamente dire: «Sì, sto dentro un ambiente e questa è la mia condizione, questa è la condizione umana». Questa stessa pretesa d'universalità, di neutralità è ovviamente un'allucinazione possibile soltanto a colui che non ha avuto il correttivo dell'altro.

Perciò la quarta cattura è quasi il rovescio. Volendo uscire dal mio ambiente, volendo uscire dalle mie limitazioni, finisco per lasciarmi condizionare dall'ambiente e dalle limitazioni degli altri. Quindi parlo per gli altri, mi lascio alienare, in certo qual modo, da quello che penso sia il mio ruolo, (c'è un ruolo che consiste nel fare un po' il teatro). Non dimentichiamolo: il giansenismo, il manicheismo ci sono dappertutto. E in questo campo possono chiamarsi xenofobia come xenofilia, possono voler dire che tutto quello che viene da fuori dell'Italia è migliore o che soltanto noi cattolici o noi italiani siamo i migliori del mondo. Quello che dobbiamo realizzare non è un esercizio di pensiero, non è un esercizio di filosofia, di teologia, di acutezza, non è un esercizio di carità, (la tentazione di fare del bene è molto sottile, ma già Cristo ci ha avvertito: «lascia che le pietre rimangono pietre e non volerle convertire in pane»). Dentro la tradizione cristiana, (non l'indiana, perché qui la parola sarebbe molto diversa) si potrebbe dire che è una questione di santità, di purezza di cuore, di audacia, di libertà di spirito, di docilità alla grazia. E una questione che abbiamo avuto l'audacia di toccare sia l'anno scorso che quest'anno, e richiesta in maniera esigente di una donazione totale, di una docilità assoluta, una purezza trasparente. Diceva la Ung Ciung... «soltanto la sincerità più pura, soltanto la purezza più trasparente può effettuare un cambiamento». Qualsiasi cosa che venga da un cuore totalmente trasparente, da una intenzione completamente irriflessa, senza che nessun'altra cosa l'accompagni, può effettuare un mutamento.

Lasciate che vi racconti questa piccola storia di Bapuji Gandhi. Una buona donnetta del suo asram Damedavat che lo vedeva di tanto in tanto, un giorno va, tocca i piedi di Bapuji e gli dice: «Bapuji, dite alla mia ragazzina, (aveva una ragazzina di otto dieci anni) che non mangi tanti dolcini che le rovinano lo stomaco, che sia un po' più buona e che mi ascolti. Diteglielo per favore!». Gandhi non rispose niente, sorrise, lei capì e se ne andò senza dire altro. Settimane più tardi lo trovò un'altra volta e allora la donna, che non aveva più questo desiderio di far del bene a sua figlia, disse: «Bapuji per curiosità, perché non mi avete risposto quando vi ho fatto quella richiesta per mia figlia?» e Gandhi le rispose: «Sai, in quel tempo piacevano anche a me un po' troppo i dolci» e quindi le sue parole non avrebbero avuto nessun senso, nessun effetto. Soltanto la più pura sincerità, la più totale trasparenza può effettuare il minimo cambiamento, dice la saggezza cinese. Questo è il corollario: non si tratta di una buona teologia, si tratta di un'altra cosa; questo è il Kairòs, questa è la sfida.

l'avventura della fedeltà

Il primo problema è teologico. Intendo anzitutto teologico nel senso tradizionale della parola, cioè che implica santità, fedeltà E qui vorrei essere molto chiaro. Non si tratta in alcun modo di diluire, debilitare la propria convinzione, la propria fede, la propria religione; non si tratta di cercare un comune denominatore facendo concessioni qua e là, a motivo della pace, dell'ecumenismo, della convenienza, della tolleranza tra i popoli. Non si tratta dunque dì creare una specie di ecumenismo alla bière, come io lo chiamo parlando con gli ecumenisti francesi. Dinanzi a un bicchiere di birra tutti quanti siamo ecumenici. E il problema che mi sta a cuore non è domandare un'apostasia; non è che io diluisca le mie convinzioni e che a motivo degli altri sia traditore, cerchi un comune denominatore e voglia fare dei compromessi. Non si tratta, per ripetere le parole di Paolo, di svuotare lo scandalo della croce, di essere meno cristiani per essere più ecumenici; si tratterebbe, semmai, di essere migliori cristiani per essere migliori ecumenisti. Il dialogo non è un segno di insicurezza, ma è un segno di maturità e soprattutto di assenza di paura. Se vado al dialogo con paura, tutto quello che ho paura di perdere è bene che lo perda quanto prima, perché allora sarò liberato dalla paura. Tutto quello che può morire muoia quanto prima e più presto verrà la risurrezione. Quindi il problema teologico consiste nel non minimizzare le differenze, non evitare i problemi scottanti imbarazzanti, ma nel penetrarli più dal di dentro e dì compiere quello che io posso.

Lasciatemi qui stabilire tre punti fermi che prendo da: 1° Timoteo, 2° Timotero, e 3°, tutta l'epistola agli Ebrei e ai Romani, tre punti fermi garantiti dalla stessa Scrittura fondamentale del cristianesimo. «Deus vult omnes homines salvos fieri, Dio vuole che tutti gli uomini si salvino»: questo dicono i cristiani ripetendo la loro Scrittura. Dunque, se Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e questa non è una velleità divina, questo stesso Dio, parlo il linguaggio cristiano tradizionale, deve concedere agli uomini dei mezzi di salvezza che siano alla loro portata di mano. E quello che sta a portata di mano di tutti gli uomini sono precisamente le tradizioni religiose. Quindi le religioni dell'umanità sono i mezzi ordinari voluti da Dio per la salvezza degli uomini; sto facendo teologia cristiana. Ogni autentica religione è cammino di salvezza, e prima già ho detto che io non limitavo il nome di religione a quelle che ne hanno l'etichetta, che in fondo sono soltanto le religioni abramiche, perché né il Buddhismo né l'Induismo sono contente se le chiamano religioni. Non possono «religare» niente, è tutto un altro universo di discorso; comunque possiamo utilizzare questa parola, se gli indù e i buddhisti l'ammettono, perché la utilizziamo tra virgolette. Questo è così pacifico - non voglio fare qui autobiografia – che anche il Concilio l'ha accettato.

Seconda, e forse il più difficile di questi punti fermi. «Unus mediator, un unico mediatore» dice anche l'epistola a Tito. Sì, i cristiani non possono fare a meno di credere che c e un unico e solo mediatore. Se rinunciano a questa intuizione per motivi di ecumenismo tradiscono venti secoli di tradizione cristiana. Da parte mia credo che c'è soltanto un unico mediatore (con questo mi rendo più vulnerabile, se volete), che c'è Cristo e soltanto Cristo come simbolo per i cristiani, che è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, che è l'alfa, l'omega, il ricapitolatore di tutto l'universo, il monoghenés, il protoghenés, il primogenito, l'unigenito, la luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo, colui per cui tutte le cose sono state create, in cui tutto risiede, consta e ha la sua forza, in modo tale che io filosoficamente direi che l'essere è una cristofania. Quindi, ci credo. Continuo però dicendo che: 1°) Il Cristo, (vi faccio questo riassunto neotestamentario assai rapido) non è identico a Gesù. Gesù è il Cristo e chi dice questo credendoci è un cristiano, ma Cristo, pur essendo Gesù, è molto di più, (il «più» qui non va) e non si può identificare con Gesù. L'eucarestia per il 90% dei cristiani è il Cristo, ma nella eucarestia non si mangiano le proteine di Gesù di Nazaret. «Lo avete fatto a me», ho commentato prima. Gesù è morto, quello che è risorto è il Cristo, che è un'altra cosa; che è la stessa da un certo punto di vista, ma che non si può identificare. 2°)1 cristiani non hanno il monopolio di Cristo. 3°) I cristiani non conoscono del mistero di Cristo che una piccolissima parte, non lo possono manipolare per i propri fini, questo Cristo li trascende totalmente; il Cristo ha altre dimensioni, aspetti, forme, di cui i cristiani non sanno assolutamente niente, non sono loro i padroni di Cristo, loro conoscono del Cristo qualcosa che per loro è essenziale, che per loro è centrale, ma questo Cristo-Mistero trascende da tutte le parti quello che i cristiani pensano, credono in Cristo. Perciò io mi per-metto di dire che il Cristo, in questo terzo senso, è nascosto, sconosciuto, presente e effettivo in ogni autentica religione.

Quindi il mistero di Cristo è mistero di Cristo e, se noi utilizziamo la parola nel suo senso reale, non possiamo in alcun modo pretendere di avere conoscenza, manipolazione di questo mistero.

Qui c'è una cosa che io ho chiamato «pars pro toto effecto». Ciascuno di noi vede il mondo da una finestra e non può non vederlo che da una finestra e quanto più trasparente e bella è la finestra meno si vede, meno consapevoli siamo di vedere attraverso la nostra finestra. E noi vediamo tutto il mondo, tutto. Io non sarei cristiano se pensassi di appartenere ad una piccola setta che esiste soltanto da due millenni; io non voglio appartenere a nessuna setta, io non voglio consacrare la mia vita soltanto a una cosa che è avvenuta duemila anni fa, quando l'umanità esisteva per lo meno da mille anni prima e aveva fatto tante cose belle... No, la mia appartenenza al Cristianesimo non è l'appartenenza settaria a una forma; io riconosco le mie limitatezze e so che non posso fare a meno di dire che per me il Cristo è il simbolo di questo, che gli altri chiamano con altro nome, che vedono in modo diverso, che ha anche dimensioni per me completamente sconosciute e per me anche inaccettabili dal mio punto di vista. È il «pars pro toto effecto». Io vedo il totum in parte e ho bisogno dell'altro per dirmi che sto guardando attraverso l'apertura di una finestra, perché io non la vedo; quanto più la finestra è pura finestra tanto meno è visibile, ma qui», e io gli dirò: «Anche tu». Ebbene, noi due vediamo la stessa cosa, non vediamo due punti diversi. La mentalità scientifica ci ha contagiato in modo tale che tante volte l'ecumenismo consiste nel dire: Beh, qui c'è il grande dolce, facciamo una parte per te, una parte per me, la mia è un po' più grande della tua, è un po' superiore, ma tutti insieme facciamo la torta. Non è una torta. Io non mi accontento di avere una parte di torta, io la voglio tutta, ma la voglio tutta con la mia limitatezza. Quindi, vedete, non si tratta di un po' plus bon marché, di fare un cristianesimo più facile; al contrario, «unus mediator». Il cristiano cesserebbe di essere cristiano, se non pensasse che nel Cristo sta tutta la pienezza, la ricchezza della divinità, ma questo mi trascende; perciò qualsiasi discorso cristiano, ecumenista, che taccia sul Cristo evita il problema. Quello di cui c'è bisogno è una cristologia umile e perciò capace di non voler essere né universale né onnicomprensiva, ma non per questo cessa d'essere la mia visione. I cristiani non possono fare a meno di dire che questo Cristo loro lo hanno tutto, nella loro forma, nella loro limitatezza. Le mie premesse adesso si capiscono forse meglio.

Ho detto che non volevo parlare troppo di questo excursus teologico. La terza grande verità, che non sarebbe solo cristiana, ma anche di tante altre religioni: sola fides. La salvezza non è un atto automatico, un happy end e quindi è necessaria la fede. E questa la dottrina cristiana; senza fede uno non si può salvare, senza entrare ora nel merito di cosa sia la salvezza. Se noi manteniamo questi tre punti penso che anche il teologo più esigente non può dire che nell'incontro delle religioni si faccia un eclettismo più o meno superficiale. Devo subito aggiungere che quando dico fede, dico fede, non credenza, non l'articolazione della fede secondo un linguaggio, secondo una cultura, secondo una prospettiva, secondo «una finestra». Gli articoli di fede non sono la fede, sono quel bagaglio dì cui c'è bisogno perché io possa, come essere intelligente e intellettuale, più o meno formulare una cosa che mi permetterà poi dì saltare in una realtà che non ha formulazione possibile. Anzi, io direi - e qui non lo sviluppo da un punto di vista esclusivamente teologico, cattolico, apostolico, tridentino - che la fede non ha oggetto; sarebbe idolatria. La fede è una dimensione costitutiva dell'uomo, la fede è la capacità di essere aperto, di essere non-finito, infinito, di più, d'essere capace di trasformarmi, di crescere e, che io sappia, questa capacità dì «più» tutta la tradizione cristiana l'ha chiamata theosis, la divinizzazione dell'essere e dell'essere umano, io direi di tutte le cose. Quindi la fede è necessaria, ma la fede non sono le mie idee sulla fede o il mio articolo di fede o tutto il mio credo. Il mio credo è là dove io deposito il mio cuore, che è quello che la parola credo vuol dire: credo, cardia, in sanscrito stradda, la donazione del mio cuore. Ma devo esser breve, quindi passo al secondo punto dei tre problemi fondamentali. Il primo problema fondamentale, ripeto, è il problema teologico nel suo doppio versante di santità, di fedeltà e di elaborazione intellettuale, per poter esprimere il più correttamente possibile questo mistero. In questo caso di una religione che, essendo concreta, si apre a tutto il possibile.

Il secondo problema è il problema ermeneutico. Ermeneutico è una di queste parolacce che i teologi, i filosofi inventano e che vuol dire interpretazione. Io devo saper interpreta-re le altre tradizioni religiose, devo saper interpretare cosa è l’induismo, cosa è il Buddhismo o cosa sono gli altri. Il metodo ermeneutico non può essere mai a senso unico; cioè a me piacèrebbe sapere come se la cavano questi indù, buddhisti in queste cose, ma non sono disposto a che loro mi facciano la stessa domanda. Se l'incontro delle religioni non si fa sempre a doppio senso, non è un vero incontro. Seconda regola ermeneutica: non posso fare la caricatura d'una religione e confrontare l'inquisizione, le crociate, le guerre di religione con il dammapala, le Upanishad, la mia grande filosofia indiana; o non posso mettere a confronto le superstizioni e tutte quelle cose che capitano nel Gange e il sermone della montagna, la purezza del Vangelo... Non si può fare la caricatura dell'uno e confrontare aspetti eterogenei. Se vogliamo confrontare la superstizione confrontiamo la superstizione, se vogliamo confrontare una cosa buona, facciamolo con un'altra cosa buona.

C'è un malinteso direi quasi costitutivo nell'interpretazione vicendevole delle tradizioni religiose. I cattolici hanno interpretato i poveri indù, cominciando col dar loro un nome che non avevano; l’Induismo è stato un'etichetta che hanno dato loro, ma loro non si chiamavano indù, erano molto contenti senza questo nome. Io direi che più del 90% di tutti i libri scritti in Occidente sulle religioni dell'Asia fanno una descrizione inadeguata e, se ne volete la conferma, provate a leggere qualcosa che alcuni indù o alcuni buddhisti hanno scritto sul Cristianesimo: sì, dicono delle cose vere, ma non capiscono. È chiaro, perché qui sta il grande problema ermeneutico: non si può capire una religione soltanto dal di fuori, non si può capire una cosa, se allo stesso tempo uno non è convinto che quello che capisce è verità. Non posso capire qualsiasi cosa dell'ordine della fede, se io non credo in certo qual modo che quella è la verità; non posso capire l'Induismo, se io non sono convinto che l'Induismo è un veicolo di verità.

In sede accademica io ho sviluppato tutta una teoria sulla fenomenologia religiosa che dice che la fenomenologia religiosa è sui generis e così sui generis che non ha «noema», come ben sanno quelli che sono specializzati su Husserl. Non c'è noema, ma c'è una cosa che io ho battezzato col nome di pistema, cioè la fede del credente appartiene essenzialmente al fenomeno religioso. Perciò io debbo descrivere quello che il credente crede, non quello che io credo che lui creda, e io non posso descriverlo se non ci credo, perché allora non descrivo quello che lui crede, descrivo quello che io credo che lui dovrebbe credere o che lui non crede. Si capisce che le autorità, al plurale, siano così preoccupate, perché tu non lo puoi capire se non ci sei dentro, quindi se, in un certo modo, non ti puoi convertire, altrimenti fai una caricatura. La necessaria conversione. Io non posso dire: «questo è verità», se è sbagliato, perché, se lui non crede a quello che io credo che lui creda, è tutta un'altra cosa.

Ho passato 40 anni a fare questo lavoro, quindi vi potrei parlare del sistema, pistis-fede, pistema, corrispondente a noèma, da noùs. Se possa prendere il pistema del credente di un'altra tradizione religiosa per poterlo prima descrivere e poi valutarlo in certo qual modo, è un problema ermeneutico formidabile.

E terzo, sempre a proposito dell'ermeneutica: c'è un'altra cosa che appartiene a quello che io dicevo con il logos (almeno il mio sistema è coerente). Non è necessario di capire tutto. Perché vogliamo capire tutto! Io penso che questa è la sindrome maschile più perniciosa. Voi ricordate Luca, il maschio Luca evangelista, per tre volte con una condiscendenza maschile ci dice che Maria non aveva capito ma conservava le cose nel suo cuore. Meno male! Conservare le cose nel cuore senza capirle forse appartiene a una saggezza superiore.

