Ecumene

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Nel magistero post-conciliare

Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Il suo spirito aleggia sui nostri giorni

di Paolo Gamberini


Le affermazioni della dichiarazione non furono per nulla scontate. E si può riscontrare una certa “dialettica” tra i documenti del Concilio. Il magistero tuttavia non ebbe tentennamenti e continuò la strada aperta dal documento. Alla luce degli ultimi avvenimenti, vediamo quanto ciò sia stato importante.

Il concilio Vaticano Il ha avviato un diverso modo di comprendere la Chiesa: non più in termini esclusivi, ma in dialogo nei confronti del mondo. In particolare, la dichiarazione conciliare Nostra aetate ha segnato l’inizio di un diverso approccio con i non cristiani. Benché il documento fosse stato pensato originariamente per ridefinire le relazioni con gli ebrei, si comprese subito la necessità di estenderlo alle altre religioni, in particolare all’islam.

A questo riguardo Paolo VI istituì due speciali commissioni, connesse ai due segretariati creati all’indomani del Concilio: una per le relazioni con l’ebraismo, collegata all’allora Segretariato per l’unità dei cristiani (ora Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani) e una per le relazioni con l’islam, connessa all’allora Segretariato per i non cristiani, il quale nel 1988 assunse il nome di Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, per sottolineare l’apertura dialogica della Chiesa cattolica nei confronti delle altre religioni.

Tensione dialettica

Secondo lo spirito della dichiarazione, «la Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (2): anche in esse è possibile non solo cercare sinceramente, ma incontrare veramente Dio. Va tenuto presente, però, che nei vari documenti del Concilio permane pur sempre una certa tensione. Se da un lato le varie religioni «non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (2), da un altro lato si afferma che questa Verità è il Cristo «via, verità e vita» (Gv 14,6). Non solo. Per la dichiarazione Dignitatis humanae: «L’unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica» (1).

La prospettiva ermeneutica, adottata dai vari documenti conciliari, lascia aperta la dialettica tra l’apprezzamento delle altre esperienze religiose e il riconoscimento della novità insuperabile di Cristo. Il Concilio comprende questa tensione secondo lo schema dei cerchi concentrici. Al centro c’è Cristo e il suo Corpo, cioè la Chiesa cattolica: della pienezza salvifica di Cristo e del suo Corpo in vari gradi partecipano le altre Chiese e le altre religioni (cf Lumen gentium 16): tutti sono ordinati al popolo di Dio e orientati alla Verità di Cristo.

Questa prospettiva ermeneutica, e la tensione che essa implica nella relazione con le altre religioni, è presente anche nei vari documenti del magistero postconciliare. Tra i testi più significativi ricordiamo: il documento del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso L’atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni, riflessioni e orientamenti di Dialogo e Missione (1984), l’enciclica Redemptoris missio (RM) di Giovanni Paolo II (1991), il documento Dialogo e Annuncio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (1991), il documento Cristianesimo e religioni della Commissione teologica internazionale (1997), la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus (2000).

In questi vari testi del post-concilio la Chiesa cattolica cerca di articolare ulteriormente la tensione cui prima si accennava. Centrale è l’affermazione della Redemptoris missio che comprende le altre religioni come mediazioni parziali dell’unica mediazione insuperabile di Cristo (5 e 29). Le altre religioni (con i loro riti e testi sacri), pur non avendo in sé stesse efficacia salvifica, possono essere mezzi di salvezza per la grazia di Cristo. Questo è un punto fermo del magistero postconciliare, che vuole appunto conciliare l’unicità e l’universalità di Gesù Cristo con la presenza dei semi del Verbo e dell’azione dello Spirito di Dio nelle altre religioni: infatti, il credente delle altre religioni non è salvato individualmente dalla grazia di Cristo, ma attraverso l’appartenenza alla propria tradizione religiosa (RM 28).

Dialogo e annuncio è certamente il testo “più aperto” tra quelli del post-concilio. Questo documento fonda il valore positivo delle altre religioni non tanto sulla dimensione antropologica (la ricerca religiosa dell’uomo) quanto sulla dimensione teologica: «I cristiani non devono dimenticare che Dio si è anche manifestato in qualche modo ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza sono chiamati a considerare le convinzioni e i valori degli altri con apertura» (48). Questa manifestazione di Dio nelle altre religioni, benché sia parziale e misteriosa, costituisce il fondamento per il dialogo interreligioso.

Eventi vicini a noi

Si risente fortemente qui l’eco dell’evento di Assisi del 27.10.1986. A commento di questa intensa esperienza interreligiosa e spirituale, Giovanni Paolo Il affermò che «ogni preghiera autentica è mossa dallo Spirito Santo». In varie occasioni papa Wojtyla ha manifestato con gesti profetici la volontà di proseguire sul cammino inaugurato dalla Nostra aetate: convocando un’assemblea interreligiosa in Vaticano (28.10.1999), visitando la moschea degli Omayyadi a Damasco (6.5.2001), indicendo un giorno di preghiera e di digiuno al termine del Ramadan all’indomani dell’atto terroristico alle Twin Towers (14.12.2001) e invitando per una seconda volta ad Assisi i rappresentati delle varie religioni a pregare per la pace (24.1.2002). Senza l’operato di Giovanni Paolo Il non si sarebbe così chiaramente affermato lo spirito della Nostra aetate nella Chiesa del post-concilio.