La situazione attuale non ha modelli

Il problema filosofico è ugualmente serio. Sono convinto - e qui faccio un discorso eminentemente occidentale, - l'Occidente non deve dimenticare una delle sue forze più importanti, lo spirito critico, lo spirito d'analisi, il senso di dubbio, uno spirito critico che direi post-illuministico. Perciò prima ho detto, e non mi sono voluto correggere perché non ho visto nessuna mano che mi domandasse un chiarimento, che le religioni sono mezzi ordinari di salvezza. Il filosofo e lo spirito critico correggerà questa frase e dirà che le religioni sono progetti di salvezza, non mezzi. Hanno il progetto e tutte le religioni ce l'hanno, ma un progetto non è necessariamente un mezzo. Il discorso filosofico, che è quello dello spirito critico, vuoi dire, in altre parole, che la situazione di questa nuova costellazione umana delle diverse tradizioni religiose dell'umanità che cominciano a riconoscersi le une con le altre, non va risolta con l'esclusivismo: Io, e se non sono unico, sono almeno un po' superiore. La superiorità cristiana è un peccato contro lo Spirito Santo. Non va risolta nemmeno con l'inclusivismo: in fondo diciamo la stessa cosa, tu sei un cristiano anonimo, tu sei un credente che si ignora, nel fondo più profondo, nella mistica siamo tutti la stessa cosa, nella notte tutti i gatti sono neri… Siccome ebbi la fortuna di essere il primo ad ascoltare, il contributo a Salisburgo di Karl Rhaner (eravamo Alexander von Rondl, Vareno, io e un altro) io gli chiesi, quando lui sviluppò la teoria dei cristiani anonimi, se lui sarebbe stato contento che io lo chiamassi un buddhista anonimo. Quindi, né esclusivismo ne inclusivismo. L'unica parola che qui forse servirebbe è quella di pluralismo, e pluralismo non è pluralità, non e considerare ciascuno come il piccolo pezzo di tutto il grande meccanismo; no, pluralismo è quel pars toto che dicevo prima, pluralismo vuoi dire che nessuno può esaurire, tutto lo spettro dell'esperienza umana. Che non si può racchiudere la realtà in un solo schema, perché la realtà non è schematica, non è nemmeno trasparente a se stessa, cioè uno non ha bisogno di essere aristotelico, monoteista o hegheliano per credere nella noesis, nella riflessione totale o in un Dio trasparente a se stesso, onnisciente rispetto a tutto il reale. La verità stessa è pluralista che non vuoi dire plurale. E un altro spunto che non sviluppo di più. Passo subito al mio quarto e ultimo punto di questa quaternitàs perfetta. Questo è il mio ultimo e breve punto, quello che mi piacerebbe chiamare la fecondazione mutua. Non possiamo soltanto guardare indietro, non possiamo soltanto ritornare alle fonti, non possiamo credere che la storia sia finita, non possiamo accontentarci di rifare gli sbagli degli altri o correggerli. Siamo in una situazione nuova e non sarei originale se io citassi della Bibbia che lo Spirito fa nuove tutte le cose. La situazione attuale non ha modello, non si tratta soltanto di andare indietro odi predicare tolleranza, o di fare tutte queste piccole cose che ho cercato di fare. Siamo dinanzi a una situazione medita, perciò ho cominciato dicendo che tutto il mio discorso voleva essere una preghiera, perché è pieno di questo senso di precarietà, dato che non sappiamo dove andiamo, ma non c'è nemmeno bisogno di saperlo, purché si sappia quel è il prossimo passo.

senza preservativi spirituali

La conseguenza di tutto quello che ci è stato detto è che non dobbiamo aver paura, paura dell'ignoto, paura del nuovo, paura dell'insospettato, paura del pericoloso, paura del rischio, paura di perdere la fede o la vita, paura di non sapere qual è il prossimo passo. Il nuovo è nuovo perché è sconosciuto, perché rischioso e quando parlo della fecondazione mutua tra le diverse religioni penso che la maggioranza di voi ha capito che non c'è fecondazione senza amore, che non c'è fecondazione se mettiamo preservativi spirituali e preservativi religiosi. La fecondazione deve essere naturale e deve essere figlia dell'amore; e il figlio che nasce malgrado tutte le cautele è sempre un rischio, è sempre insospettato, è sempre più bello in ultima istanza, almeno per i genitori, di quello che si aspettavano. Se noi non siamo coscienti che facciamo qualcosa di storico, allora non vale la pena. Se tutta la nostra vita, la nostra fedeltà, tutta la nostra storia è soltanto per fare un piccolo scherzo per passare il tempo, allora non vale la pena.

Non sappiamo dove andiamo. Niente è più difficile che gestire la libertà vogliamo sempre le cipolle d'Egitto e quando ci dicono: questa sicurezza no, quell'altra no, allora cerchiamo di guardare indietro per tornare un'altra volta a qualcosa che ci dia almeno un appiglio. Se parlasse il buddhista direbbe che non si tratta nemmeno di prendere rifugio nel Buddha, che il Buddha è sparito. Racconta una bella leggenda mahayana, che un grande bodhisattva dopo la sua vita se ne andò nel settimo cielo per vedere dove abitava l'Adibuddha, Gautama, il Buddha primigenio; non stava nel primo cielo, nè nel secondo nemmeno, nel terzo. Percorre tutto il Paradiso di Dante e finalmente arriva nel settimo cielo, animato dalla sua curiosità di vedere dove si trovi questo grande, il primo dei bodhisattva, l'Adibuddha. Tutte le stanze sono vuote, non c'è niente da trovare, finalmente un angelo se volete gli dice «Che cerchi?» «Cerco il Buddha, Adibuddha». Lo guarda con questa faccia di angelo innocente. «Ma non sai che il Buddha è sceso sulla terra e starà là fino a che l'ultimo essere vivente sia riuscito ad avere la liberazione!».

La fecondazione mutua vuoi dire, conoscenza, che non è possibile senza simpatia e senza amore; dopo il rischio che nasca un figlio, il rischio che venga qualcosa di nuovo. L'atto della libertà: se la fede non ci fa liberi, non so cosa sia la fede.

Diceva Gregorio di Nissa, vecchio cappadociano, padre della chiesa, commentando l'atto fondamentale di tutte le religioni abramiche, quando Abramo con un atto di fede ubbidisce a Javeh che gli dice di andarsene, lui e tutta la sua tribù, fuori della città di Ur: «e allora Abramo sapeva che andava per un buon cammino, perché non sapeva dove andava». Soltanto se noi sappiamo dove andiamo, se non programmiamo dove andiamo, se non abbiamo bisogno di una intelligenza artificiale o di un computer che ci dica i passi da fare, faremo la continuazione dell'opera creatrice. Questo è il programma che io penso che abbiamo dinanzi di noi. Questo mi ha portato in altra sede a invocare la necessità non di un Vaticano III, né di una Chicago 1, ma di una Gerusalemme II°, cioè di adunare tutti gli uomini e io direi, dato che sono troppo buddhista, tutte le cose, gli animali, le piante e di fare un concilio questa volta veramente ecumenico, per vedere se l'umanità sa reggere la sua libertà, questo dono di cui finora abbiamo abusato. Io credo che il destino sta nelle nostre mani e questo, almeno per me, è una sorgente di gioia.

(da Rocca, 1 ottobre 1987, pp. 54-59)
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Come rendere oggi percorribile
l’esperienza religiosa e interreligiosa

di Javier Melloni

Solo nel cammino comune le religioni possono liberare il meglio delle energie umane per trasformare il mondo.

Nel passaggio attraverso il deserto non ci sono solo sete e desolazione. Ci sono anche incontri sorprendenti, e albe e tramonti di una bellezza sconvolgente di fronte ad un orizzonte aperto e illimitato. Ma tutto questo non si conosce se non si inizia la traversata se non si esce dalla città, dove la luce del Sole si intravede solo attraverso le strade strette del già noto e troppe volte attraversato.

All'inizio dell'esodo c'è solo il dolore perché lo sradicamento ci lacera. Però, andando avanti nel cammino, sorge una domanda: e se la nostra casa, il nostro focolare, le nostre famiglie non fossero alle nostre spalle, ma davanti a noi?

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Il valore teologico del sincretismo
nella teologia pluralista

di Alfonso Soares


Questo testo vuole evidenziare, nel modo più schematico possibile, il valore teologico del sincretismo religioso, inserendolo nella dinamica divino-umana della rivelazione. Tenterò di suggerire alle lettrici e ai lettori che il sincretismo è la rivelazione di Dio in atto, considerando che non esiste altro modo di accedere al mistero se non facendolo a poco a poco, in forma frammentata, fra avanzamenti e retrocessioni, luci ed ombre (...).

Di che stiamo parlando e perché insistete su un termine controverso come questo?

Molti termini si contendono l'attenzione della teologia pluralista in questi tempi di incalzante dialogo. Esiste l'ecumenismo (la fede cristiana celebrata fra le varie Chiese in un culto comune), il dialogo interreligioso (la convivenza armoniosa fra tutte le religioni) e perfino il dialogo afro-interreligioso. Quest'ultimo si può intendere a partire da due esperienze. La prima, come avvicinamento alle religioni afroamericane ((Candomblé in Brasile; Vodu ad Haiti; ecc.) è, per un verso, quella di penetrare sempre più nella vita e nella teologia di queste tradizioni; e, per altro verso, quella di impedire che esse siano ignorate o trascurate nelle discussioni ufficiali sul dialogo interreligioso. La seconda esperienza è a partire dalla realtà afro così come si incontra all'interno del cristianesimo: in questo caso si tratterebbe di conquistare sempre maggiore spazio interno per l'espressione e l'attuazione delle differenze culturali nelle Chiese cristiane (. ..).

Oltre a quelli citati, è necessario prendere in considerazione altri termini:

Macroecumenismo, che, ratificato nell'Assemblea del popolo di Dio (Quito, 1992), viene apprezzato dai gruppi popolari, in particolare dagli Operatori della Pastorale per i Neri/e. Implica un ecumenismo dalle frontiere flessibili, basato sull'esperienza delle comunità;

Dialogo Intrareligioso, che coincide con quella che prima è stata definita come seconda maniera di vivere il dialogo afro-interreligioso (...);

Inculturazione, che è attualmente il termine più usato dalla Chiesa cattolica (...). Su questo, hanno trovato un consenso i "conservatori" e i "progressisti". Ed è proprio qui il pericolo: due persone che difendono l'inculturazione magari stanno parlando di realtà o prospettive diametralmente opposte. Nel caso specifico delle comunità culturali autoctone, in genere per inculturazione si intende una costruzione che gli stessi soggetti stanno facendo nel loro proprio contesto a partire dalle sollecitazioni che il Vangelo opera nelle loro tradizioni culturali. Per la gerarchia cattolica, invece, l'inculturazione dovrebbe essere il canale tramite il quale la Chiesa ritorna all'ideale di una cultura cristiana, valorizza e rinnova la sua cultura tradizionale. Questo uso ambiguo è preoccupante. (...) Prendiamo il caso della religiosità afro, per esempio: cos'è l'inculturazione per queste culture? Perché, dopo tutto, quello che sta proponendo recentemente la Chiesa lo facevano già i neri secoli fa, e questo viene definito sincretismo. Di più: attualmente si parla di dialogo fra cristianesimo e religioni di origine africana. Questo costituisce già un passo avanti, a parte il fatto che ci sono voluti 500 anni per riconoscere il Candomblé come religione. Ma in quali termini intraprendere questo dialogo se il 90% dei membri del Candomblé è costituito già da cattolici?

Irreligionare, parola nuova e brutta per una vecchia sfida, che già doveva essere sottintesa nel termine inculturazione: ogni religione si trasforma a partire da sé, attraverso il contatto che stabilisce con le altre; è necessario permettere che la religione si trasformi al ritmo delle crisi, delle scoperte e degli scambi che effettua con le altre religioni. (...) Una comunità religiosa accoglie un'altra religione, assimilando quello che le sembra più appropriato e scartando quello che non le conviene. Come ho affermato in altre occasioni, il popolo irreligiona quello che può o vuole accogliere della nuova tradizione che viene da fuori. Di fatto, molti praticanti della tradizione degli Orixàs, dell'Umbanda, del Vudù, della Santeria o di altre variabili religiose della nostra eredità indigena e africana, si sentono sinceramente cattolici. Accolsero (molte volte obbligati, vale la pena ricordarlo) nelle loro tradizioni di origine l'inserimento cristiano, depurarono quello che sembrava loro inumano o senza senso, mescolarono quello che non aveva molta importanza e finirono per mantenere intatto quello che ritenevano positivo e arricchente per la propria cosmovisione originaria. Se osserviamo attentamente, tutto ciò non differisce in nulla da quello che si conosce con il nome di sincretismo.

Sincretismo. Quando lo menzioniamo, il primo impulso è di pensare a qualcosa di degradato, a un difetto di produzione (...). In realtà il cristianesimo ufficiale, clericale, asettico non è mai esistito nella vita reale. Quello che esiste sono i contatti religiosi che si stabiliscono tra gruppi e individui con forme diverse di dialogo. (...). In definitiva, è un lavoro di Sisifo cercare di contenere la fame religiosa delle persone nella sfera di certi ingredienti e condimenti, soprattutto se teniamo conto di questi tempi postmoderni, di laicità estrema da un parte e di abbondante offerta di significanti religiosi dall'altra. (...)

Il sincretismo è sempre stato e continua ad essere presente nelle relazioni storiche tra le religioni

(...) Il cristianesimo, per essere una religione universalista, non può sfuggire al sincretismo, dal momento che si è assunto la responsabilità di contenere, fin dal principio, tutta la pluralità esistente nel genere umano. La sua principale argomentazione per tale pretesa si fonda sulla certezza che la rivelazione di Dio all'umanità abbia raggiunto in Gesù di Nazareth un livello di profondità senza pari, prima o dopo tale evento (pienezza della rivelazione). C'è qui l'eccellenza e, al tempo stesso, il tallone d'Achille di tutta la storia del dogma cristiano. Come si può conciliare l'assoluto di Dio che si rivela con l'inevitabile relatività del mezzo utilizzato e dei suoi risultati? ... Lo sforzo popolare di unire divinità di diversa provenienza e, in alcuni casi, contraddittorie nel seno di una stessa esperienza religiosa, non avrà alcuna somiglianza con la geniale formulazione simbolico-teorica del dogma trinitario, che cerca di raggiungere il difficile equilibrio tra la convinzione monoteista e l'esperienza del molteplice nella divinità? Da un punto di vista antropologico-pastorale, perché dovrebbe essere sospetto "offrire un culto" agli antenati e agli elementi della natura (Orixàs) quando le devozioni mariane e il culto dei santi cattolici sono considerati positivamente e appaiono pedagogicamente importanti? (...)

È un fatto che la gerarchia cattolica contemporanea, per quanto con più pudore che in passato, continua a interrogarsi sulla miglior forma per combattere la spiritualità sincretica. In fondo, lo fa per una questione di potere. Da parte loro, indifferenti alla controversia, grandi segmenti della popolazione dei nostri Paesi continuano ad offrire un culto alle loro divinità e ad osservare alcuni riti cristiani, pienamente convinti che tali modi di comprendere e di praticare la religione siano sicuramente cattolici ...).

Il sincretismo è, prima di tutto, una pratica che precede le nostre opzioni teoriche e bandiere ideologiche

(. . .) In primo luogo, si tratta di riconoscere il sincretismo de factu; solo dopo può avere un senso la domanda su cosa potremmo apprendere teologicamente da questo dato reale. (.. .) Tollerato dalla pratica pastorale in nome della carità cristiana, il sincretismo è ripudiato nelle dichiarazioni e nei documenti ufficiali. Fortunatamente, questi ultimi anni sono stati caratterizzati da una timida revisione di questa posizione.

D'altro lato, sarebbe ingenuo non tener conto che molte delle pratiche sincretiche vissute dalla nostra gente sono il prodotto della forma violenta con cui il cristianesimo si e imposto in tutta l'America Latina, di modo che ai popoli non sono rimaste che abitudini distorte, camuffate e frammentate delle loro tradizioni. Per questo sono promettenti i movimenti che oggi hanno ripreso queste tradizioni ancestrali evitando di pagare pegno ai rituali cristiani/cattolici. (...)

Allo stesso tempo, un nuovo cammino è iniziato, a fatica, ad opera dei settori cristiani più progressisti, tra i quali il movimento degli Operatori neri di pastorale (Apn) e le sue ramificazioni in America Latina e nei Caraibi. Maggioritariamente cattolici, essi intendono riscattare le tradizioni nere e riaffermare la propria identità culturale. E qui, inevitabilmente, emerge la questione di come affrontare il sincretismo de facto o la doppia appartenenza religiosa dei membri di questa comunità. Fino a che punto un cristiano può permettersi di avanzare nella ricerca delle sue autentiche radici africane? È possibile essere allo stesso tempo un nero cosciente e un cattolico? La questione è la stessa in qualunque latitudine: posso essere aimara e cristiano, hindu e seguace del Vangelo, cinese e partecipante alla funzione domenicale, bantu e credente nella resurrezione?

Una volta che si sia ammesso con tranquillità che tali connessioni si stanno realizzando nella pratica, possiamo passare al punto successivo: questa situazione reale di fatto, non fabbricata artificialmente per mero capriccio di alcuni teologi e teologhe, ci può insegnare qualcosa dal punto di vista non solo pastorale ma più specificamente teologico? (...)

Teologi come M. de F. Miranda preferiscono ancora usare il termine inculturazione a quello del sincretismo e affermano che è preferibile "seppellire per sempre questo concetto del mondo teologico, dal momento che oggi un corretto e ortodosso sincretismo riceve la denominazione di inculturazione, che non è gravata da letture negative del passato come avviene nel caso del termine sincretismo".

La doppia appartenenza religiosa è una delle possibili interpretazioni naturali del dialogo interreligioso

Se il termine non e unanime, perlomeno si verificano sensibili passi avanti per quanto riguarda l'accettazione o la tolleranza della realtà rappresentata dal vocabolo.