Anche Benedetto XVI ha riaffermato più volte l’eredità lasciatagli dal suo predecessore: Commovente è stato l’incontro con la comunità ebraica e musulmana a Colonia in occasione della Giornata mondiale della gioventù (18 e 20.8.2005) e la visita ad Auschwitz durante il viaggio apostolico in Polonia (28.5.2006). Le dure reazioni islamiche ad alcuni passaggi del discorso tenuto dal Papa all’università di Ratisbona in Germania (12.9.2006) e le precisazioni del Vaticano, hanno permesso di chiarire ulteriormente la posizione ufficiale della Chiesa cattolica in merito al dialogo interreligioso, e in particolare con l’islam. Il Papa intende incoraggiare un dialogo franco e sincero con le altre religioni, purché sia fatto con grande rispetto reciproco, nel chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza.

Il discorso di Ratisbona, incentrato sul rapporto tra logos (ragione) e religione, e l’intenzione di accorpare il Pontificio consiglio del dialogo interreligioso con quella per la cultura, nominando il cardinale Paul Poupard presidente di ambedue i consigli, rivelano la strategia di Benedetto XVI per il prosieguo di questo dialogo interreligioso: contraddistinta sia dalla condivisione di una ragione comune aperta al trascendente, che dalla comune esperienza di Dio presente nelle varie religioni.

Il gesto inizialmente non previsto, e che si è rivelato assai significativo, di sostare in preghiera nella Moschea blu, durante il pellegrinaggio in Turchia (28.11-1.12.2006), ha evidenziato come il Papa di Roma e il Gran Muftì dì Istanbul credono nell’unico Dio, pur comprendendolo in maniera differente. Già nel secolo XI papa Gregorio VII, rivolgendosi all’emiro Hammadid an-Nasir, gli ricordava che «tu e noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso, e quotidianamente lodiamo e veneriamo Lui, come Creatore dei mondi e Sovrano di questo mondo».

* docente alla Pontificia facoltà teologica di Napoli, sez. San Luigi

(da Vita pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, “Dialogo e annuncio”, in Il Regno Documenti, 36, 1991, pp. 464-477 Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Jesus, EDB 2000, Bologna, Commissione teologica internazionale, “Il cristianesimo e le religioni”, in La civiltà cattolica 1997/I pp. 146 183 Cozzi A , “Le religioni nel Magistero post-conciliare Problemi ermeneutici”, in Teologia, 28 (2002), pp. 267-309; Coda P.. (ed,), L’unico e i molti, la salvezza in Gesù Cristo e la sfida del pluralismo, Mursia-PUL 1997, Roma.

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Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Mutua conoscenza e stima tra le religioni

di Dario Vitali *

La dichiarazione ebbe un cammino tormentato e quattro redazioni. E’ ormai assodato che fu papa Giovanni XXIII a volere una rivisitazione del rapporto con gli ebrei. Da qui al riconoscimento del valore delle altre religioni il passo fu obbligato. Attualissime le brevi affermazioni sul dimenticare il passato e la mutua comprensione con i musulmani.

Parlare della Nostra aetate è toccare uno dei temi più delicati e sensibili del discorso teologico, che hanno suscitato un dibattito aspro e appassionato al Concilio, in aula e fuori. Si tratta, infatti, di una delle tre dichiarazioni (accanto alla Gravissimum educationis sull’educazione cristiana e alla Dignitatis humanae sulla libertà religiosa) che ha conosciuto un percorso tormentato prima di giungere alla sua definitiva promulgazione, il 28.10.1965.

La redazione definitiva

Nella sua redazione definitiva il testo si presenta in cinque numeri, che affrontano il tema delicatissimo delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane a partire da una prospettiva universalistica (2) per terminare, dopo un breve accenno alla religione musulmana (3), alla relazione con l’ebraismo (4), inquadrate in un’introduzione che fissa i motivi della dichiarazione, e in un numero conclusivo sulla fraternità universale.

Chiarissima l’intenzione, espressa anche nel titolo, tutt’altro che occasionale: «Nel nostro tempo, in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». Il motivo è certamente contestuale: il progresso tecnologico e lo sviluppo economico hanno portato a un’interdipendenza tra i popoli che ha moltiplicato anche i punti di contatto tra le religioni. E però il fenomeno contestuale ha fatto emergere una ragione più profonda di questo necessario avvicinamento alle altre religioni, certamente non praticato in precedenza, quando le società erano sistemi chiusi: «Nel suo dovere di favorire l’unità e la carità tra gli uomini, anzi tra i popoli, essa esamina qui per prima cosa quello che gli uomini hanno in comune e che li spinge all’alleanza».

E’ questa la cornice in cui viene inscritto l’accostamento della Chiesa alle religioni non-cristiane, dal momento ché la dichiarazione si conclude con il rimando alla fraternità universale. Nell’introduzione, infatti, si dice che «tutti i popoli costituiscono una sola comunità», avendo in Dio la loro unica origine e il loro fine ultimo; questo fatto fonda la condanna finale di «qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza o di colore, di casta o di religione», e l’esortazione ai cristiani «perché “la loro condotta tra i pagani sia irreprensibile” (1Pt 2,12) e se possibile, per quanto questo dipende da loro, vivano in pace con tutti, per essere realmente figli del Padre celeste».

All’interno di questa grande inclusione, la ,dichiarazione affronta il rapporto della Chiesa con le religioni non cristiane. La presentazione avviene secondo un movimento per cerchi concentrici sempre più circoscritti, in una specie di restringimento progressivo dell’obiettivo che fissa il rapporto della Chiesa con le religioni secondo un criterio di prossimità progressiva.

Il primo rapporto, illustrato al n. 2, è con le religioni che si possono ricollegare al senso religioso dell’uomo. Sotto questa caratterizzazione vengono elencati l’induismo, il buddismo e «le a!tre religioni che si trovano nel mondo intero, [le quali] si sforzano di superare in vari modi l’inquietudine del cuore umano, proponendo delle vie, cioè delle dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri».

«La Chiesa cattolica», afferma la dichiarazione, «non rigetta nulla di quanto c’è di vero e di santo in queste religioni», anzi guarda «con sincero rispetto a quei sistemi di agire e di vivere, a quei precetti e a quelle dottrine che, sebbene differiscano in molti punti da ciò che essa crede e propone, tuttavia non di rado riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini», e invita i suoi figli perché «riconoscano, conservino e promuovano quei beni spirituali e morali e quei valori socio-culturali che in essi si trovano». Senza che questo possa mai precludere l’annuncio di Cristo, «nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa».

Il passaggio successivo, scarno fin quasi alla laconicità, asserisce che «la Chiesa guarda con stima anche i musulmani», e cerca in quella religione i punti di contatto con la fede cristiana: la fede nell’unico Dio, il fatto che egli si sia rivelato, la storia della salvezza, la venerazione di Gesù come profeta, l’onore reso a Maria, la vita morale, il giudizio finale. Si. percepisce un discorso ancora embrionale, dovuto all’evidente difficoltà di coniugare due sistemi per secoli estranei e anche antagonisti.

E, tuttavia, la dichiarazione formula una presa di posizione che oggi suona profetica: «Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (3).

Sui giudei

Ma il rapporto a cui la dichiarazione si applica con più cura, con un testo assai denso e articolato che da solo è più ampio dei due numeri precedenti messi insieme, è quello «con la stirpe di Abramo» (4). Mentre il riferimento alle altre religioni appare come l’accostamento di due mondi diversi, qui il testo conciliare si apre con un «mysterium ecclesiae perscrutans», che rivela come «il vincolo» tra il popolo del Nuovo Testamento e la stirpe di Abramo è costitutivo della natura stessa della Chiesa: «Gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già nei patriarchi, in Mosè e nei profeti»; tutti i fedeli di Cristo sono anche figli di Abramo secondo la fede, e la salvezza del nuovo popolo di Dio «è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto»; la rivelazione dell’Antico Testamento proviene dal popolo dell’alleanza.

Per cui la Chiesa «si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani», gli uni e gli altri riconciliati mediante la croce di Cristo. D’altronde, è un fatto che a Israele «appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legge, il culto, le promesse, i patriarchi: da essi proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5) come pure gli apostoli e i membri della comunità primitiva. In forza della irrevocabilità delle promesse, gli ebrei sono cari a Dio, anche se non hanno riconosciuto in Gesù il Messia e non hanno accettato il Vangelo.

Si tratta qui di un primo livello di risposte le quali conducono a una prima forma di responsabilizzazione: «Poiché dunque è così grande il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, questo sacro Concilio vuole favorire e raccomandare la mutua conoscenza e stima l’uno dell’altro, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con il dialogo fraterno».

La seconda questione riguarda l’accusa di “deicidio” attribuita a quelli che, nella liturgia del Venerdì Santo, venivano bollati come perfidi iudaei, indicata come causa dell’antisemitismo montato fino alla tragedia dei campi di sterminio nazisti durante l’ultima guerra mondiale.

Il testo è formulato con la massima cautela: «E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Pertanto tutti, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, facciano attenzione a non insegnare alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello spirito di Cristo. La Chiesa, inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con tutti gli ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette conto gli ebrei in ogni tempo e da chiunque».