(...) Un profeta del dialogo tra le religioni, François de L'Espinay, sacerdote cattolico e ministro di Xangô (orixà della giustizia, giudice e guerriero, ndt) nel II Axé Opò Aganju, passò i suoi ultimi anni di vita a Salvador de Bahia (1974-1985). Arrivò ad essere scelto come mogbà (membro del consiglio di Xangô). "Il giorno in cui il pai-de-santo (autorità religiosa del Candomblé, ndt)mi chiese di far parte del consiglio, sapevo di dover passare per una iniziazione. Fu un grande problema. Non sapevo cosa fosse. Sarebbe andata contro il cristianesimo? Non rinnego nulla né del cristianesimo né del sacerdozio (...). Nel Candomblé io promisi fedeltà a Xangô. Ciò non allontana per nulla dalla fedeltà a Cristo".

Se questa pratica diventasse una regola, si domanderanno molti, come giustificare allora la mediazione della Chiesa o la sua funzione salvifica (Lumen Gentium 14)? Prevenendo questi interrogativi, François in quella occasione ponderava quanto segue: "Perché Dio dovrebbe esigere un contatto per mezzo di un traduttore e non direttamente con la sua parola? Egli si rivela come Padre. Ma un Padre non parla la lingua dei suoi figli? (...) Dio è più grande e più vivo. Non si racchiude in una formula rigida, non è prigioniero delle sue opzioni. Non fa discriminazioni tra i suoi figli. Nessuno può dire: 'È a me che si è rivelato e soltanto a me'”.

La Chiesa uscirà in questo modo ridimensionata? Sinceramente, se questo fosse il prezzo da pagare perché il Regno di Dio sia servito, ben venga. Dopo tutto, affermano che la Chiesa è il lievito e non la torta finale (...). François sarebbe stato d'accordo, giacché, secondo lui: "Basterebbe uscite dai nostri limiti cementati nell'esclusivismo, nella certezza di possedere l'unica verità, e ammettere che Dio non si contraddice, che parla sotto forme molto diverse e complementari le une alle altre e che ogni religione possiede un deposito sacro: la Parola che Dio ha annunciato loro. Ecco tutta la ricchezza dell'ecumenismo, che non deve limitarsi al dialogo fra cristiani". (...)

Un'esperienza ibrida può essere segno del disegno di Dio di comunicare se stesso

(...) Sua Santità Giovanni Paolo II, ricevendo in visita ad limina alcuni prelati brasiliani, ha indicato la religiosità popolare come tema importante e il sincretismo religioso come una delle principali minacce. Per il Santo Padre: 'la Chiesa cattolica guarda con interesse a questi culti, ma considera nocivo il relativismo concreto di una pratica comune di entrambi o della mescolanza di essi, come se avessero lo stesso valore, mettendo in pericolo l'identità della fede cattolica. La Chiesa si sente in dovere di affermare che il sincretismo è dannoso quando compromette la verità del rito cristiano e l'espressione della fede, a detrimento di una evangelizzazione autentica”.

Mi sembra di capire che nel messaggio pontificio esista un margine di dialogo, dal momento che se ne deduce che se il sincretismo non compromette la verità del rito, ecc., questo sarà benvenuto. In definitiva, come ben sapeva il predecessore di Benedetto XVI, la verità del rito e l'esperienza della fede non sorgono da un momento all'altro, e un'autentica evangelizzazione presuppone un lunghissimo processo di incarnazione dello spirito evangelico nella vita delle persone e delle comunità. Inoltre, sembra che il papa riconosca che l'unico complesso di criteri che il popolo possiede per giudicare se il Vangelo è, di fatto, "una buona notizia" è la sua stessa cultura autoctona e, pertanto, che non può abbandonarla automaticamente per diventare "evangelico" (...).

In varie occasioni e già da molti anni, le implicazioni contenute nella pratica e nell'esempio di personaggi come L'Espinay hanno sfidato la fede, la spiritualità e il modo di fare teologia di molte persone. (...) Sembra facile riscattare il sincretismo come condizione sociologica di ogni religione: in definitiva, nessuna di esse, come fatto culturale, esiste indipendentemente dalle altre tradizioni delle quali è tributaria. Ma cosa bisogna dedurre teologicamente dall'opzione di un padre cattolico che non ha mai creduto necessario mettere a rischio la sua fede originaria per abbracciare la spiritualità degli Orixàs? Quale sarebbe la vera funzione della Chiesa in queste situazioni di sincretismo e di doppia appartenenza religiosa? Quali servizi ci si attendono dai cristiani in tali contesti? Guardare al bene del popolo equivale a convertirlo (nella sua totalità) ad un cristianesimo più ortodosso? Insomma, la salvezza-liberazione del popolo di Dio è sinonimo di adesione matura da parte delle persone a questa comunità chiamata Chiesa?

Per rispondere alle questioni poste dalla pratica di padre François così come alle tante persone che attualmente militano in diversi movimenti (macro-)ecumenici, la teologia cristiana dovrà rivolgere la sua attenzione a se stessa e ai fondamenti della fede cristiana, cioè alla possibilità e alle modalità dell'accesso umano alla presunta novità evangelica. Una discussione epistemologica realmente aperta potrà costruire una teologia della rivelazione più capace di includere nei suoi circuiti altre possibili risorse di autocomunicazione divina nella storia, altre interfacce della rivelazione.

Domandiamoci infine: esperienze come quelle del padre L’Espinay sono ancora propriamente cristiane, o si collocano in un'altra tradizione spirituale, che non è più cristiana né propriamente del Candomblé? Sarebbe un caso di "sincretismo di ritorno" (come suggerisce Pierre Sanchis), di inculturazione (come preferiscono molti) o di inreligionazione (vedi Torres Queiruga)? È una strategia rischiosa, conveniamo, per rifondare la plantatio ecclesiae o un gesto vissuto nella gratuità di chi non si aspetta niente in cambio?

Il sincretismo mostra che nessuna religione ha forze, permesso o mandato per esaurire il Senso della Vita

Il vantaggio di una parola controversa come sincretismo rispetto a inculturazione è che la prima mette immediatamente in evidenza dov'è il problema teologico-dogmatico: la rivelazione di Dio comporta evidenti ambiguità, errori e contraddizioni che devono essere spiegati come componenti essenziali e non come fallimenti circostanziali del processo dell'autocomunicazione divina con l'umanità. Come affermava il card. Lercaro già cinquant'anni fa: "bisogna essere prudenti pure di fronte ad errori flagranti, per rispetto alla propria (maniera umana di accedere alla) Verità" (...).

Allora, come leggere teologicamente ed ecclesiologicamente le esperienze sincretiche? Esempi come quello del padre François, che hanno fecondato tante buone esperienze profetiche e liberatrici nelle nostre comunità sono riusciti ad aprire le porte ad un cambiamento nell'autocomprensione cristiana? Una nuova categoria potrebbe essere utile per capire quello che sta succedendo a noi e a quanti ci stanno intorno. Mi azzardo ad introdurla nel dibattito: la fede sincretica. Penso che anche la teologia (fondamentale e dogmatica) più nuova non potrà non riconoscere, con l'ausilio delle scienze religiose, la condizione e i condizionamenti radicalmente umani dell'accesso a qualsiasi fede, religiosa o meno. (...) Di conseguenza, si può parlare di fede sincretica per identificate il modo stesso in cui una fede "si concretizza". Di fatto, non esiste una fede allo stato puro, essa si manifesta nella prassi.

(...) Potremmo perfino domandarci: dove si situa la cattolicità di queste esperienze/testimonianze di sincretismo conosciute, tanto nostre? Questo mi fa venire in mente la nota frase biblica: “Nella casa di mio padre ci sono molte dimore". Ispirandoci ad essa, il segno della cattolicità si amplia fino ad abbracciare una pluralità di esperienze che hanno in comune l'incontro con Gesù di Nazareth. Forse non tutte hanno generato o generano la sequela strictu sensu, ma nel cammino (di Emmaus?) hanno incrociato Gesù. La cattolicità non è proprietà esclusiva della istituzione Chiesa cattolica.

(...) Le esperienze sincretiche, malgrado le inevitabili ambiguità che accompagnano qualsiasi biografia o processo storico, sono anche variazioni di una esperienza d'amore (o, se vogliamo, eventi di grazia o di gratuità, o piuttosto di spiritualità). E dove c'è amore non c'è peccato. Perché il popolo do santo (del Candomblé) non si stacca dalla Chiesa e non si oppone ai suoi rituali? Forse perché, come afferma fra B. Kloppenburg, "sono quelli che più amano la Chiesa in America Latina, sebbene siano quelli che più si servono di essa”.

Mi compiaccio di ripetere che la storia della rivelazione divina è una storia di amore fra Dio e l'umanità, la quale ha per talamo la storia. Perché fa parte della rivelazione anche il modo in cui i popoli sono arrivati ai dogmi, cioè fra avanzamenti e retrocessioni, errori e successi, gesti amorosi e peccaminosi. Solo così possiamo capire come il complesso delle "rivelazioni" autoescludenti raccolte e mantenute le une accanto alle altre dai redattori biblici costituisca oggi, per una gran parte dell'umanità, la "Parola di Dio". Insomma, altre variabili possibili, a partire da una stessa intuizione originaria, si verificano in quello che per convenzione abbiamo chiamato Tradizione cristiana. È il caso della fede abramitica alla quale attualmente fanno riferimento tanto gli ebrei quanto i cristiani e i musulmani. E, se è così, il sincretismo può essere solo la storia della rivelazione in atto, visto che costituisce il cammino reale della pedagogia divina in mezzo alle invenzioni religiose popolari.

L'insistenza/audacia sincretica non desidera abbandonare nessuno dei due amori (cattolicesimo e candomblé; reincarnazione e messa domenicale; culto degli antenati e lotta evangelica contro le ingiustizie; viaggio astrale e via crucis). Li vuole tutti e due; è contraria alla monogamia. Se le chiediamo spiegazioni, offre quello che il poeta Drummond aveva denominato "le irragionevolezze dell'amore". Risposta talvolta disperante per la vecchia scolastica (giacché, come assicurava Vasconcelos, quando la gente racconta, sconcerta”), ma vitale per la mistica di ieri, di oggi e di sempre. Tutto questo è affascinante per chi sta vivendo tale esperienza, ma non per questo meno tremendo, dal momento che è un sapere che si assapora e che, a partire da qui, genera un nuovo potere oriundo di secolari contropoteri (gay, afrodiscendenti, donne, giovani).

Tuttavia, non c'è fretta di battezzare le varie esperienze religiose che andiamo tacendo: queste sono già valide di per sé e occupano il loro posto nel sorprendente mandala di risposte all'autocomunicazione di Colui/Colei che ci ha amato per primo/a. Per chi ha nel sangue le impronte della tradizione cristiana, qui non c'è niente di spaventoso, dato che il modo e il luogo dell'adorazione di Dio non sono importanti, se lo facciamo, come Gesù, in Spirito e Verità. Forse, alla fine, l'equilibrio più difficile, in questi tempi plurali, è quello di una sottile distinzione che dovremmo tenere a mente al momento di parlare di cattolicità: guardarci dal rullo compressore del "c'è posto per tutto", eclettico ritornello post moderno, e rivolgere il cuore al "c'è posto per tutti". Questo, sì, utopicamente evangelico ed evangelicamente plurale.


(Adista, n. 86, 02.12.2006, pp. 10-14)
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Un solo Dio per tutti i credenti

Terzo millennio, tempo della riconciliazione?

di Adolfo Russo

Nel corso dei secoli abbiamo assistito a una lottizzazione dell’idea di Dio. Occorre ora incontrarsi e proiettarsi in avanti, dialogando con tutti gli uomini, creature e figli dello stesso Padre. E’ necessario individuare una posizione culturale in cui ritrovarsi senza perdere il carattere insostituibile e unico della rivelazione e del dono del Figlio da parte del Padre di tutti.

Dopo il crollo delle Torri gemelle e le successive guerre in Afghanistan e Iraq, chi non ha temuto quello scontro di civiltà pronosticato per il nostro secolo da alcuni osservatori? Chi non ha paventato che anche tra le religioni stesse prevalendo un clima d’incomprensione e di ostilità, avvertito a pelle in occasione delle vignette satiriche e delle polemiche del mondo islamico per la controversa lezione di Benedetto XVI a Ratisbona il 12 settembre 2006?

L’eredità del passato

È troppo pesante per dimenticarla in fretta. Per lunghi anni le religioni si sono ignorate e spesso delegittimate a vicenda. Talvolta sono arrivate anche alle maniere forti, sì da giustificare l’impressione che in esse si celasse una radice di violenza e che non vi potesse essere tolleranza all’ombra delle istituzioni religiose. Le “guerre sante” hanno lasciato nell’immaginario collettivo una traccia incancellabile, che ancora sanguina.

Lungo i secoli abbiamo assistito a una lottizzazione dell’idea di Dio, applicando abusivamente all’ambito della fede una logica di spartizione tipica dei beni materiali. Un Dio cristiano, uno per i musulmani accanto a quello per gli ebrei. Ogni credente si è rivolto al proprio Dio, pensando fosse diverso e magari in concorrenza con quello degli altri. Un esercizio teologico pericoloso che ha prodotto rivalità e lacerazioni o che comunque è servito a mascherare conflitti di natura diversa.

Una svolta decisiva è arrivata con il concilio Vaticano Il. In diversi documenti e in particolare nella Nostra aetate si respira una nuova sensibilità. Le tre religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo e islam (ma in genere tutte le grandi tradizioni religiose), sono considerate degne di rispetto e depositarie di un patrimonio ricco non solo di valori sociali e culturali, ma anche di orientamenti etici e spirituali.

Da allora si è aperta una nuova stagione. Nuovo il linguaggio, nuove le prospettive. Le altre credenze in seguito non verranno più considerate spazi di superstizione e opere diaboliche, come in passato, ma luoghi dove operano il Verbo e lo Spirito, dove è possibile fare autentiche esperienze spirituali, dove Dio si fa prossimo a ogni uomo per condurlo sulle vie della libertà e della verità.

Trovare un terreno comune

In questa luce gli altri credenti appaiono testimoni di eminenti valori, possibili interlocutori con i quali entrare in un dialogo critico e costruttivo. Non si tratta ovviamente di mettere tutto sullo stesso piano e di smarrire le proprie connotazioni spirituali, quasi che una religione valga l’altra.

Il confronto con l’altro non è mai una rinuncia alla propria identità. Questa d’altra parte non è un’acquisizione definitivamente compiuta, ma un processo che cresce e matura proprio nel dialogo. Ognuno comprende meglio sé stesso, conoscendo di più l’altro, il suo mondo, la sua mentalità.

Tuttavia ancora numerosi rimangono i problemi aperti. Come comporre in un sistema di pensiero unità e molteplicità, identità e alterità? Come declinare la verità al plurale? E inoltre, una fede rivelata può riconoscere altre rivelazioni? E a quali condizioni?

Di fronte a queste domande, il problema teologico più rilevante è rinvenire una posizione concettuale capace di cogliere il rapporto con la verità sotteso alla molteplicità costitutiva delle diverse proposte religiose. In realtà, non si tratta di cedere alle ragioni del relativismo, per cui una posizione vale l’altra. Bisogna invece guadagnare un punto di riferimento più alto, che permetta di considerare la verità come un orizzonte di senso sul quale si affacciano le diverse religioni, che - seppure da prospettive diverse - tendono alla stessa realtà.

La comunità cristiana è sollecitata a rivedere certe categorie ritenute acquisite e a mettere a punto un impianto di pensiero che, senza negare il carattere unico e insuperabile della rivelazione in Cristo, consenta di riconoscere l’autenticità di altre manifestazioni, mediante le quali Dio ha parlato e continua a parlare alla maggioranza degli uomini. In tal modo ogni credente potrà vivere della Parola che ha ricevuto, riconoscendo la fecondità di un’altra Parola e avviare un dialogo costruttivo con tutti gli uomini.

Certo, il mondo cristiano si presenta a questo appuntamento diviso da una storia di lacerazioni e incomprensioni. La ricerca di una possibile unità con gli altri credenti si scontra con una mancanza di unità al suo interno. Per quanto oggi tutte le Chiese avvertano l’urgenza di un’ampia convergenza con gli altri credenti, i loro sforzi rischiano di essere poco credibili e di restare improduttivi.

Il richiamo alla necessità di trovare tra i diversi credenti un terreno comune resta di fatto compromesso dal peso delle divisioni tra le Chiese. Queste, d’altra parte, concentrate sui loro problemi e sulle annose dispute teologiche, non sono riuscite a progredire di molto sul cammino ecumenico. A stagioni d’entusiasmo si vanno alternando momenti di stanchezza e di sfiducia. A difficoltà d’ordine teologico s’aggiungono intralci politici e sospetti umani. Forse l’impegno di confrontarsi con un traguardo più ampio potrà aiutare le varie comunità cristiane a uscire dall’impasse e superare le loro divisioni.

La prospettiva interreligiosa s’intreccia così con l’impegno ecumenico, anzi lo esige come sua premessa e forza catalizzatrice. La sollecitudine per l’umano - oggi a rischio in tanti settori della vita - rappresenta un orizzonte di senso che fa convergere tutti i credenti verso un identico obiettivo e può aiutare le comunità cristiane a convenire più unite verso questo storico appuntamento.

Tutti i credenti verso un unico obiettivo

Ad attenderli vi saranno tanti che - come ricorda la Nostra aetate - ancora si interrogano sui «reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo»

Ad attenderli vi saranno ancora le grandi questioni etiche e bioetiche, che in assenza di un orientamento comune dei credenti saranno decise senza di loro. Questioni decisive per il futuro delle nostre società. Ad attenderli vi saranno inoltre quelli che non hanno voce e che non possono che essere stritolati dai giochi d’interessi messi in campo dalle aristocrazie economiche che reggono le sorti del mondo. Vi sarà di sicuro il nostro pianeta, la Terra stessa, che rischia un collasso ecologico se prevarranno le stesse condotte contaminanti di oggi.