D’altronde, conclude il paragrafo, Cristo «si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini, affinché tutti conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è di annunciare la croce di Cristo come il segno dell’amore universale dì Dio e come la fonte di ogni grazia» (4).

L’iter della dichiarazione

Anche a una prima lettura si avverte il carattere composito del testo, frutto di tante stesure e rimaneggiamenti. Quello definitivo, infatti, costituisce la quarta redazione di un testo che ha conosciuto un iter complesso e non sempre lineare e che aveva nel numero sui rapporti della Chiesa con gli ebrei il nucleo iniziale, come dimostra anche la sproporzione del n. 4 rispetto agli altri numeri della dichiarazione.

La prima redazione risale alla fase preparatoria al Concilio. Infatti, il Segretariato per l’unità dei cristiani aveva ricevuto il compito di approntare uno schema De iudaeis, che contenesse una condanna esplicita dell’antisemitismo. Il testo nasceva probabilmente da una richiesta dello stesso Giovanni XXIII, il quale, dopo l’incontro del giugno 1960 con Jules Isaac, rappresentante del Consiglio mondiale ebraico, si era convinto della necessità di una presa di posizione della Chiesa sull’antisemitismo: la scelta poteva avere anche un risvolto apologetico per le accuse rivolte alla Chiesa di essere all’origine dell’antisemitismo con la sua predicazione sui giudei “deicidi” e di non aver fatto tutto quello che era possibile per contrastare l’Olocausto durante la seconda guerra mondiale. In questa direzione, già nel 1959 Giovanni XXIII aveva espunto dalla liturgia del Venerdì Santo il riferimento ai “perfidi giudei”.

Nel 1962 il testo era pronto e conteneva l’affermazione delle radici giudaiche della Chiesa e la condanna dell’antisemitismo. Ma le resistenze all’argomento non tardarono a farsi sentire, dentro e fuori la Chiesa. Nella stessa commissione preparatoria furono avanzate riserve: le ragioni dell’ostilità al documento furono esplicitamente rappresentate dal cardinale Cicognani, il quale dichiarava che il testo non rientrava tra gli scopi del Concilio e lo qualificava come superfluo (perché allora non un documento anche sui musulmani? - domandava il presule) e troppo esposto a strumentalizzazioni politiche di parte. In effetti, già era in atto un’aspra contestazione dei Paesi arabi .per la presenza a Roma di un funzionario dello Stato ebraico in rappresentanza del Consiglio ebraico mondiale, che aveva attirato sul Vaticano l’accusa di favoritismo nei confronti di Israele.

Il fatto che lo schema De iudaeis venisse ritirato dall’agenda conciliare sembrò sancire la fine della questione. Che tuttavia venne ripresa dallo stesso Giovanni XXIII - il quale, peraltro, era stato sollecitato sull’argomento dal cardinale Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani - e inserita, per esplicita indicazione del Papa, nello schema sull’ecumenismo, di cui avrebbe costituito il capitolo quarto, così titolato: “L’atteggiamento dei cattolici di fronte ai non cristiani e in particolare agli ebrei”.

Secondo questa impostazione, il testo fu presentato in aula durante la seconda sessione sotto il pontificato di Paolo VI. Il capitolo si componeva di 42 righe, quasi interamente dedicate all’ebraismo, dopo una breve introduzione sulle religioni in genere. In negativo, la relazione del cardinale Bea chiariva che il testo non concerneva il riconoscimento politico dello Stato d’Israele; in positivo, dichiarava che la questione trattata era di carattere esclusivamente religioso e la sua finalità era di chiarire come la Chiesa sia, in un certo senso, «una continuazione di Israele».

Importanza del documento

La necessità del testo - contestato da molti Padri conciliari - poggiava sul fatto che la Chiesa, direttamente o indirettamente, fosse accusata di aver ispirato e fomentato l’antisemitismo: «La ragione è che già da più decenni il cosiddetto antisemitismo infuriava in varie regioni e nella forma più violenta e criminosa, soprattutto in Germania, sotto il regime nazionalsocialista, il quale per odio contro gli ebrei perpetrò delitti spaventosi, eliminando più milioni di ebrei. (…) Non che l’antisemitismo, soprattutto quello del nazionalsocialismo, abbia attinto la propria ispirazione dalla dottrina della Chiesa, cosa che non regge affatto. Si tratta piuttosto di eliminare alcune idee che, forse per effetto di quella propaganda, rimangono ferme nell’animo dei cattolici». Certamente era un’illusione pretendere che la questione rimanesse circoscritta all’ambito soltanto religioso, e risultava debole l’affermazione di una sostanziale estraneità della Chiesa all’antisemitismo, di fatto non affrontando quel pregiudizio antigiudaico che è stato una costante della cristianità lungo tutto l’arco della sua storia. Né basterebbe asserire che la preclusione era un sentimento diffuso in tutta la società, dal momento che si trattava di una società cristiana, formata e regolata dalla predicazione della Chiesa.

Comunque sia, l’impostazione apparve riduttiva a molti; e se i vescovi delle Chiese orientali continuavano a sostenere l’inopportunità di una dichiarazione sugli ebrei mentre infuriava lo scontro con il mondo arabo e si ingigantiva la questione palestinese, molti altri chiesero di allargare effettivamente la trattazione a tutte le religioni non cristiane.

In merito ai contenuti, si osservò pure che la questione - come quella sulla libertà religiosa, che costituiva il capitolo V - risultava estranea allo schema De Oecumenismo, per cui il capitolo venne estrapolato e costituì la base per un documento autonomo, diviso in due parti, la prima sul tema dell’antisemitismo, la seconda sulle altre religioni.

Il documento fu presentato in aula durante la quarta sessione: per la risonanza avuta presso l’opinione pubblica - almeno così argomentava il cardinale Bea nella relatio - era impensabile togliere la dichiarazione dal programma conciliare. La discussione in aula fu aspra e andò dalla richiesta di ribadire la tesi del “deicidio” all’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa per aver alimentato un atteggiamento antigiudaico.

Una commissione del Segretariato per l’unità dei cristiani, dopo la discussione, provvide non senza difficoltà a redigere celermente un testo in cinque punti, che prevedeva, appunto, un riferimento all’origine e al fine comune dell’umanità, alle religioni non cristiane, all’islamismo, all’ebraismo, per concludere con la condanna di ogni forma di discriminazione. Era lo schema che, con alcune correzioni, arriverà alla promulgazione finale. In aula, il cardinale Bea evocò in un’ulteriore relatio l’immagine evangelica del granello di senape, per lo sviluppo del documento, nato come una dichiarazione di condanna dell’antisemitismo e diventato un albero in cui trovavano posto tutte le religioni. Le votazioni sul documento furono lontane dall’unanimità. Vennero avanzate ancora riserve, prese in considerazione per la redazione ultima della dichiarazione, definitivamente approvata con 2.221 voti favorevoli e 88 contrari.

Se l’immagine del granello di senape evocato dal cardinale Bea non sembra corrispondere all’iter così tormentato della dichiarazione, e alla sua formulazione ancora esitante, non omogenea nelle parti e acerba in alcuni passaggi, si può comunque parlare di una novità assoluta nell’atteggiamento della Chiesa. Nell’arco di cinque anni si era passati da un’ipotetica dichiarazione di condanna dell’antisemitismo all’elaborazione teologica del rapporto della Chiesa con .le religioni non cristiane, nel quadro dell’universale volontà salvifica di Dio. Si trattava di un passaggio enorme, in linea con l’ecclesiologia di comunione e con l’apertura al dialogo nei confronti del mondo, che il Concilio aveva formulato nei documenti maggiori, soprattutto nella Lumen gentium e nella Gaudium et spes. Sta qui il punto di partenza di un dibattito intensissimo e pieno di tensioni, quello sul pluralismo religioso, che nel post-concilio conoscerà uno sviluppo incredibile.

* professore di ecclesiologia alla Pontificia università gregoriana di Roma

(da Vita Pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Per un approfondimento della Nostra aetate il testo più accessibile è Stefani P. Chiesa ebraismo e altre religioni, Padova 1998: un approccio storico in Alberigo G.,Storia del concilio Vaticano II, I-V, Bologna 1995.2001; vale la pena di rileggere il testo del cardinale Bea, alla cui azione si deve di fatto la Dichiarazione Bea A., La Chiesa e il popolo ebraici, Brescia 1966.

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ESPERIENZE DI DIALOGO

Le radici teologiche dell’hospitalitas

di Salvino Leone *

1. L’accoglienza all’ospite nella Sacra Scrittura

1.1 Nell’Antico Testamento. Nei confronti dell’ospite l’antico Israele ha avuto un atteggiamento caratterizzato da una profonda ambivalenza: da un lato, infatti temeva lo straniero in quanto portatore di diversità e, come tale, implicito e potenziale pericolo per la sua unità etnica, religiosa e culturale(1); dall’altro, si sforzava di accoglierlo individuando specifiche modalità per farlo, anche in ossequio ad una consolidata tradizione semitica che traspare in filigrana in numerosi brani scritturistici (2).

E’ interessante notare come l’unità semantica che nelle nostre lingue definisce lo «straniero» - il quale è, più specificamente, l’«altro» da ospitare - nella lingua ebraica si frammenti in almeno tre distinti sostantivi(3): il primo è zar (usato più spesso al plurale zarîm), che indica lo straniero in senso politico o, in ogni caso, l’appartenente a un’altra etnia o popolo ostile a Israele(4). Il secondo è nokrî, che è il forestiero in senso prettamente etnico-religioso; può non essere nemico di Israele, ma non ne condivide la fede e non rientra quindi nella sua comunità; il più delle volte non si trova in condizioni di marginalità economica o sociale(5). il terzo è gherîm, che indica lo straniero residente presso Israele ma senza una propria terra; tra i gherîm si trovavano principalmente gli esuli, i profughi, i rifugiati, gli emigrati, i fuggiaschi, ecc.(6).