Il primo millennio della nostra storia ha visto la Chiesa sostanzialmente ancora unita nella fede. Il secondo si è caratterizzato per le note separazioni del mondo cristiano; prima tra cattolici e ortodossi, poi a metà del suo corso all’interno della cattolicità occidentale. Alla lottizzazione di Dio ha fatto pendant quella della Chiesa di Cristo. Il terzo millennio potrebbe essere il tempo della riconciliazione, dono dello Spirito a una Chiesa dimentica di sé stessa e proiettata in avanti per incontrare tutti gli uomini, creature e figli di uno stesso Padre che per tutti loro ha donato ciò che aveva di più prezioso, il suo unico Figlio Gesù. Conclude significativamente la Nòstra aetate: «Non possiamo invocare Dio Padre di tutti se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio» (5).

* ordinario di teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale, Napoli

(da Vita pastorale, 2, 2007)


Bibliografia

Coda P., Il logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, Città Nuova 2003; Russo A, Dio a colori. Pensare Dio nell’orizzonte del pluralismo, San Paolo 2003; Russò A;, La verità crocifissa. Rivelazione e verità in tempi di pluralismo, San Paolo 2005; Ratzinger J., Fede, verità,tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli 2005; Crociata M. (cur.), Teologia delle religioni. La questione del metodo, Città Nuova 2006.

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Venerdì, 30 Novembre 2007 23:09

Dialogare per convivere (Gaetano Parolin)

Un convegno organizzato all'Urbaniana dai missionari Scalabriniani

Dialogare per convivere

di Gaetano Parolin

Il pluralismo non costituisce una minaccia all’identità. La persona è libera di definire se stessa, moltiplicando le appartenenze. Nessuna società è esplosa a causa delle differenze culturali.

Il nostro è diventato il tempo dei muri, il tempo delle frontiere. Ma è anche il tempo di una grande e diffusa mobilità. Se i muri esterni sono difficili da abbattere, quelli interni non sono meno pericolosi. Sono i muri dell’incomprensione, dell’intolleranza, dell’indifferenza. Quando permangono questi muri, il dialogo diventa difficile e, senza dialogo, è impossibile convivere. Oggi l’Europa, compresa l’Italia, è interessata da una crescita senza precedenti dei flussi migratori e dalla presenza di minoranze etniche sempre più differenziate e spesso non cattoliche. Le migrazioni chiedono che si progetti una società nuova, in cui si allargano gli spazi di appartenenza e si riducono quelli dell’esclusione, una società fondata non sulla difesa di culture contrapposte, ma sull’incontro, sul dialogo che favorisce la relazione, lo scambio, il rapporto.

L’opinione pubblica pensa che le difficoltà della convivenza derivino dalla diversità culturale e religiosa, che le migrazioni accentuano. Ma cos’è la cultura, cos’è la religione? È proprio impossibile dialogare tra credenti che mantengono richiami diversi all’Assoluto? L’appartenenza religiosa è un intralcio alla costruzione della convivenza?

Per riflettere su questi temi, la Fondazione Scalabrini, lo Scalabrini international migration institute (Simi) e il Centro studi emigrazione Roma (Cser) hanno organizzato il 28 novembre, in occasione del 119° anniversario di fondazione della congregazione dei missionari scalabriniani e come atto accademico del Simi, il convegno Migrazioni e società: Dialogare per convivere. Il convegno ha avuto luogo presso la pontificia università Urbaniana, nella stessa mattinata in cui papa Benedetto XVI partiva per la Turchia.

Migrazioni e dialogo interculturale

La prima parte del convegno, dedicata al tema Migrazioni e dialogo interculturale, ha visto gli interventi di Milena Santerini, ordinaria di pedagogia sociale e interculturale presso la Facoltà di scienze della formazione della Cattolica di Milano (Le culture tra identità e dialogo), e di Adel Jabbar, sociologo dei processi migratori e interculturali, dello Studio Res di Trento (Luoghi, processi e intrecci: per una lettura interculturale).

Milena Santerini ha ricordato le due dialettiche che lo scalabriniano p. Antonio Perotti, grande studioso e precursore degli studi interculturali, aveva già identificato: la dialettica diversità-coesione, diritto alla differenza e diritto alla somiglianza e la dialettica tradizione-libertà, memoria-futuro. Si tratta, in pratica, di conciliare «le radici e le ali», l’identità e il dialogo, differenza e somiglianza, per favorire l’integrazione degli immigrati, ma soprattutto per dare alla pedagogia e all’educazione interculturale un ruolo nuovo, in vista della coesione sociale in una società plurale.

L’integrazione dei migranti e delle loro culture si presenta come un processo complesso, ancora in fase di definizione. Le politiche migratorie possono essere restrittive, i modelli di integrazione possono andare in crisi, ma questo non significa che l’integrazione sia impossibile. Quella che stiamo vivendo è, invece, una crisi di significato, di motivazioni della gestione della diversità culturale. Più che nei fatti, è nell’immaginario che si sta radicando la paura degli immigrati. La presenza di culture altre non rappresenta la balcanizzazione della società. Bisogna smentire la paura che il pluralismo culturale costituisca necessariamente una minaccia all’unità e all’identità nazionale.

È necessario, però, rivedere il nostro concetto di cultura e superare una visione oggettivistica, statica, quasi si trattasse di un pacchetto di valori, di significati, validi per un gruppo di persone in un determinato territorio. In realtà, la cultura è in se stessa intercultura, e ogni persona interpreta in modo originale la cultura a cui appartiene. È necessario valorizzare le differenze, ma senza irrigidirle nel determinismo, né affidarle al caos dell'indeterminismo. La persona è libera di definire la propria identità, moltiplicando le appartenenze. Nessuna società è esplosa a causa delle differenze culturali. Quando sono gestite bene, esse producono una convivenza pacifica. Il problema sono piuttosto le disuguaglianze di tipo socio-economico, politico, territoriale, che usano le differenze sociali per affermare l'immaginario simbolico-conflittuale. La cultura è dialogo, è apertura. La differenza è bella, ma deve tendere alla somiglianza.

All’approccio pedagogico di Milena Santerini è seguito quello sociologico di Adel Jabbar. Jabbar ha ricordato il sistema “mondo” come quadro in cui collocare l’analisi del fenomeno migratorio. Il sistema mondo è caratterizzato da quattro circolazioni che si intrecciano: l’aspetto economico-finanziario, la dimensione mediatica, gli stili di vita sempre più omologati, la politica delle superpotenze. La coesione sociale che preveda l’inclusione degli immigrati, non può prescindere dalla decostruzione dell’immaginario culturale che, in Europa, è legato alla prima modernità e all’affermazioni degli stati nazionali. Gli spazi sociali cambiano e per questo abbiamo bisogno di nuovi strumenti di analisi e nuovi approcci. Dobbiamo passare da un approccio comunitarista, che esalta la propria identità e nega quella altrui in senso fondamentalista, ad un approccio di tipo universalista, che considera la cultura come interculturale per definizione. L’intercultura è un metodo finalizzato ad estendere la democrazia, l’inclusione e la partecipazione. Per questo è necessario lavorare nei contesti e negli spazi vitali di partecipazione, quali le parrocchie, gli oratori, i gruppi giovanili, la scuola.

Migrazioni e dialogo interreligioso

La seconda parte del convegno è stata dedicata al tema Migrazioni e dialogo interreligioso e post-secolare. Sono intervenuti P. Justo Lacuna-Balda, professore ordinario al Pisai (Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica) che ha parlato su Alcuni aspetti del dialogo interreligioso: identità, lingue, culture, Adnane Mokrani, teologo islamico presso il Pisai e la pontificia università Gregoriana (Promesse e difficoltà del dialogo islamo-cristiano oggi) e Gaspare Mura, professore ordinario di filosofia presso la pontificia università Urbaniana (L’etica dell’alterità nella cultura contemporanea).

P. Justo Lacuna-Balda, dopo aver ricordato il giorno memorabile nella storia della chiesa, per la visita in Turchia di Benedetto XVI, ha sottolineato i tre aspetti essenziali di ogni identità religiosa: i testi e le scritture, la tradizione e la storia, la comunità e l’autorità religiosa. Ci sono poi i riti, le liturgie e i calendari: sono i simboli, gli usi, le tradizioni in cui ci si riconosce e ci si identifica. Ogni identità religiosa passa, inoltre, attraverso due binari, le lingue e le culture. Per entrare in dialogo, è fondamentale conoscere l’identità profonda di ogni religione altra e gli aspetti in cui si esprime. In ogni forma di dialogo interreligioso c'è, poi, un compito comune: mettere al centro di ogni incontro la persona e la sua dignità, tenendo presente il fatto che ogni religione può dare un suo contributo. P. Justo ha sottolineato più volte che il dialogo interculturale e interreligioso si sviluppa sulla base di una forte e robusta identità. Forte e robusta, ma non rigida e chiusa.

Il teologo islamico Adnane Mokrani, forte della sua esperienza islamica e cristiana, ha presentato il dialogo come una dimensione essenziale, come centro di ogni esperienza religiosa. Il dialogo è una spiritualità, un modo di essere e di agire, non una necessità o una funzione strategica, diplomatico-politica. Il dialogo è apertura all’Altro che permette l’apertura ad ogni altro. Vi sono, infatti, due tipi di religiosità, quella della relazione, dell'ascolto, del servizio, e quella del potere, del dominio, dell’esclusione.

Il principale ostacolo al dialogo è l’egoismo, la paura dell’altro, la voglia di dominarlo. Il primo peccato, per il Corano, è l’egoismo. Il ruolo della religione è quello di liberarci dall'ego individuale e collettivo. Il razzismo religioso, il fondamentalismo, è esclusivismo, orgoglio nazionalistico. Il dialogo è forza liberante, un pellegrinaggio culturale che non cambia la religione di una persona, ma aiuta a capirla meglio con gli occhi dell’altro. Il dialogo è, soprattutto, incontro di persone. E l’incontro con le persone, ha mediato l’esperienza cristiana di Adnane, l’ha aiutato ad approfondire la sua fede islamica.

L’“altro” non ti è estraneo

Gaspare Mura ha presentato un’analisi dell’alterità nel pensiero contemporaneo. Il paradosso è evidente. Da una parte è un tema chiave, dall'altra deve confrontarsi con alcune filosofie che riducono l'“altro” ad un paradosso filosofico e portano all’indifferenza verso di lui. Non solo l’alterità, ma anche l’identità oggi sembra smarrita. Si parla, infatti, di identità nomade, in continuo cambiamento. Ma – come direbbe Gabriel Marcel –: «Se l'altro mi è estraneo, anch'io divento estraneo a me stesso». Lévinas, il più importante filosofo che ha teorizzato l'etica dell'alterità, giunge ad affermare che l'etica precede l'ontologia. L'altro è un “tu” che posso comprendere, un volto che mi interpella continuamente, un volto che reclama giustizia. In realtà, il mio rapporto con l’altro è un rapporto triadico io-Egli-tu. Dove l’«Egli» consente un rapporto non di possesso, ma di giustizia, perché Egli custodisce il mistero del volto.

C’è, poi, un altro tipo di alterità che la nostra civiltà sta vivendo, un nuovo nomadismo, non di carattere fisico, ma esistenziale. C’è un bisogno di migrazione, di “sentirsi” altrove, che ci aiuta a leggere le migrazioni stesse e a farne un paradigma. La mobilità, l’apertura, il cosmopolitismo, la flessibilità, l’erranza, costituiscono un nuovo stile di vita, dove patria è il mondo.

a) Il convegno Migrazioni e società: dialogare per convivere ha sottolineato alcune convergenze importanti: il dialogo costituisce la verità e il centro stesso di ogni cultura e di ogni religione;

b) la diversità e la differenza non sono dimensioni antitetiche, ma i poli dialettici di ogni unità e coesione sociale;

c) le migrazioni, che portano in casa l’altro per eccellenza, lo straniero, diventano la cartina di tornasole che rivela la civiltà di un paese e la cattolicità della chiesa.

(da Settimana, n. 46, dicembre 2006)

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Viaggio alla scoperta delle altre religioni

Un raggio della verità che illumina tutti

di Marino Parodi

La conoscenza delle religioni diverse da quella cristiana si impone a chiunque voglia conoscere il mondo, ma in particolare ai cristiani. Ciò non soltanto a seguito del fenomeno della globalizzazione, grazie al quale circolano regolarmente, con rapidità sino a poco tempo fa impensabile, messaggi di ogni genere, ivi compresi quelli di natura religiosa. Un’altra importante motivazione di fondo consiste nel fatto che il cristiano, per sua stessa natura portato a porre l’anima e quindi l’esigenza spirituale al centro del proprio pensare, sentire e agire, non può non interrogarsi sui mille messaggi di natura chiaramente o vagamente religiosa che circolano nel mondo di oggi un po’ a tutti i livelli. Un mondo che, a Dio piacendo, ha smentito clamorosamente ogni funesta profezia di "eclissi" o "tramonto" del sacro, imperante negli ultimi decenni.

L’umanità del terzo millennio è profondamente assetata di spiritualità e di sacro, insomma di Dio. Questo è un dato di fatto innegabile, del quale, ci pare, tutti i cristiani hanno motivo di rallegrarsi. Altro discorso, estremamente complesso, è poi quello di constatare dove questa ricerca sacrosanta e naturalissima vada a finire. A maggior ragione, noi cristiani non possiamo non interrogarci. E, di conseguenza, deciderci a informarci.

«Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono»

Ancora una volta, la prospettiva più autenticamente cristiana e, al tempo stesso, più scientifica, come risulterà sempre più chiaro man mano che esploreremo i vari pianeti dell’affascinante galassia religiosa, è già indicata dallo stesso Vangelo.

Si tratta di trovare l’equilibrio tra due opposte esigenze: quella di conciliare la consapevolezza del fatto che Cristo è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), con l’altra affermazione evangelica, laddove lo stesso Cristo ci rassicura: «Chi non è contro di noi, è per noi» (Mc 9,40). Un’indicazione assai illuminante, alla quale san Paolo fa eco invitandoci a «esaminare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (1Ts 5,21). Cristo ci precisa ancora, parlando dello Spirito, che «il vento soffia dove vuole» (Gv 3,8).

Va da sé che si tratta di un equilibrio non sempre facile da trovare, ma non vi è altra strada.

Nel corso del nostro "viaggio" cercheremo, per quanto possibile, di includere quasi tutte le tappe fondamentali del panorama religioso contemporaneo (il "quasi" è obbligatorio, giacché per affrontarle tutte occorrerebbero spazi e tempi ben maggiori). Seguiremo un ordine in linea di massima cronologico, partendo dalle religioni più antiche, assumendo come punto di riferimento il periodo della loro nascita, per quanto la datazione sia non di rado assai approssimativa.

Così passeremo in rassegna, oltre all’ebraismo e ai pilastri della spiritualità orientale (islamismo, al quale per ovvie ragioni dedicheremo un’attenzione particolare, induismo, buddismo e altri ancora), pure certe forme di spiritualità (ad esempio esoterismo e sciamanesimo), le quali, pur vantando radici antichissime, si sono riproposte all’attenzione generale negli ultimi decenni.

Ci atterremo ad alcune indicazioni di massima che corrispondono poi a una sorta di minuscolo vademecum necessario al cristiano che si prepara ad affrontare il viaggio alla scoperta delle altre religioni.

Superare i pregiudizi e la paura del confronto

Innanzitutto, sgombrare il campo, ossia la mente, da ogni pregiudizio. È facile identificare l’islam col fanatismo e il buddismo col rifiuto del mondo, ma tutto ciò non è assolutamente vero. L’apertura di mente e di cuore costituisce dunque la conditio sine qua non per il cristiano che voglia accostarsi allo studio delle altre religioni. «Non abbiate paura»: la storica esortazione di Giovanni Paolo II, rimasta scolpita nel cuore di chi sa quanti milioni di uomini e donne di ogni razza e religione, si adatta perfettamente allo scopo.

Sicuramente egli stesso non ebbe paura di confrontarsi con le altre religioni: anzi, se si è rivelato e confermato maestro universale, al di là dei confini religiosi e culturali, ciò è di sicuro dovuto anche alla capacità di conciliare ciò che a molti sembra, a torto, la quadratura del cerchio (pur essendo un compito certamente non facile da gestire): ossia fedeltà assoluta al Vangelo da un lato, nella consapevolezza della sua originalità, apertura totale di mente e di cuore alle altre religioni dall’altro.

Il mutato e più rilassato clima nei rapporti tra cristianesimo e altre religioni è sicuramente in buona misura da ricondurre all’insegnamento e alla testimonianza di Giovanni Paolo II, il quale non temette di compiere allo scopo gesti clamorosi, noncurante dello scandalo che inevitabilmente avrebbe suscitato tra i ben pensanti: come il fatto di inginocchiarsi e pregare in una moschea.

Del resto, il rifiuto del dialogo, o addirittura di conoscere l’altro, in definitiva non nasce forse dalla paura? Paura di non possedere in effetti quella verità, di cui si pretende di sbandierare l’esclusiva? Insomma, il sospetto che dietro tanto bigottismo si nasconda in definitiva una fede in realtà insicura e infantile pare tutt’altro che azzardato.

L’esercizio vigile e sapiente di una "coscienza osservante"

In secondo luogo, passo che è logica conseguenza del precedente, occorre accostarsi all’esperienza religiosa altrui collocandola nel contesto storico e culturale di cui essa è al tempo stesso madre e figlia, evitando cioè di applicarle schemi che sono tipici del nostro mondo. In altre parole, esercitare quella che la psicologia di orientamento più avanzato chiama, con termine preso a prestito dalla saggezza orientale, "coscienza osservante". Ossia, osservare senza giudicare, operazione tanto indispensabile quanto difficile, almeno, in quei casi (tutto sommato neppure poi così frequenti) in cui prendere atto di certe realtà come primo impulso non può che suscitare una riprovazione nella nostra coscienza di cristiani e di occidentali. È il caso, ad esempio, del sistema indiano delle "caste".