Sono propriamente questi ultimi a essere oggetto di particolare rispetto e protezione, non essendo nemici né economicamente autosufficienti. La tipologia protettiva si esprimeva non solo nel non farne oggetto di vessazione, ma nel farli partecipare alle feste (cfr. Dt 16,11-12), nell’elargir loro la decima di ogni triennio (cfr. Dt 14,28-29), nel lasciare ad essi i residui del raccolto e della vendemmia (cfr. Dt 24,19-21) e nel riservar loro un trattamento assolutamente egualitario in giudizio (cfr. Dt 27,19). Le ragioni di tale attenzione per lo straniero o, almeno per questo tipo di straniero, sono varie(7).

La prima può ritenersi di ordine culturale e va rintracciata nella credenza popolare per cui si riteneva che, sotto le spoglie dell’ospite, si potesse nascondere una divinità. La traccia forse più famosa di questa tradizione, per quanto di epoca assai successiva, la riscontriamo nel mito di Filemone e Bauci (8), ma anche presso altre culture tale topos è ricorrente. Ne troviamo traccia indubbiamente nell’incontro tra Abramo e i tre personaggi alle querce di Mambre(9) o nella parenesi di Eb 13,2 (che non a caso si colloca in un interlocutorio di contesto semitico): «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni nel praticarla hanno accolto gli angeli senza saperlo»(10). E’ interessante notare, in tal senso, come il messaggio che si cela dietro tale narratività evidenzi nell’ospitalità l’occasione di incontro con Dio”.

La seconda ragione è di carattere storico e fa riferimento alla personale vicenda di Israele la cui storia nasce da un «arameo errante» (Dt 26,5) che viene accolto da diversi popoli e dal quale ha origine una generazione che per lunghi secoli vivrà straniera in terra straniera. L’ospitalità che adesso Israele è invitato ad offrire allo straniero si realizza proprio nel segno di quella ospitalità che un giorno ha ricevuto o, al contrario, della quale non ha potuto godere perché fatto oggetto di soprusi. Quando Dio dice «voi conoscete la vita dello straniero» (Es 23,9), non fa riferimento solo a un dato puramente cognitivo, peraltro impensabile nella mentalità ebraica, ma a una conoscenza essenzialmente esperienziale. Voi la conoscete perché ne avete fatto esperienza e quindi sapete cosa significa. E quindi «il forestiero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Proprio in tale cornice può porsi una interessante istituzione che è quella delle «città-rifugio» riservate a qualsiasi straniero avesse ucciso qualcuno involontariamente (cfr. Nm 35,15). Interessante perché costituisce la prima attestazione di un passaggio dall’ospitalità personale all’ospitalità strutturale: non più il singolo che ospita una o più persone ma un’intera comunità che si fa realtà ospitante.

La terza motivazione è quella propriamente religiosa e si radica nell’esemplarità divina che Israele è chiamato a riproporre: «Il Signore vostro Dio (...) rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10, 18). Ospitare il forestiero, l’orfano, la vedova diventa così espressione di «giustizia», cioè di perfetto adempimento della Legge (12). Il pio israelita, lo tzaddiq è tenuto a farlo nella duplice prospettiva del comandamento ma anche dell’esempio di Dio. JHWH che gli chiede tutto questo è anche Colui che per primo lo fa. Ne consegue che chi è fedele alla legge di Dio lo è anche nella prassi dell’ospitalità. In tal senso vi sono alcuni interessanti esempi da riportare dai quali emerge come la prassi dell’ospitalità, in un contesto religioso, sia premiata in vario modo. Il primo episodio è quello della prostituta Raab che accoglie gli esploratori inviati da Giosuè, fingendo che si tratti di comuni «clienti» (Gs 2,1-12). il secondo, che presenta alcuni tratti di somiglianza col primo, è relativo alla vedova di Zarepta che, accogliendo il profeta Elia, condivide con lui il suo ultimo pasto (1 Re 17,20). In entrambi i casi le due donne vengono premiate: la prima con l’incolumità per sé e la sua famiglia, la seconda con la guarigione del figlio. L’ospitalità che è accoglienza alla vita dell’altro viene ricompensata con il dono della vita. Tale dinamica retributiva diventa ancora più evidente nella storia di Rut, in cui la sua accoglienza al paese straniero, per cui lascia il proprio accompagnando la suocera Noemi, e quella di Booz alla donna straniera, che sposerà, culminerà nel premio più grande, quello cioè di diventare antenati di Davide e quindi del Messia (Mt 1,5-6). L’abbandono delle proprie certezze che si attua in questa singolare e reciproca ospitalità trova nell’accoglienza all’altro la sua nuova certezza.