A relativizzare l’imbarazzo aiuterà comunque un dato confortante: proprio a seguito di un processo di maturazione spirituale portato avanti a livello di opinione pubblica mondiale da svariati fattori, un po’ tutte le religioni tendono a concentrarsi sulla ricerca spirituale, la quale di tutte costituisce poi l’anima, per tralasciare gli aspetti maggiormente legati a fattori storici e culturali (ancora una volta, l’esempio delle "caste" indiane non potrebbe essere più calzante).

Ciò va detto esplicitamente e con forza senza voler negare o minimizzare il deleterio fenomeno dei "fondamentalismi", i quali sono peraltro destinati a sgonfiarsi sempre più man mano che ci si concentra, appunto, su ciò che unisce, invece di sottolineare ciò che divide.

Al di là del "rumore" mediatico, verso differenti approcci al divino

In terzo luogo, occorre mantenere costantemente tale apertura curiosa e benevola, verrebbe voglia di dire, man mano che si procede nella ricerca. Mai dare nulla per scontato, insomma, mai pretendere di aver "compreso tutto" e mai banalizzare. Osservazione assai meno ovvia di quanto si potrebbe pensare se si tiene presente che viviamo nell’epoca dei talk show e del bombardamento mediatico, in cui alla quantità dell’informazione spesso non corrisponde affatto la qualità. Capita spesso che vengano intervistati certi soloni i quali, più che dell’assai complesso mondo religioso e spirituale, del quale pretendono di sapere tutto, sembrano invece esperti dell’arte di intrufolarsi in tutte le platee televisive possibili e immaginabili.

Le sorprese, insomma, possono sempre arrivare. Occorre infatti tenere presente che l’esperienza religiosa e spirituale è per sua natura evolutiva e dinamica: la stessa Chiesa cattolica non ha forse riscoperto in tempi recenti valori quali tolleranza o la libertà religiosa, i quali, benché scritti nel Dna del cristianesimo e abbondantemente praticati all’epoca delle sue origini, erano finiti negli ultimi secoli nel dimenticatoio, a seguito di complesse vicende storiche?

Il discorso si chiarirà man mano che ci addentreremo nelle varie tappe del nostro viaggio e si rivelerà interessante in quanto che scopriremo la diversità dell’approccio al divino di svariate altre scuole rispetto al cristianesimo. Un caso clamoroso riguarda a tal proposito la natura del buddismo, circa il quale si sente spesso dire che «non è una religione». Tale affermazione è al tempo stesso vera e falsa, a seconda della prospettiva che si sceglie di condividere.

Tutto infatti dipende da ciò che si intende per "religione": se con questo termine, infatti, intendiamo riferirci al rapporto con un Dio "trascendente" – ossia altro rispetto all’universo e agli esseri umani, dei quali viene considerato Creatore –, l’affermazione è da considerarsi vera, in quanto tale approccio, tipico delle tre grandi "religioni del Libro" (ebraismo, cristianesimo e islamismo) è estraneo non solo al buddismo, ma a tutta la cultura dell’Estremo Oriente (fatte salve le eccezioni che vedremo a suo tempo). Se invece per "religione" si intende, genericamente, la ricerca del divino, allora il buddismo si può senz’altro considerare una religione.

Partire dal comune e fecondo terreno dell’esperienza spirituale

In quarto luogo – si tratta veramente di un punto cruciale e decisivo – occorre tener presente che, al di là delle notevoli, innegabili e a tratti addirittura abissali differenze a livello di temi certo non trascurabili – quali la concezione dell’uomo, del suo posto nell’universo e in alcuni casi addirittura del suo destino eterno –, resta comunque un terreno di importanza fondamentale nel quale tutte le religioni si incontrano. Ossia, quello dell’esperienza spirituale a livello più profondo, dell’ineffabile incontro col divino che culmina nella mistica.

Il dialogo presuppone innanzitutto la consapevolezza della propria identità: "dialogare" significa aprirsi a un confronto costruttivo che permette di scoprire punti comuni. Tutto ciò non avrebbe senso, se le posizioni fossero già identiche o anche soltanto molto simili.

Infine, essere disposti a imparare dagli altri, ossia, per dirla in termini brutali, a "farsi furbi". Si tratta di un discorso particolarmente importante e urgente per gli operatori pastorali. Mi spiego: il cristianesimo è per sua stessa natura completo, in grado di rispondere in pieno a tutte le esigenze dell’uomo. Se poi vi sono nel mondo, specialmente in alcuni Paesi europei, sempre più cristiani affascinati da altre religioni – discorso bilanciato, sul piano numerico, dalla sostanziale tenuta del cristianesimo nei Paesi occidentali, la quale in alcuni di questi è addirittura un’avanzata, nonché dai suoi passi da gigante in tanti Paesi in via di sviluppo – ciò significa che siamo noi a mancare di vivacità e consapevolezza.

Infatti, se il buddismo e l’induismo fanno presa su molti per la loro obiettiva profondità spirituale, ciò non può che essere uno stimolo per noi, per conoscere e proporre la nostra spiritualità, la quale non può certo essere considerata da meno. Il discorso si fa particolarmente cruciale in un Paese come il nostro, dove, a causa di complesse vicende storiche, si ha troppo spesso l’impressione che la spiritualità cristiana venga messa in ombra a opera di non pochi operatori pastorali, specialmente in alto loco, a beneficio dell’insistenza su tematiche morali, sociali e politiche. A buon intenditor...

Una provocazione dal Concilio,ancora valida e attualissima

Per concludere, un piccolo promemoria per i cultori dell’ortodossia a oltranza: vale sicuramente la pena di citare qualche passo di quel magnifico documento che è la dichiarazione Nostra aetate, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. Il documento, che risale al concilio Vaticano II, è tanto più illuminante se si pensa che, redatto quarant’anni orsono, suona estremamente attuale.

«Nel nostro tempo», si dice nel testo conciliare, «in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, e anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino» (NA 1).

E ancora, prima di ricordare, ovviamente, la propria missione di «annunciare il Cristo, che è via, verità e vita (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose» (NA 2), il Concilio afferma che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste [ossia nelle religioni altre rispetto al cristianesimo] religioni. Infatti essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Di conseguenza «essa esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovino in essi» (NA 2).

(da Vita Pastorale n. 3, 2007)

Pubblicato in Dialoghi
I fondamenti teologici del dialogo
nell’ambito delle culture segnate dalla non-credenza
e dall’indifferenza religiosa

di Bruno Forte


1. Gli scenari del tempo

a) Il sogno della modernità e l’“assassinio del Padre”

La metafora della luce esprime nella maniera più intensa il principio ispiratore della modernità, l’ambiziosa pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. Secondo questo progetto - che sta alla base dell’Illuminismo in tutte le sue espressioni -comprendere razionalmente il mondo significa rendere l’uomo finalmente libero, padrone e protagonista del proprio domani, emancipandolo da ogni possibile dipendenza: l’“emancipazione” è il sogno che pervade i grandi processi di trasformazione storica dell’epoca moderna, nati a partire dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese, dall’emancipazione delle classi sfruttate e delle razze oppresse a quella dei popoli del cosiddetto “terzo mondo”, a quella della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali. Il sogno di un’emancipazione totale spinge l’uomo moderno a volere una realtà completamente illuminata dal concetto, in cui si esprima senza residui la potenza irradiante della ragione. Dove la ragione trionfa si alza il sole dell’avvenire: in tal senso si può dire che il tempo della modernità è il tempo della luce. L’ebbrezza dello spirito moderno sta precisamente in questa presunzione della ragione assoluta di poter vincere ogni oscurità e assorbire ogni differenza.

L’espressione compiuta di questa ebbrezza è l’“ideologia”: la modernità, tempo del sogno emancipatorio, è anche il tempo delle visioni totali del mondo, proprie delle ideologie. Esse tendono ad imporre la luce della ragione alla realtà tutta intera, fino a stabilire l’equazione fra ideale e reale: è inseguendo questa ambizione che le “grandi narrazioni” ideologiche tendono ad edificare una “società senza padri”, dove non ci siano rapporti verticali, ritenuti sempre di dipendenza, ma solo orizzontali, di parità e reciprocità. Il sole della ragione produce libertà e uguaglianza, e proprio così anche fraternità, egualitarismo fondato sull’unicità della luce del pensiero, che governa il mondo e la vita: “liberté, égalité, fraternité” sono il frutto del trionfo della ragione. La critica alla figura del “padre - padrone” sfocia così nella pretesa della radicale negazione di Dio: come non deve esserci in terra alcuna paternità che crei dipendenza, così non può esservi in cielo alcun Padre di tutti. Non ci sono “partners” divini, non c’è un altro mondo, c’è solo questa storia, quest’orizzonte: l’unica idea del divino che può restare dinanzi al tribunale della ragione adulta sembra quella di un Dio morto, insensato, inutile (“Deus mortuus, Deus otiosus”). L’assassinio collettivo del Padre si consuma nella convinzione che l’uomo dovrà gestirsi la vita da solo, costruendo il proprio destino soltanto con le proprie mani: le ideologie moderne, di destra o di sinistra, hanno inseguito la meta ambiziosa di emancipare gli abitatori del tempo in modo così radicale, da renderli da oggetto soggetto esclusivo della loro storia, al tempo stesso origine e meta di tutto ciò che accade.

Non si può negare che questo progetto sia grandioso e che tutti ne siamo in qualche misura eredi: chi vorrebbe vivere in una società che non sia passata attraverso il processo dell’emancipazione? E tuttavia, questo sogno ha prodotto anche effetti satanici: proprio a causa della sua ambizione totale l’ideologia diventa violenta. La realtà viene piegata alla forza del concetto: la “volontà di potenza” (F. Nietzsche) della ragione vuol dominare la vita e la storia per adeguarle al proprio progetto. Il sogno di totalità si fa inesorabilmente totalitario: il tutto - così come è compreso dalla ragione - produce totalitarismo. Non a caso, né per un semplice incidente di percorso, tutte le avventure dell’ideologia moderna, di destra come di sinistra, dall’ideologia borghese a quella rivoluzionaria, sfociano in forme totalitarie e violente. Ed è precisamente l’esperienza storica della violenza dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi e il tramonto delle pretese della ragione moderna: “La terra interamente illuminata - affermano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’Illuminismo - risplende all’insegna di trionfale sventura". (1) Il pensiero senza ombre si risolve in tragedia: lungi dal produrre emancipazione, genera dolore, alienazione e morte. La moderna “società senza padri” non genera figli più liberi e più uguali, ma produce dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si offrono come i “surrogati” del padre: il “capo”, il “partito”, la “causa” diventano i nuovi padroni, e la libertà promessa e sognata si risolve in una massificazione dolorosa e grigia, sostenuta dalla violenza e dalla paura. L’assassinio collettivo del padre non ha impedito, insomma, la prolificazione di “padri - padroni” sotto mentite spoglie...

b) La società senza padri e il “secolo breve”

Il sogno di emancipare il mondo e la vita sembra dunque essersi infranto contro l’inaudita violenza che l’epoca dell’emancipazione ha prodotto, di cui sono segno eloquente le guerre, le pulizie etniche, i forni crematori, la Shoà e tutti i genocidi del nostro secolo, fino all’eccidio per fame che ogni giorno si consuma nel mondo. È questo il frutto della ragione adulta? Dove sono i cieli nuovi e le terre nuove che le grandi narrazioni ideologiche avevano promesso? Sta qui il dramma con cui si chiude il XX secolo: un dramma morale, una crisi di senso, un vuoto di speranza. Se per la ragione moderna tutto aveva senso all’interno di un processo totale, per il pensiero debole della condizione post-moderna - naufrago nel grande mare della storia dopo il fallimento delle presunzioni ideologiche - nulla sembra avere più senso. In reazione alle pretese fallimentari della ragione forte si profila un tempo di naufragio e di caduta: la crisi del senso diventa la caratteristica peculiare dell’inquietudine postmoderna. In questo tempo di “notte del mondo” (Martin Heidegger) ciò che trionfa sembra essere l’indifferenza, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. Si profila così l’estremo volto del secolo che volge alla fine: il volto del nichilismo.

Il nichilismo non è l’abbandono dei valori, la rinuncia a vivere qualcosa per cui valga la pena di vivere, ma un processo più sottile: esso priva l’uomo del gusto di impegnarsi per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. Ciò di cui si è più malati oggi è la mancanza di “passione per la verità”: questo è il volto tragico del post-moderno. Nel clima del nichilismo diffuso tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. È il trionfo della maschera a scapito della verità: perfino i valori sono spesso ridotti a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato. L’uomo stesso sembra risolversi in una “passione inutile” (secondo la formula proposta con inquietante anticipo sulla fine dei mondi ideologici da Jean-Paul Sartre: “l’homme, une passion inutile”). Si potrebbe dire che la malattia più profonda dell’epoca che chiamiamo post_moderna sia la definitiva rinuncia a un padre-madre verso cui tendere le braccia dell’attesa, e dunque il non avere più la volontà o il desiderio di cercare il senso per cui valga la pena di vivere e di morire.

Orfani delle ideologie, si rischia di essere tutti più fragili, più tentati di chiudersi nella solitudine dei propri egoismi. È per questo che le società post-ideologiche stanno diventando sempre più “folle di solitudini”, in cui ognuno cura il suo interesse particolare secondo una logica esclusivamente egoistica e strumentale: di fronte al nulla del senso ultimo, ci si aggrappa all’interesse penultimo, alla cattura del possesso immediato. È questa la ragione del trionfo del consumismo più sfacciato, della corsa all’edonismo e all’immediatamente fruibile, ma è anche questo il motivo profondo dell’emergere e dell’affermarsi delle logiche settarie, etniche, nazionalistiche o regionalistiche, che si sono diffuse con inquietante virulenza nell’Europa di fine millennio. Quando non si hanno orizzonti grandi di verità, si affoga facilmente nella solitudine egoistica del proprio particolare e la società diventa arcipelago. Proprio questo processo mostra però come tutti abbiamo bisogno di un padre _ madre comune che liberi dalla prigionia della solitudine, che dia un orizzonte per cui sperare e amare: non un orizzonte violento, asfissiante com’era quello dell’ideologia, ma un orizzonte liberante per tutti, rispettoso di tutti.

Se dunque la “società senza padri” ha inseguito il sogno dell’emancipazione e per emanciparsi ha pensato di uccidere il padre, proprio il frutto amaro di un’emancipazione totalitaria e violenta e il vuoto che essa ha lasciato fa avvertire un nuovo bisogno di un padre_madre accogliente nella libertà e nell’amore. Non è certo la ricerca del padre_madre che sia il padre_partito, il padre-padrone, capo indiscusso e indiscutibile, o il padre-denaro, il padre_capitalismo, ma è la nostalgia di un padre_madre che fondino al tempo stesso la dignità di ogni persona, la libertà di tutti, il senso della vita. Ciò di cui c’è insomma soprattutto bisogno davanti all’indifferenza e alla mancanza di passione per la verità dell’epoca in cui ci troviamo è il volto del padre_madre nell’amore: è la nostalgia del Totalmente Altro, di cui Horkheimer e Adorno parlavano prevedendo la crisi delle ideologie. È la nostalgia del Volto nascosto, il bisogno di una patria comune che dia orizzonti di senso senza esercitare violenza. È quanto emerge dall’intera parabola dell’epoca moderna, dal trionfo della ragione illuministica, che tutto voleva abbracciare e spiegare con la sua luce, all’esperienza diffusa della frammentazione e del non-senso, seguita alla caduta degli orizzonti forti dell’ideologia. È il processo che ha caratterizzato il secolo XX, il cosiddetto “secolo breve” (“the Short Twentieth Century”: Eric Hobsbawm) (2) segnato dal trionfo e dalla crisi dell’ottimismo totalitario dei vari modelli ideologici.

La perdurante violenza, gli odi etnici, la cecità dei pregiudizi contro il diverso mostrano come forse troppo presto si sia voluto cantare il “requiem aeternam” delle ideologie e come esse si siano presa la rivincita rispuntando con tutta la virulenza dei loro meccanismi di autogiustificazione e di demonizzazione dell’altro nella sofferenza inflitta a popolazioni inerti, nel genocidio, nella propaganda delle parti contrapposte, nella vendetta terroristica. La metafora della “notte” sembra veramente la meno inadeguata ad esprimere la condizione presente, nonostante il ritorno delle ambizioni ideologiche tese a comprendere tutto col “lume” della ragione. Eppure, paradossalmente, è proprio da questa perdurante e conclamata negazione della fraternità fra gli umani che si leva più forte il grido del bisogno di una fraternità ritrovata, quale solo un padre-madre di tutti può fondare. Si profilano alcuni segnali di attesa: c’è una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere proprio nelle inquietudini del presente come una sorta di ricerca del senso perduto. Non si tratta d’“une recherche du temps perdu”, di un’operazione della nostalgia, ma di uno sforzo per ritrovare il senso al di là del naufragio, per riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di tutto ciò che è penultimo e fondare eticamente la prassi. Si assiste ad una riscoperta dell’altro, constatando che il prossimo, per il solo fatto d’esistere, può essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo senza ritorno dell’impegno d’amore per altri. Il nuovo interesse al più debole, specialmente allo straniero in fuga da situazioni di miseria e povertà d’ogni genere, la crescente coscienza delle esigenze della solidarietà a livello locale e universale, l’urgenza di una globalizzazione solidale, possono profilarsi - pur fra molte contraddizioni - come altrettanti segnali di questa ricerca del senso perduto.

Al tempo stesso, sembra affacciarsi una ritrovata nostalgia del Totalmente Altro, una sorta di riscoperta del sacroGaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore... rispetto ad ogni rinuncia nichilista. Si risveglia un bisogno, che potrebbe definirsi genericamente religioso: bisogno di un orizzonte ultimo, di una patria che non siano quelli manipolanti e violenti dell’ideologia. Nelle forme più diverse si profila un “ritorno del Padre”, quantunque non sempre privo di ambiguità e perfino di nostalgie ideologiche. In realtà, se la crisi del moderno è fine delle presunzioni del soggetto assoluto, i segnali del suo superamento - al di là del nichilismo - vanno tutti in direzione di una riscoperta dell’Altro, che offra ragioni di vita e di speranza. Lo aveva intuito con singolare profondità il Concilio Vaticano II nell’affermare: “Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni future ragioni di vita e di speranza” ((Gaudium et Spes 31). Si intravede in queste parole il ruolo di una fondamentale mediazione paterna-materna, di una sorta di paternità-maternità del senso, che possa riscattare il futuro dalla caduta nel nulla e dalle sue seduzioni. L’Altro - fondamento ultimo delle ragioni del vivere e del vivere insieme - sembra offrirsi come l’oggetto della domanda più vera e profonda aperta dalla crisi del nostro presente, e la nostalgia del Suo volto nascosto sembra delinearsi come quella di un padre-madre che accolga tutti nell’amore...

2. Gli scenari del cuore

a) “Gettati verso la morte” o aperti al Mistero

La domanda che abita al centro del nostro cuore, quella che ci fa inquieti e pensosi, è la domanda dell’infinito dolore del mondo, l’interrogativo ineludibile della morte e della fine di tutto. Se non ci fosse la morte non ci sarebbe neanche il pensiero, tutto sarebbe una piatta eternità, almeno per la nostra limitata capacità di pensare: in questo senso, vivere è anche imparare a morire, educarsi a convivere con la sfida silenziosa, resistente e perseverante della morte. È inutile cercare evasioni o facili consolazioni nella presunzione epicurea di dire: “Quando ci sarà la morte io non ci sarò e finché io ci sono essa non c’è”. Queste parole sono inganno e apparenza, perché la morte non è solo l’ultimo destino o l’ultimo atto, ma è soprattutto una presenza che incombe ogni giorno della vita nella fragilità e nella caducità dell’esistere. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nella povertà, in quanto sono tutti allo stesso modo “gettati” verso la morte, inesorabilmente diretti verso il “vallo estremo”, avvolto dal silenzio. La vita pare risolversi nell’inesorabile viaggio verso le tenebre: perciò la fatica di esistere è impastata di malinconia e la dimora del tempo appare fasciata dall’abisso del nulla. È sulla vertigine del nulla che si affaccia la situa­zione emotiva dell’an­goscia: sospeso sui silenzi della morte, l’essere umano si fa inquieto riguardo al suo destino.

La ripulsa del nulla suscita - come per contraccolpo - la potenza del domandare: l’uomo diventa domanda a se stesso, interrogativo davanti al quale si schiudono ambiguamente i sentieri di ciò che potrà essere o non sarà mai. Fedele compagna della vita si affaccia la domanda - evasa o accettata, nascosta o cercata - che la morte imprime come ferita nel più profondo del cuore umano. È così che il pensiero nasce dalla morte, la coscienza dalla passione di chi non s’arrende al finale trionfo del nulla. La lotta contro la morte si profila nelle domande che nascono nel cuore come ferite lancinanti, spesso improvvise o inattese: che ne sarà di me? che senso ha la mia vita? dove vado con il bagaglio delle mie pene, delle consolazioni e delle gioie? E quando avrò finalmente conquistato ciò che desidero, che cosa ancora potrò desiderare se non l’ultima vittoria, la vittoria sulla morte? Giunti a considerare il fondo verso cui andiamo, proprio da esso ci viene il bisogno di lottare per vincere l’apparente trionfo della morte. Proprio il fatto che la morte ci rende pensosi e che sentiamo il bisogno di dare significato alle opere e ai giorni è il segno che nel profondo del cuore i pellegrini verso la morte sono in realtà chiamati alla vita. Nel profondo del cuore si affaccia un’indistruttibile nostalgia del volto di Qualcuno, che accolga il nostro dolore e le lacrime, che redima l’infinito dolore del tempo. Quando siamo soli o disperati, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o rammaricarci di noi, ecco profilarsi in noi la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati al di là di tutto, nonostante tutto, vincendo l’ultimo nemico che è la morte. È quanto esprime Agostino, aprendo le Confessioni: “Fecisti cor nostrum ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te” - “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposi in te”.

Nella domanda che ognuno si porta nel più profondo del cuore va dunque profilandosi l’immagine del padre-madre nell’amore, metafora per dire il bisogno di qualcuno cui affidarsi senza riserve, quasi un’àncora, un approdo dove far riposare la nostra stanchezza e il nostro dolore, sicuri di non essere rigettati nell’abisso del nulla. Questo bisogno dell’altro, che sia madre_padre accogliente, quest’attesa profonda, ciascuno può riconoscerla in sé, se solo ha il coraggio di non mascherarsi dietro le proprie presunte grandezze o difese. In quanto tale, la figura del padre-madre nell’amore è il grembo, la patria, l’origine in cui rimettere tutto ciò che noi siamo. Se nel profondo del cuore tutti siamo abitati dall’angoscia della sfida suprema della morte e se questo ci rende pensosi, allora l’immagine paterna-materna dell’amore accogliente è quella che più risponde a ciò di cui tutti abbiamo infinitamente bisogno.

b) Il rifiuto e l’attesa del Padre

Non possiamo allora non chiederci: perché, se questo è vero, sorge in tanti un rifiuto perfino viscerale della figura del padre? perché prima o poi nella vita tutti viviamo un momento di contestazione dell’immagine paterna-materna? Questa palese contraddizione tra il bisogno di un’accoglienza che vinca l’angoscia e il rifiuto di essa, può essere rischiarata dall’analisi del cuore umano: quante volte il rifiuto del padre nasce dal bisogno di affrancarsi da una dipendenza! Quante volte la paternità diventa possessività, schiavitù, dominio! Ecco allora che si profila la condizione drammatica, espressa dalla metafora dell’“assassinio del padre”. L’“assassinio del padre” è una sorta di gesto rituale, un atto volto ad affermare la propria indipendenza e autonomia. Esso è inseparabile dal senso dell’angoscia: se una delle cause profonde dell’angoscia è l’affacciarsi incombente della morte, eliminare la figura del padre_madre che ci accolga vuol dire esporsi ancor più radicalmente all’abbraccio del nulla. È come sperimentare un’infinita orfananza, accendendo di conseguenza ancor più acutamente la nostalgia del padre e della madre accoglienti nell’amore. Ne nasce un comportamento paradossale: da una parte fuggiamo dalla figura paterna-materna per essere liberi e indipendenti come il figliuol prodigo, che sceglie di avere le sue sostanze e gestirsi da solo la vita; dall’altra cresce in noi lo struggente bisogno di qualcuno che ci riveli il volto di un padre_madre nell’amore che non ci faccia sentire schiavi. Veramente abissale è il cuore dell’uomo e lacerante il peso delle sue contraddizioni!

Un padre_madre che ci ami rendendoci liberi è qualcuno che non sia il concorrente della nostra libertà, ma il fondamento di essa, la garanzia ultima della verità e della pace del nostro cuore: qualcuno che sani l’angoscia con la medicina dell’amore, ma sani anche la paura che abbiamo di perdere la nostra libertà facendoci sentire amati in un modo che non crei dipendenze. Di questo padre materno ha bisogno il cuore dell’uomo, assetato di un grembo che avvolga, custodisca e generi instancabilmente alla vita. La scelta che ne consegue è quella urgente e decisiva fra il vivere come pellegrini alla ricerca del Volto nascosto, lasciandoci guidare dalla mano paterna - materna dell’Altro, o il chiuderci nelle nostre paure e nelle nostre solitudini. La vita o è pellegrinaggio o è anticipazione della morte. O è passione, ricerca e quindi inquietudine, o è lasciarsi morire ogni giorno un po’, fuggendo in tutte le evasioni possibili di cui è malata la nostra società, utili per stordirsi e non porsi le domande vere. Occorre prendere una decisione: “Mi alzerò e andrò da mio padre!”. Occorre aprirsi all’ascolto e all’invocazione. È questa la scelta di cui hanno particolare bisogno le donne e gli uomini di quest’epoca post_moderna. Per aiutare i loro compagni di strada a fare questo passo i credenti dovranno essere i primi ad alzarsi e andare verso il Padre, ritornando sempre di nuovo a farsi pellegrini, vincendo la stanchezza e la frustrazione che a volte prende, specie quando sembra che non ci siano risultati. Il credente sa di non essere in questo mondo per vedere i frutti, ma per gettare il seme. Afferma Lutero: “Se anche sapessi che il mondo finirà domani, non esiterei a piantare un seme oggi”. Per chi crede in Dio l’importante non è il raccolto, l’importante è la semina: essa darà i suoi frutti a suo tempo quando e come Dio vorrà. Il no alla frustrazione deve unirsi allora al sì alla passione per la verità che porta a sollevare le vere domande del cuore degli uomini perché cerchino il Volto nascosto, il Volto del padre_madre nell’amore, senso della vita e speranza del mondo...

3. Per il dialogo fra fede e non credenza

Come può la rivelazione, compiutasi in Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, parlare alla crisi prodotta dal tracollo delle false sicurezze dell’ideologia e alla dolorosa assenza di ragioni per sperare in grande, caratteristica del nichilismo post-moderno? Come possono credenti e non credenti incontrarsi e dialogare nella verità a partire dalle sfide degli scenari tracciati? La risposta a queste domande non può non segnalare come ai cristiani, impegnati a vivere ed operare in questo mondo in cambiamento, sia richiesto oggi più che mai di render ragione della speranza che è in loro, con dolcezza e rispetto per tutti (cf. 1 Pt 3,15). Sul piano personale ed ecclesiale ciò esige che essi siano discepoli dell’Unico, servi per amore e testimoni del senso nella sequela del loro Signore. Al tempo stesso, nel rapporto fra fede e non credenza - cui le avventure dell’ateismo moderno e l’inquietudine della post-modernità nichilista rendono particolarmente attenti - ciò richiede il superamento di ogni riduzione del cristianesimo a ideologia e la sincera attenzione all’altro in tutta la sua dignità, qualunque sia la sua convinzione. Si scopre così che l’ateo, il solo ateo che sia possibile concepire con radicale serietà, abita forse proprio nel cuore del credente, perché solo chi crede in Dio e ne ha fatto esperienza come del Padre - Madre accogliente nell’amore, può anche “sapere” che cosa sia la Sua negazione e quale infinito dolore comporti la Sua assenza. Il non credente, insomma, non è fuori di chi crede, ma in lui: e questo determina una peculiare caratterizzazione della stessa vita di fede, vissuta non nella presunzione del possesso, ma nella coscienza dell’umile e sempre nuovo bisogno di mettersi al servizio della verità, e di farlo non con avventure individuali, ma nell’indispensabile comunione della Chiesa dell’amore, suscitata e nutrita dallo Spirito.

a) L’ateismo di chi crede

Il credente è il prigioniero dell’Altro: proprio così egli può portare al pensiero la verità della fede, il lasciarsi far prigionieri dell’invisibile, non immediatamente disponibile e certo. Il credente perciò non ha un pensiero totalizzante, luminoso su tutto, ma vive in una sorta di pensiero notturno, carico di attesa, sospeso tra il primo e l’ultimo avvento, già confortato dalla luce che è venuta nelle tenebre e tuttavia ancora assetato di aurora. Il pensiero della fede, non ancora pienamente illuminato dal giorno che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria, è tuttavia sufficientemente rischiarato per sostenere la fatica di conservare la fede: pensiero umile, appeso alla Croce, che è e resta nella notte del mondo il punto di riferimento del discepolo di Cristo, la stella della redenzione, la rivelazione del Dio accogliente nell’amore. A sua volta, il non credente, che abbia attraversato il guado della modernità, quando è veramente e fino in fondo tale, quando lo è, quindi, non per una semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una medesima condizione di ricerca e di attesa. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che lasci l’uomo come l’ha trovato. La non credenza seria, pensosa, non negligente davanti alle domande vere, è sofferenza, passione di chi paga di persona l’amaro coraggio di non credere.

Non credere in maniera responsabile significa avvertire il lacerante dolore dell’assenza, sperimentando il senso di un’orfananza infinita, di un abbandono totale, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo e nella storia del mondo. Perciò, il non credente pensoso, come il credente non negligente, lotta con Dio. “Mi religion es luchar con Dios”: secondo la confessione di Miguel de Unamuno, il testimone del “sentimiento tragico de la vida”, la religione sta tutta in questo “lottare con Dio”. E poiché, non di meno, “vivir es anhelar la vida eterna”, il vivere è inesorabilmente segnato dalla tragicità di dover sostenere l’impari lotta. È nel rispetto di questa dignità del non credere, emersa in tutta la sua luce dopo l’ubriacatura tragica dell’ateismo ideologico e della sua fine, che il credente è chiamato a interrogarsi sulla sua fede e, nella fede pensata, a trovare gli abissi del non credente che è in lui.

Questa compresenza di fede e non credenza è radicata nella stessa condizione umana: nel più profondo delle sue domande, di fronte all’ineludibile ferita del dolore e della morte, l’uomo non si presenta come qualcuno che sia arrivato alla meta, ma come un cercatore della patria lontana, che si lascia permanentemente interrogare, provocare e sedurre dall’orizzonte ultimo. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno, da cui essere sempre più profondamente posseduti, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha cancellato in se stesso non solo Dio, ma la propria dignità di essere umano. La condizione umana è una condizione esodale: l’uomo è in esodo, chiamato permanentemente a uscire da sé, a interrogarsi, in cerca di una patria, intravista, ma non posseduta, in cerca del Padre - Madre accogliente nell’amore... Se l’uomo è costitutivamente un pellegrino verso la vita, un “mendicante del cielo” (Jacques Maritain), la vera tentazione è per lui quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivato, non più esule in questo mondo, ma possessore, dominatore di un impossibile “istante eterno”. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, è la malattia mortale.

Tutto questo vale analogamente per la via di Dio: anche nella vita della fede la grande tentazione è fermarsi. In quanto il cristiano è chiamato alla sequela della Croce, dove Dio ha parlato nella silenziosa e conturbante eloquenza della passione, egli è posto costantemente davanti alla grande scelta: crocifiggere le proprie attese sulla croce di Cristo o crocifiggere Cristo sulla croce delle proprie attese. Proprio così, la Croce è il vangelo della libertà, come mostra l’esodo di Gesù da sé di scelta in scelta, fino alla consegna dell’estremo abbandono! Nell’esperienza quotidiana della vita, come nel cammino della fede, l’uomo è chiamato alla libertà attraverso il prezzo doloroso della continua, ineludibile scelta, che lo pone sempre sulla soglia, sfiorato dalla vertigine dell’una o dell’altra possibilità radicale...

b) La fede come lotta, scandalo, resa

Nel suo permanente uscire da sé per lottare contro la morte e camminare verso la vita, l’uomo è stato raggiunto dalla Parola che viene dal Silenzio, da quel Dio, cioè, che - secondo la fede cristiana - “ha avuto tempo” per l’uomo. Dio esce dal suo eterno silenzio perché la nostra storia entri nel Silenzio della patria e vi dimori. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento è la fede. Essa è lotta e agonia, non il riposo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, rischia di non credere in nulla. La fede è come l’esperienza di Giacobbe al guado dello Yabbok (cf. Gn 32,23-33): Dio è l’assalitore notturno, l’Altro che viene a te e lotta con te. Se tu non conosci così Dio, se Dio per te non è fuoco divorante, se l’incontro con Lui è per te tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali senza passione d’amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente, ma il Dio morto, il “Deus otiosus”. Perciò Pascal affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa agonia è l’agonia dei cristiani, cioè la lotta di credere, di sperare, di amare, la lotta con Dio! Dio è altro da te, libero rispetto a te, come tu sei altro da Lui e libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di questa distanza e, dunque, di questa sofferenza della non identità! Credere è “cor-dare”, secondo l’ingenua e bella interpretazione dei Medievali, un “dare il cuore” che implica la continua lotta con l’Alterità che non si lascia “risolvere” né “arrestare”. Dio è l’altro da te. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede.

Solo per chi non sa questo è scandalosa la parola del Battista, che al tramonto della vita, evidentemente inquietato dal dubbio, manda a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3). Questa è la prova della fede: lottare con Dio, sapendo che Lui è l’Altro, che sfugge alle nostre certezze e non si lascia addomesticare dalle nostre pretese. Perciò la fede è scandalo: infinite sono le testimonianze di questo scandalo. San Giovanni della Croce lo presenta nella metafora ambivalente della “noche oscura”: “In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! / oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata". (3) La notte oscura è il luogo dello scandalo e il luogo delle nozze: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a se stessi, della notte dei sensi e dello spirito. È lì la gioia più grande! La tenebra è il luogo dell’amore, della fede come lotta e come scandalo: Cristo non è la risposta alle nostre domande. Cristo è anzitutto la sovversione di esse. E solo dopo averci portato nel fuoco della desolazione, egli diviene il Dio delle consolazioni e della pace.