1.2 Nel Nuovo Testamento. Il misterioso evento che sta all’origine nel Nuovo Testamento e storicizza in Cristo l’inizio della redenzione è attuato nel segno dell’ospitalità. Maria si fa ospite del Verbo che, in virtù della sua accoglienza, diviene il Gesù storico. In lei è l’intera umanità a ospitarlo(13), anche se, come sottolinea Giovanni, le tenebre non hanno accolto la sua luce (Gv 1,5). E non è un caso che la sua nascita avvenga proprio nel segno di un dramma di ospitalità: nessuna locanda ha posto per il figlio di Dio costretto a nascere per strada, in una «mangiatoia»(14). Quella terra che diventa per lui la sola realtà accogliente è ben simbolizzata, nell’iconologia bizantina, da quella grotta della nascita che si fa al tempo stesso accoglienza sepolcrale, cioè grembo del rinascere.

E, così pure, non è un caso che dall’accoglienza di Maria scaturisca un ulteriore duplice gesto di ospitalità. Il primo è quello che, paradossalmente, compie la stessa Maria che, facendosi essa stessa ospite di Elisabetta andando a trovarla cum festinatione, cioè con una premura ben sottolineata da Luca. Il secondo è quello, più evidente, da parte della cugina che accoglie «la madre del suo Signore» e quindi, in essa, lo stesso Gesù. Dietro quel sobbalzare di feto vi è proprio la gioia dell’accogliere, per primi, il figlio di Dio.

Nel messaggio evangelico, poi, troviamo almeno tre distinte tipologie che sottolineano, in aggiunta a quanto evidenziato nel Primo Testamento, il valore dato all’ospitalità.

La prima è la prospettiva di carattere etico-antropologico. Il comandamento dell’amore, sopratutto per coloro che si trovano in una situazione di precarietà esistenziale, trova nell’identificazione del «povero»(15) con Cristo la sua principale ragion d’essere. Nell’ospitare ed accogliere l’altro si accoglie Cristo stesso che, nella persona ospitata, si cela. Il tema, esplicitato nella parabola dei capri (Mt 25,31-45), verrà riletto innanzitutto nelle molte proiezioni devozionali, iconografiche e agiografiche che mostrano, con i linguaggi propri dei rispettivi ambiti, la figura di un povero che in realtà appare essere lo stesso Gesù (16). Ma poi, anche nella semplificazione catechistica, come una delle «opere di misericordia corporale» (17).

La seconda valenza è di ordine escatologico. Sempre in riferimento alla stessa parabola sopra citata l’ospitalità diventa uno dei parametri del giudizio escatologico. Ovviamente, nella parabola, l’elenco delle azioni misericordiose ha valore esemplificativo più che esaustivo ma nell’identificare solo pochi gesti-simbolo è significativo notare come Gesù vi includa proprio l’ospitalità.

La terza ragione, infine, è di carattere cristologico. I pressanti inviti vetero-testamentari ad accogliere i forestieri, unitamente ad altre persone in condizione di marginalità esistenziale, trovano il nuovo riferimento esemplare nella persona stessa di Gesù e nella sua testimonianza. Se, prima, l’israelita doveva accogliere l’altro perché glielo chiedeva Dio e Dio stesso si faceva difensore del povero, adesso tutto questo si incarna nella concretezza di un esempio visibile da imitare. Il Dio fattosi uomo si dimostra costantemente accogliente nei confronti dell’altro, ospita nel suo cuore, nel suo gesto sanante, nella sua parola guaritrice chiunque lo accosti.

Non dobbiamo trascurare, poi, i molti tratti biografici che, pur senza evidenziare in modo tematico la dimensione dell’ospitalità, di fatto presentano situazioni in cui Gesù è ospite di parenti, amici, discepoli. Anzi, molte volte, tali situazioni fanno da cornice a eventi miracolosi o insegnamenti particolarmente significativi. Basti pensare alle nozze di Cana, alle quali era presente come ospite; alla guarigione della suocera di Pietro nella cui casa di Cafarnao si fermava quando passava dalla Galilea; al banchetto in casa di Simone col noto episodio della donna peccatrice; all’abitazione di Marta e Maria in Betania, delle quali era ospite abituale, in cui sono ambientate la scena dell’unzione e i preliminari della resurrezione di Lazzaro; all’ultima cena in un sala appositamente predisposta per accoglierlo insieme ai discepoli, ecc...

Il tema dell’ospitalità verrà poi ripreso in vari passaggi degli altri scritti neotestamentari nel modo seguente: nella lettera ai Romani, la sua pratica viene presentata da Paolo come uno dei frutti della carità in un elenco che, se pur non esaustivo, ne evidenzia, tuttavia, alcuni dei più significativi: «Siate premurosi nell’ospitalità» (hospitalitatem sectantes, Rm 12,13); nella Prima lettera di Pietro se ne sottolinea la dimensione della reciprocità: «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare» (1 Pt 4,9); nelle lettere pastorali, emerge come dovere specifico del vescovo: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare (1 Tm 3,2; cfr. anche Tt 1,8); nella lettera agli Ebrei, infine, è evidenziata la sua connessione con la carità, da cui promana, correlandola ad altre opere di misericordia sulla scia di Mt 25,3 1-45: «Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo(18) Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che soffrono, essendo anche voi in un corpo mortale (Eb 13,1-3)».