Infine, la fede è resa: quando nella lotta capisci che vince chi perde e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi all’assalitore notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell’incontro, allora la fede si fa abbandono, oblio di sé e gioia della consegna nelle braccia dell’Amato. La fede è affidarsi ciecamente all’Altro. “Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’ Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7. 9). In queste parole di Geremia troviamo una testimonianza fra le più alte della resa della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha saputo conoscere la capitolazione dell’amore al punto da essere pronto a consegnarsi perdutamente a Lui. Così la fede diventa anche un approdo di bellezza e di pace. Non la bellezza che il mondo conosce, la seduzione di una verità totale, che spieghi tutto, ma la bellezza dell’Uomo dei dolori, la bellezza dell’Amore crocifisso, dell’offerta totale di sé al Padre e agli uomini.

Se la fede è tutto questo, se è inseparabilmente lotta, scandalo e resa, allora il credente non cercherà dei segni volgari che esibiscano la fedeltà del Dio in cui crede. Allora crederà in Lui anche quando la risposta alle domande vere del dolore umano resterà custodita nel Suo silenzio. Perciò, il credente è in fondo un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere e il non credente, che soffre dell’infinito dolore dell’assenza di Dio, è forse un credente che ogni giorno di nuovo si sforza di cominciare a non credere. Se il credente non vivesse ogni giorno lo sforzo di cominciare a credere, la sua fede non sarebbe altro che una rassicurazione mondana, una delle ideologie che hanno ingannato il mondo e determinato l’alienazione dell’uomo. Contro ogni ideologia, la fede va concepita e vissuta come un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare: perciò la fede è preghiera, e chi non prega non vivrà di fede! Ma se il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo, il non credente che ha attraversato le avventure della modernità e della sua crisi, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, e cioè la lotta di cominciare a non credere? Non l’ateo banale, ma chi vive la lotta con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce il dolore dell’assenza di Dio, non sarà questi fratello di chi crede?

Da qui derivano alcuni “no” e alcuni “sì” per il dialogo responsabile fra credenti e non credenti: il primo “no” è alla negligenza della fede, ad una fede indolente, statica, abitudinaria, fatta di intolleranza comoda, che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza dell’amore. A questo “no” si congiunge il “sì” ad una fede interrogante, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all’altro, per vivere l’esodo senza ritorno verso il Suo Silenzio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Da quanto detto viene però parimenti il “no” ad ogni ateismo banale, a ogni negazione ideologica di Dio e del mistero santo, come ne deriva il “sì” all’incessante ricerca del Volto nascosto, del Silenzio al di là della Parola, e della Parola crocifissa dove il Silenzio si apre accogliente alla ricerca del cuore. Forse, in questo tempo di penuria di speranze in grande più che mai la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, è allora degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera, e il coraggio di tendere ad essa, fino alla fine, oltre la fine...

Perciò il credente fa sua - anche a nome di chi non crede - la preghiera con cui Sant’Agostino chiude la più bella, la più pensata, forse la più tormentata delle sue opere, i quindici libri De Trinitate: “Signore mio Dio, unica mia speranza, fa’ che stanco non smetta di cercarTi, ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore. Dammi la forza di cercare, Tu che ti sei fatto incontrare, e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarTi. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di Te, che intenda Te, che ami Te!". (4) E, forse, per le stesse ragioni il non credente pensoso avverte il paradossale fascino dell’invocazione, cui non sa sottrarsi: “Concedici, o Signore, i paradisi del nulla, i giardini della tua primavera. Signore che fai della notte un mattino, il mattino che paghiamo con le monete luminose degli astri, astri della notte, guide degli erranti, degli erranti verso l’infinito: cos’è il cielo se non l’infinita via verso il nulla? Che è il nulla se non un ritorno, il tuo ritorno? Che è l’infinito se non un ritorno?". (5) Nell’inquietudine della domanda, la fede di chi crede può incontrarsi con l’invocazione di chi vorrebbe credere: sul fondamento della comune povertà e della comune ricerca, ma anche sull’ascolto dell’altro che abita nel più profondo di ciascuno dei partners dell’incontro, il dialogo fra credenti e non credenti si offre come una sfida fra le più alte ed arricchenti nelle culture segnate dalla non-credenza e dall’indifferenza religiosa, che sono in particolare quelle dell’Europa del nostro tempo postmoderno. Saremo pronti come credenti e come Chiesa a raccogliere questa sfida e a viverla senza paura, con spirito e cuore, fiduciosi nella fedeltà di Dio? Su questa domanda siamo chiamati a misurarci e a operare le scelte del nostro impegno nella sequela del Signore Gesù, come singoli e come Chiesa.

Note

1) M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 11.
2) E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995. 199816.
3) S. Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe 1 e 5: “En una noche oscura, / con ansias, en amores inflamada, / ¡oh dichosa ventura!, / salí sin ser notada, / estando ya mi casa sosegada. / ... / ¡Oh noche que guiaste! / ¡Oh noche amable más que el alborada! / ¡Oh noche que juntaste / Amado con amada / amada en el Amado transformada!”.
4) De Trinitate, 15, 28, 51: PL 42,1098.
5) A. Emo, Le voci delle muse, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992, 75.

Pubblicato in Dialoghi
Giovedì, 14 Giugno 2007 01:08

A partire dalla tolleranza (Avery Dulles)

LE RELAZIONI TRA LE RELIGIONI

A partire dalla tolleranza

di Avery Dulles

Le relazioni fra le varie religioni del mondo sono state spesso ostili, e in molti luoghi lo restano tuttora. Prendendo in mano un quotidiano, difficilmente possiamo evitare di imbatterci in articoli su conflitti fra ebrei e musulmani, fra musulmani e indù, fra indù e sikh o fra musulmani e bahai. In un qualche periodo storico ognuna di queste religioni si è scontrata con il cristianesimo. Il cristianesimo, da parte sua, ha ampiamente contribuito a tensioni e conflitti interreligiosi. I cristiani hanno perseguitato gli ebrei e hanno organizzato guerre sante contro i musulmani. In seno al cristianesimo vi sono state guerre micidiali, specialmente fra protestanti e cattolici, ma a volte anche con gli ortodossi. Scontri del genere continuano, ad esempio, in Irlanda del Nord, anche se non sarebbe giusto presentare la Chiesa cattolica come belligerante in questo conflitto, poiché le sue autorità hanno disapprovato la violenza da entrambe le parti.

Dal punto di vista americano, non siamo assolutamente interessati a una guerra contro l’islam. Il nostro paese è ospitale nei riguardi dei musulmani, che costituiscono oltre un milione della sua popolazione. Essi godono di una piena libertà di culto in tutto il Nord America e in tutta l’Europa occidentale. Una nuova crociata non sarebbe sostenuta da nessuna delle grandi potenze dell’Occidente e non avrebbe certamente la benedizione delle autorità religiose cristiane. Il nostro scontro con Osama bin Laden riguarda unicamente la sua politica della violenza, che non sembra accordarsi con i principi fondamentali del vero islam.

Da parte araba, la religione è un elemento presente, ma estremisti musulmani come bin Laden sembrano operare per fini culturali, politici, etnici ed economici più che puramente religiosi. Essi ce l’hanno con il potere degli Stati Uniti e dei loro alleati, che considerano arroganti e brutali. E, più profondamente, provano un senso di ripugnanza verso quella che ritengono essere la cultura dell’Occidente. Non ce l’hanno in primo luogo con il cristianesimo in quanto religione, quanto piuttosto e soprattutto con quella che considerano la perdita della religione in Occidente: il suo eccessivo individualismo, la sua pratica licenziosa della libertà, il suo materialismo, il suo consumismo improntato alla ricerca del piacere e del divertimento. Essi vedono in questa cultura edonistica una minaccia, poiché esercita una forte seduzione su molti giovani delle società tradizionalmente islamiche dell’Asia, dell’Africa e di altri continenti.

Se questa analisi è corretta, la globalizzazione potrebbe essere considerata la causa soggiacente al conflitto in Afghanistan. I moderni mezzi di trasporto e di comunicazione mettono a contatto culture che si sono sviluppate in modo relativamente autonomo nelle varie parti del mondo. L’incontro provoca una sorta di trauma culturale, specialmente in paesi che non sono passati attraverso quel graduale processo di industrializzazione e modernizzazione che è intervenuto in Occidente due secoli fa.

Ora i cristiani del Nord America e dell’Europa occidentale sono abituati ad avere rapporti con ebrei, musulmani, indù, buddhisti e membri di qualsiasi altra religione. Attualmente, in presenza di un’immigrazione su larga scala e di una generalizzata disponibilità dei moderni mezzi di comunicazione, nessuna religione può più pretendere di esercitare il proprio dominio esclusivo su una determinata regione e di proteggere i propri seguaci dal contatto con altre fedi. Piaccia o non piaccia, siamo in genere destinati a vivere in società religiosamente miste, comprendenti persone di varie fedi e anche persone che non praticano alcuna fede.

Perciò, dobbiamo discutere i modi in cui le varie religioni possono relazionarsi fra loro. Vorrei proporre una tipologia comprendente quattro possibili modelli: coercizione, convergenza, pluralismo e tolleranza.

Il primo modello, quello della coercizione, ha predominato nella maggior parte della storia umana. In molte epoche storiche le autorità politiche hanno voluto imporre un’unica religione nei territori sottoposti alla loro giurisdizione e costringere le popolazioni sottomesse ad adottare la religione del conquistatore. Per un certo periodo l’Impero romano ha accettato il pluralismo religioso, ma ben presto gli imperatori hanno cominciato a pretendere per sé onori divini. Così sono giunti a perseguitare quelle religioni, come il cristianesimo, che rifiutavano un tale culto. Quando l’Impero ha adottato il cristianesimo come religione ufficiale, gli imperatori hanno incominciato a imporre l’ortodossia cristiana e a perseguitare tutte le altre religioni, comprese le forme dissidenti del cristianesimo. Il modello di un’unica religione per uno stesso stato è rimasto il modello normativo anche dopo la Riforma e fin nella prima parte dell’epoca moderna. Le terribili guerre e persecuzioni del XVI e XVII secolo sono state in gran parte dovute all’idea che ogni stato doveva avere una sola religione, quella del suo sovrano (cuius regio eius religio).

In questa situazione, le guerre fra gli stati sono diventate spesso, sotto un altro aspetto, guerre fra religioni. Le crociate illustrano molto bene questa realtà. Pur essendo normalmente presentati come aggressori, in realtà gli europei hanno condotto in gran parte un’azione militare difensiva. Gli arabi e i turchi hanno conquistato la Siria, il Nord Africa e ampie aree del territorio europeo, fra cui il Portogallo, la Spagna, la Francia meridionale, regioni dell’Italia e della Svizzera in Occidente e i Balcani, l’attuale Iugoslavia e l’Ungheria in Oriente. L’avanzata delle forze musulmane ha comportato ovviamente la diffusione dell’islam in quanto religione e la loro ritirata ha comportato, il più delle volte, la cristianizzazione forzata dei territori da essi perduti, come si può vedere nel caso della Spagna del XV secolo, che ha espulso tutti gli ebrei e i musulmani che non accettavano di convertirsi al cristianesimo.

Nell’attuale situazione di «villaggio globale» è difficile mantenere il modello della coercizione. In seguito alle sanguinose «guerre di religione», l’Europa e gli Stati Uniti hanno imparato la lezione e si sono resi conto che i costi erano eccessivi. Dal punto di vista della teologia cristiana, il tentativo di convertire le persone con la spada è insostenibile. Protestanti e cattolici hanno imparato che l’adesione alla fede deve essere un atto libero e non imposto. I passati tentativi di costringere le persone a convertirsi sono serviti a screditare la religione e hanno favorito la diffusione dell’indifferentismo e di atteggiamenti a-religiosi.

Senza dubbio esistono ancora nel mondo governanti che cercano di imporre l’uniformità religiosa. Sono vicini molesti e vere minacce alla pace mondiale. Dal punto di vista cristiano, le loro politiche coercitive vanno disapprovate. Ritengo che con il passare del tempo riconosceranno che le loro politiche sono sbagliate. Infatti, come ho detto, dati i moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, diventa molto difficile impedire lo sviluppo di varie comunità religiose in ogni regione del mondo. Anche se alcuni governi autoritari possano contrastare la penetrazione di altre fedi, come avviene attualmente in certe regioni musulmane, induiste e buddhiste, alla fine le barriere saranno sfondate e crolleranno. Presto o tardi le popolazioni che sono state costrette ad adottare la religione dei loro governanti chiederanno la libertà di seguire la propria coscienza e testimoniare le proprie autentiche convinzioni religiose.

Nonostante le battute d’arresto e le ricadute, l’onda della storia ha favorito la libertà religiosa. L’Unione sovietica non è riuscita a imporre la propria ideologia atea per più di settant’anni. La coercizione religiosa sopravvive solo in nazioni che sono giunte molto tardi alla modernità. Essa è promossa da estremisti che avvertono la necessità di ricorrere a misure disperate per salvare la propria concezione teocratica dello stato.

Il secondo modello di relazione fra le religioni è quello della convergenza. Convinti che l’impulso religioso è essenzialmente lo stesso in tutte le persone e in tutti i popoli, certi studiosi affermano che le religioni concordano negli aspetti essenziali e che le loro differenze sono solo esteriori. Negli anni settanta John Hick, fra gli altri, ha affermato che le religioni potevano accordarsi sulla base del teocentrismo e riconoscere che le loro differenze riguardo ai mezzi della salvezza erano culturalmente condizionate. (1) Ma il teocentrismo non è una piattaforma soddisfacente per il dialogo con molte religioni, che sono politeiste, panteiste o atee. Anche le religioni chiaramente teiste, come l’ebraismo, l’islam e il cristianesimo, non vogliono rinunciare alle loro convinzioni riguardo alla via per giungere a Dio, sia essa la legge di Mosé, il Corano o Gesù Cristo.

Perciò, abbandonando l’idea teocentrica della convergenza religiosa, vari studiosi hanno adottato recentemente quello che essi chiamano il modello «soteriocentrico». (2) Essi affermano che tutte le religioni concordano sul fatto che lo scopo della religione è dare la salvezza o la liberazione, che esse intendono in modi diversi, probabilmente a causa della varietà delle culture. E ritengono che mediante il dialogo sulla liberazione le religioni potrebbero superare le loro reciproche divisioni.

Queste teorie della convergenza partono dal presupposto che tutte le religioni, perlomeno nei tratti che le differenziano, sono costruzioni umane, incerti tentativi di esprimere il mistero sacro e trascendente che circonda l’esistenza umana. Ma questa teoria contraddice l’insegnamento ufficiale e l’identità storica delle religioni e incontra delle resistenze da parte delle persone autenticamente religiose, le quali affermano che la loro fede specifica è vera, anzi divinamente rivelata. I cristiani ritengono che dottrine centrali della loro fede, come la Trinità e l’Incarnazione, fanno parte della rivelazione e non possono essere sacrificate per conseguire una qualche ipotetica riconciliazione. Gli ebrei aderiscono appassionatamente alla legge di Mosé e alla tradizione rabbinica. I musulmani, da parte loro, considerano il Corano la rivelazione definitiva di Dio e vedono in Mohammed il maggiore e l’ultimo dei profeti. La soteriologia è un fattore di divisione, perché le religioni sono fortemente discordi sulla via della salvezza. Perciò, come rimedio alla disunione il soteriocentrismo non promette nulla di più del teocentrismo.

Il terzo modello d’incontro religioso è quello del pluralismo. Con questo termine non mi riferisco solo alla molteplicità delle religioni, ma all’idea che essa rappresenti una benedizione. Si afferma che ogni religione riflette determinati aspetti del divino. Questi aspetti sono tutti parzialmente veri, ma hanno bisogno di essere integrati e controbilanciati dagli elementi di verità che si trovano nelle altre religioni. La coesistenza di tutte le religioni cancella gli errori e supera i limiti di ciascuna di esse presa singolarmente. Come affermava nel IV secolo il retore Simmaco nella sua discussione con sant’Ambrogio: «È impossibile che ci si possa avvicinare a un mistero così grande percorrendo una sola strada». (3)

Questo approccio esercita un certo fascino sui relativisti, i quali affermano che la mente umana non può raggiungere la verità oggettiva e che la religione è espressione di sentimenti puramente soggettivi. Ma esso non convince i credenti ortodossi, i quali sostengono che le dottrine della propria religione sono oggettivamente e universalmente vere. Il cristianesimo sta e cade con l’affermazione che vi sono realmente tre persone in Dio e che la seconda, il Figlio eterno, si è incarnata in Gesù Cristo. I cristiani non hanno difficoltà a riconoscere l’esistenza di elementi di verità e di bontà in altre religioni, ma non smettono di insistere sulla necessità di trasmettere a tutti i popoli la rivelazione di Dio in Cristo. Allo stesso modo, gli ebrei e i musulmani impegnati considerano le loro religioni come divinamente rivelate e rifiutano ogni tentativo di porre tutte le religioni sullo stesso piano.

Naturalmente, questa risposta negativa non significa che i seguaci delle diverse religioni non abbiano nulla da imparare gli uni dagli altri. Il cristianesimo si è sviluppato lungo i secoli entrando in contatto con una grande varietà di filosofie e di religioni, che hanno permesso ai cristiani di scoprire nella loro fede implicazioni che altrimenti non avrebbero riconosciuto. Il cristianesimo cresce come un organismo che assume il cibo dall’ambiente in cui vive e lo assimila in se stesso. Non ammette la validità di dottrine e pratiche che contraddicono la sua auto-comprensione. Come vedremo fra poco, il dialogo può accrescere il reciproco rispetto delle diverse religioni, ma l’esperienza non offre alcun motivo per ritenere che esso induca a concludere che tutte le religioni sono ugualmente buone e vere. Sui punti in cui si contraddicono a vicenda, perlomeno una di esse deve essere errata.

E veniamo alla quarta opzione, quella che io chiamo della tolleranza. Tolleranza non equivale ad approvazione, anche se in genere comprende un qualche grado di approvazione. Noi tolleriamo cose che non riteniamo nemmeno accettabili, perché non riusciamo a eliminarle o perché la loro soppressione sarebbe in se stessa un male. Nel XVIII secolo, il principio della tolleranza – come viene espresso, ad esempio, da John Locke nella sua famosa Lettera sulla tolleranza – è stato generalmente accettato in molti paesi dell’Europa occidentale.

Quel principio ha giocato un ruolo fondamentale nell’esperimento americano della libertà ordinata. Nel nostro paese abbiamo avuto fin dall’inizio una grande varietà di denominazioni cristiane che si consideravano reciprocamente nell’errore. L’ordinamento politico americano non ha richiesto loro di approvare le reciproche dottrine e pratiche, ma ha preteso che rinunciassero a ogni iniziativa volta a costringere i membri di altre denominazioni a concordare con esse. Nel corso del tempo la scena religiosa è diventata sempre più varia. Oggi, essa contiene un numero molto maggiore di varietà di cristianesimo rispetto a quelle che erano presenti all’inizio. Inoltre, il paese ha accolto sulle sue coste moltissimi ebrei, musulmani, buddhisti e indù. E tuttavia, a parte qualche rara eccezione, tutti questi gruppi religiosi vivono pacificamente insieme, senza interferire nella dottrina, nella vita e nel culto degli altri. L’esperimento americano ha funzionato abbastanza bene, per cui può rappresentare un possibile modello per la comunità internazionale, che in questi tempi sta sperimentando le doglie del parto.

Anche se il termine «tolleranza» non ricorre molto nell’insegnamento ufficiale cattolico nel corso degli ultimi cinquant’anni, questo quarto modello è, a mio avviso, quello che corrisponde meglio alla dottrina del magistero. Nel 1953, in un importante discorso, Pio XII ha affermato che nella comunità mondiale che allora stava nascendo, la Chiesa cattolica non pretendeva di avere un posto privilegiato o di essere riconosciuta come religione istituita. Essa chiedeva unicamente che alle varie religioni fosse concessa la piena libertà di insegnare le proprie convinzioni e praticare la propria fede. (4) Nella dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane e nella Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, il concilio Vaticano II ha assunto questo modello come un modello adatto ai singoli stati-nazione.

Il concilio Vaticano II rinuncia espressamente al ricorso a ogni sorta di coercizione, sia essa fisica o morale, affinché altri entrino nella Chiesa cattolica. Esso insegna che si deve riconoscere e rispettare la libertà religiosa di tutti i cittadini e di tutte le comunità religiose, anche là dove l’ordinamento giuridico attribuisce uno speciale riconoscimento a una determinata religione (cf. Dignitatis humanae, n. 6; EV 1/1060). Per la pace della società civile e per l’integrità delle stesse religioni è essenziale promuovere un clima di reciproca tolleranza e reciproco rispetto.

A volte il concilio Vaticano II è stato frainteso, ritenendo che esso avesse adottato il modello pluralistico e rinunciato alle pretese esclusive del cristianesimo. (5) In realtà, il concilio ha insistito sull’unica verità della fede cattolica e sul dovere di tutti di cercare la vera religione e abbracciarla una volta trovata (cf. Dignitatis humanae, n. 1; EV 1/1043).

Il concilio Vaticano II ha proclamato una cristologia molto elevata. Ha insegnato che Dio ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo intero (cf. Lumen gentium, n. 17; EV 1/327) e che egli è «il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (Gaudium et spes, n. 45; EV 1/1464). Il Concilio cita Paolo, secondo cui il disegno dell’amore di Dio è quello di «ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra» (Gaudium et spes, n. 45, che cita Ef 1,10; EV 1/1464).

In base alla sua alta cristologia, il concilio Vaticano II si è premurato di insistere sull’unica mediazione di Cristo e di sottolineare l’importanza permanente dell’attività missionaria. Riconoscendo in Cristo il redentore del mondo, il Concilio ha invitato i cristiani a diffondere il più ampiamente possibile il Vangelo. Non conoscere il Vangelo o negarlo equivarrebbe a trascurare o rifiutare il maggiore dono fatto da Dio all’umanità. Mediante il suo dinamismo interno, la Chiesa tende a diffondersi e ad accogliere nel suo grembo membri di ogni razza e nazione. Il decreto Ad genteshanno bisogno di Cristo, modello, maestro, liberatore, salvatore, vivificatore» (n. 8; EV 1/1107). sull’attività missionaria afferma che, avendo peccato ed essendo sprovvisti della gloria di Dio, tutti gli esseri umani «

Riguardo alle religioni non cristiane, il Concilio insegna che esse spesso contengono «semi del Verbo» e «raggi di quella divina verità che illumina ogni uomo», ma non insegna che queste religioni sono rivelate o che sono vie di salvezza o che possono essere accettabili alternative al cristianesimo. Naturalmente l’ebraismo detiene un posto speciale fra le religioni non cristiane, poiché la fede di Israele è il fondamento sul quale poggia il cristianesimo (cf. Nostra aetate, n. 4; EV 1/861ss). La Bibbia ebraica conserva un valore perenne in quanto parola di Dio divinamente ispirata e rivelazione di Dio al popolo eletto prima della venuta di Cristo (cf. Dei verbum, n. 14; EV 1/895).

Il Concilio è ben lungi dall’insegnare che le altre religioni sono prive di errori. Esso dichiara che «molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cf. Rm 1,21.25)... Perciò, per promuovere la gloria di Dio e la salvezza di tutti costoro, la Chiesa, memore del comando del Signore che dice: «Predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,16), promuove con ogni cura le missioni» (Lumen gentium, n. 16; EV 1/326).

L’evangelizzazione, secondo l’Ad gentes, purifica i riti e le culture dei popoli «dalle scorie del male e [li] restituisce al suo autore, Cristo, che rovescia il regno del demonio e allontana la multiforme malizia del peccato» (n. 9; EV 1/1109). Queste espressioni significano che le altre religioni non sono assolutamente sostituti adeguati del cristianesimo. Ciò implica che sotto certi aspetti esse possono ostacolare la salvezza dei loro seguaci. In questa misura l’atteggiamento del Concilio nei loro riguardi è un atteggiamento che comporta approvazione limitata e tolleranza.

A volte si pretende che le convinzioni assolute, come ad esempio le affermazioni avanzate dalle sacre Scritture e dai concili a proposito di Gesù Cristo, generino oppressione e violenza. Credo che sia vero il contrario. I leader del movimento antischiavista del XIX secolo e del movimento dei diritti civili del XX secolo, nonché i grandi fautori della non violenza, sono stati generalmente uomini e donne dotati di una forte convinzione religiosa.

Chi non riconosce alcun assoluto morale non dispone di basi abbastanza solide per difendere i diritti umani e la dignità umana. Chi non sa con certezza se la soppressione di una vita innocente sia o meno incondizionatamente vietata, potrà addurre solo deboli motivazioni contro il genocidio e contro la massiccia strage di innocenti che avviene in tutto il mondo nelle cliniche in cui si pratica l’aborto. Ovviamente, è possibile che certe persone che si oppongono all’aborto possano, orientandosi in modo fuorviato, uccidere coloro che praticano l’aborto, ma casi del genere sono rari, e violano anch’essi i principi etici cattolici che vietano agli individui di farsi giustizia da soli.

I cristiani sono tolleranti nei riguardi delle altre religioni, non nonostante la loro assoluta certezza della rivelazione, ma in parte proprio a causa di essa. La rivelazione li assicura che Dio ha creato gli esseri umani a sua immagine come soggetti liberi e responsabili. Essa insegna anche che la fede è per sua natura un atto libero. La Dignitatis humanae afferma chiaramente che i cristiani devono rispettare il diritto e il dovere di tutte le persone di cercare la verità in campo religioso e di aderirvi una volta trovata. Ai credenti deve essere consentito di professare e praticare la propria religione, a patto che, così facendo, non contravvengano alle esigenze di un giusto ordine pubblico.

L’atteggiamento della tolleranza e dell’approvazione limitata, quando è reciproco, apre la strada a varie strategie che possono condurre a una coesistenza pacifica e amichevole. Vorrei ricordare, anzitutto, la strada della conoscenza. Normalmente i vari gruppi religiosi provano un sano stimolo a cercare di conoscere gli altri, incontrandosi nella vita reale e informandosi accuratamente gli uni sugli altri mediante lo studio e la lettura. In una società multireligiosa le persone dovrebbero essere educate non solo nella loro fede, ma anche, in qualche misura, nella fede delle persone con cui dovranno interagire. Tutti dovrebbero guardarsi da caricature basate sul pregiudizio e sull’ignoranza.

In secondo luogo, i gruppi possono impegnarsi insieme in alcuni programmi basati su un comune riconoscimento di valori morali fondamentali. Persone appartenenti a fedi diverse hanno delle opportunità di lavorare insieme su obiettivi quali la difesa della famiglia, i diritti dei migranti e dei rifugiati, la diminuzione della povertà e della fame, la prevenzione e la cura delle malattie, la promozione della pace a livello nazionale e internazionale, la tutela dell’ambiente. A causa della loro autorità sulla coscienza dei fedeli, i gruppi religiosi possono offrire forti motivazioni a sostegno di riforme in prospettiva umanitaria.

In terzo luogo, i gruppi possono testimoniare insieme le comuni convinzioni religiose e morali. Molte religioni concordano sull’importanza della preghiera e del culto. Esse incoraggiano la ricerca della santità e combattono contro vizi socialmente dannosi, quali l’ira, il furto, la disonestà, la promiscuità sessuale e l’alcolismo. In una società minacciata dall’egoismo e dall’edonismo, le voci concordi dei leader religiosi possono offrire un importante contribuito all’elevazione del livello della pubblica moralità.

In quarto luogo, in certe occasioni i vari gruppi possono pregare insieme e organizzare celebrazioni interreligiose. Due emblematiche espressioni di questa forma di approvazione limitata sono state le giornate di preghiera per la pace convocate dal papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 1993. Dopo i terribili avvenimenti dell’11 settembre 2001 si sono tenuti a New York e in altre città molti incontri interreligiosi basati sulla preghiera e sulla riflessione silenziosa.

In quinto luogo, una necessità molto importante, spesso sottolineata dal papa Giovanni Paolo II, è quella della guarigione delle memorie. Basandosi fortemente sulla tradizione, la religione perpetua le esperienze passate della comunità di fede, compresi i suoi momenti di gloria, di sofferenza e di umiliazione. Le ferite inferte anche in un lontano o lontanissimo passato continuano a bruciare e ad alimentare l’ostilità. Se non si affrontano onestamente, le radici del risentimento avvelenano l’atmosfera, per cui si incolpano ingiustamente uomini e donne dei nostri giorni delle malefatte reali o immaginarie dei loro antenati. Per ristabilire l’amicizia, le comunità dovrebbero ripudiare i comportamenti attribuiti ai loro predecessori. È opportuno che esse chiedano perdono per ciò che possono aver fatto i loro predecessori e offrano perdono per le colpe che hanno patito le loro stesse comunità. Giovanni Paolo II ha coraggiosamente imboccato questa strada nei suoi rapporti con altre Chiese cristiane, con gli ebrei e con i musulmani. Queste espressioni di pentimento e di perdono sono un’importante azione interreligiosa.

In sesto luogo, a partire dal concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha posto un forte accento sul dialogo teologico. Paolo VI ha istituito un segretariato speciale, che è diventato poi il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. (6) In questi dialoghi le parti si chiariscono reciprocamente le loro credenze, esplorano strade che permettano di poter vivere amichevolmente insieme, si arricchiscono con le reciproche concezioni e si sforzano di ridurre i disaccordi cercando elementi di convergenza. Questi dialoghi si sono dimostrati molto fruttuosi per il miglioramento delle relazioni fra le varie comunioni cristiane. Essi possono essere molto fruttuosi anche nel campo delle relazioni interreligiose.

Ma per quanto prezioso, il dialogo non è una panacea. Non ci si può aspettare di superare tutti i disaccordi. Dopo aver raggiunto concezioni condivise e aver stabilito delle convergenze, in genere le parti riconoscono che non è possibile raggiungere la piena unità mediante il solo dialogo. Le religioni sono saldamente ancorate a posizioni contrastanti, che non possono abbandonare senza sacrificare la propria identità. Anche se indubbiamente i cristiani possono sperare che i loro partner nel dialogo giungano a riconoscere Cristo come il salvatore del mondo, un tale risultato oltrepassa le attese e gli orizzonti del dialogo in quanto tale. Il dialogo è finalizzato a raggiungere gli accordi che le parti possono concludere nel quadro dei loro specifici impegni religiosi.

A volte si è affermato che il dialogo è un segno di debolezza, poiché implica incertezza circa l’adeguatezza delle proprie posizioni. A mio avviso, il dialogo è invece un segno di forza. Occorre molta sicurezza di sé per ascoltare pazientemente gli altri quando ci dicono perché pensano che abbiamo torto. È facile comprendere il motivo per cui i gruppi che non hanno riflettuto in profondità sulle motivazioni delle proprie credenze rifuggono da un dialogo per il quale non sono preparati.

Abusando del dialogo si possono fare certamente dei danni. Un errore sarebbe quello di trasformarlo in un’occasione di proselitismo, cercando di convertire alla propria fede i partner del dialogo. In questo modo si stravolgerebbe lo scopo del dialogo, che differisce dalla predicazione missionaria. L’errore opposto sarebbe quello di nascondere o rinunciare alle convinzioni del gruppo al quale si appartiene, suscitando così false attese. Naturalmente i partecipanti al dialogo non sono autorizzati a cambiare le dottrine delle loro comunità religiose.

Ma, condotto giustamente, il dialogo è una delle strade più promettenti per un crescente incontro fra le grandi religioni. Non bisogna cominciare dai temi più sensibili e discussi. In genere le parti faranno bene a cominciare dai temi sui quali si può sperare di raggiungere un buon livello di consenso. Nell’enciclica Ecclesiam suam Paolo VI suggeriva di scegliere come temi di conversazione (colloquium) interreligiosa ideali comuni, quali la libertà religiosa, la fratellanza umana, la buona cultura, la beneficenza sociale e l’ordinamento civile. (7)

È possibile dialogare anche su temi più direttamente religiosi, come ad esempio il valore della preghiera e la natura dell’esperienza mistica, che sembrano presentarsi in forme analoghe in varie tradizioni religiose. (8) Si potrebbero immaginare dialoghi molto fruttuosi sulla sofferenza e la felicità, la vita e la morte, la parola e il silenzio. Per i partecipanti il risultato più importante di questi incontri sarà quello di riuscire a conoscersi e a rispettarsi vicendevolmente. L’amicizia fra rappresentanti qualificati delle varie religioni può facilitare il superamento delle ostilità accumulate e a ristabilire la fiducia.

All’inizio del terzo millennio, il dialogo interreligioso non è un lusso. Insieme alle altre cinque strategie che ho raccomandato, esso può essere necessario per prevenire disastrose collisioni fra i principali gruppi religiosi.

Nella crisi attuale, le religioni hanno una grande opportunità di passi oltre l’ostilità e la violenza fra i popoli e promuovere la stima reciproca e una cordiale cooperazione. Ma la posta in gioco è alta. Se le varie comunità religiose rifiutano di adottare programmi di tolleranza e di impegnarsi in un dialogo rispettoso, si corre il grave rischio di ricadere nelle reciproche recriminazioni e nell’odio. Allora si abuserebbe ancora una volta della religione, come è avvenuto già tante volte in passato, per giustificare il conflitto e lo spargimento di sangue. Come ha affermato Giovanni Paolo II in relazione agli avvenimenti dell’11 settembre, «non dobbiamo permettere che ciò che è avvenuto approfondisca le divisioni. La religione non deve essere mai usata come una ragione per il conflitto». (9) I seguaci delle religioni devono essere in prima fila nella costruzione di un mondo nel quale tutti i popoli possano vivere insieme in pace e fratellanza.


Note

1) J. Hick, God and the Universe of Faiths, St. Martin Press, New York 1973; God has Many Names, Macmillan, London 1980. Una buona presentazione della posizione di Hick si trova in P.F. Knitter, No Other Name?, Orbis, Maryknoll (NY) 1985, 146-52 (ed. it. Nessun altro nome?, Queriniana, Brescia 1991).

2) Questa visione è espressa in P.F. Knitter, «Towards a Liberation Theology of Religions», in J. Hick, P.F. Knitter, The Myth of Christian Uniqueness: Towards a Pluralistic Theology of Religions, Orbis, Maryknoll (NY) 1987, 178-200 (ed. it. L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Cittadella, Assisi 1994).

3) Cf. A. Toynbee, Christianity among the Religions of the World, Scribner’s, 1957, 112.

4) Pio XII, allocuzione Ci riesce: AAS 45 (1953), 794-802, specialmente 797.

5) Nell’estate del 2000 la Congregazione per la dottrina della fede ha risposto a questo fraintendimento del concilio Vaticano II nella Dominus Iesus, una dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, Regno-doc. 17,2000,529ss.

6) Il card. Francis Arinze, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, ha pubblicato un piccolo ma prezioso volume intitolato Meeting Other Believers: The Risks and Rewards of Interreligious Dialogue, Our Sunday Visitor, Huntington Ind., 1997.

7) Paolo VI, Ecclesiam suam, 6.8.1964, n. 112; EE 7/819.

8) Autori come Bede Griffiths e Thomas Merton hanno descritto il modo in cui l’esperienza della preghiera mistica può essere un vincolo d’unione fra i membri delle diverse comunità religiose.

9) Parole pronunciate da Giovanni Paolo II il 23 settembre 2001 in Kazakistan.

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