2. La prassi ospitante nella tradizione ecclesiale

2.1 Ospitalità ed evangelizzazione. Quanto detto a proposito delle attestazioni neotestamentarie inerenti l’ospitalità diventa ben presto prassi ecclesiale. Sono proprio le case dei credenti, infatti, i primi centri di ascolto della Parola e dello spezzare del pane, le prime ecclesìe: «Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,4) e ancora: «Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23). Negli Atti viene ricordato come, dopo il battesimo di Lidia, questa rivolga a Paolo e ai suoi discepoli un invito: «Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa». E ci costrinse ad accettare» (At 16,15). Possiamo senz’altro affermare che la prassi dell’ospitalità presso le case dei credenti, unitamente alla predicazione itinerante costituisse non solo l’ordinaria modalità di evangelizzazione nella Chiesa apostolica, ma anche il primo nucleo di quella che diventerà l’assemblea domenicale. Questa considerazione, di per sé prettamente storico-ecclesiale, assume tuttavia una portata assai più ampia ove si consideri il ruolo che svolge la «struttura ospitante» nella diffusione del messaggi evangelico. Non si tratta, cioè, soltanto di una pia pratica o dell’esercizio di una virtù, per quanto attuata in risposta ad un’esortazione evangelica, bensì di realizzare il regno di Dio anche attraverso una specifica prassi all’interno di una spazialità accogliente.

2.2 La riflessione patristica. Sul piano della prima riflessione teologica il tema dell’ospitalità è ampiamente presente negli scritti patristici(19). Nei Padri d’Oriente, d’altra parte, non va sottovalutata la sua consonanza con un ben preciso substrato culturale. La sua prassi, infatti, non si radicava solo in una convinta assimilazione dell’insegnamento biblico, ma anche in un retroterra storico che la valorizzava in modo specifico. Limitandoci ai Padri dei primi secoli la Didachè vi dedica espressamente un capitolo dando anche chiare indicazioni operative:

venuto èdi passaggio, aiutatelo quanto potete; non rimarrà da voi se non due o tre giorni, se necessario. Se vuole fermarsi da voi, avendo un mestiere, lavori e mangi. Se non ha un mestiere provvedete secondo il vostro giudizio, perché un cristiano non viva tra voi ozioso. Se non vuole così èun mercante di Cristo: guardatevi da costoro!»(20).

Nella Lettera ai Corinti Clemente associa arditamente l’ospitalità alla fede nella motivazione della promessa di Dio ad Abramo: «Per la fede e l’ospitalità gli fu dato un figlio nella vecchiaia» e prosegue associandovi ora la pietà (per la quale Lot fu salvato dalla distruzione di Sodoma) ora di nuovo la fede, a proposito della prostituta Raab.(21)

Possiamo citare ancora Il Pastore di Ernia nel quale l’ospitalità è vivamente raccomandata perché offre l’occasione di manifestare la carità(22). Aristide che ricorda come i cristiani gioiscano a ricevere i pellegrini come se fossero loro veri fratelli(23) Cipriano che autorizza a prelevare dai suoi beni il necessario per sostenere i forestieri’(24). Tertulliano che arriva addirittura a definire l’intera cristianità come contesseratio hospitalitatis. (25). E dell’ospitalità parleranno anche sant’Ambrogio e sant’Agostino(26).

2.3 Gli xenodochi e la prima ospitalità organizzata. Sulla scia e nella consapevolezza di tutto questo la Chiesa dei primi secoli organizza in modo sistematico le prime specifiche strutture di accoglienza.(27)

Le prime di queste possono ritenersi le diaconìe istituite a Roma da papa Fabiano (240-253) e annesse agli uffici del vescovo per assistere varie categorie di bisognosi: malati, orfani, pellegrini, forestieri, vedove. Il concilio di Nicea (325 d.C.) renderà obbligatoria per ogni città l’istituzione degli xenodochi, strutture di ricovero appositamente destinate ai pellegrini e agli stranieri. Queste venivano così ad affiancarsi ad altre istituzioni che cominciavano a nascere come i nosocomi (il più delle volte costruiti accanto ai primi e destinati ai malati); i brefotrofi (per accogliere i bambini a qualunque titolo bisognosi); gli orfanotrofi; gli ptocotrofi (per i poveri), i gerontocomi (per gli anziani).

In epoca medievale assistiamo a una straordinaria ed eterogenea fioritura di «ordini ospedalieri», termine col quale non dobbiamo intendere l’assistenza ospedaliera in senso stretto bensì ogni tipologia di attività «ospitante» nei confronti di poveri, stranieri, pellegrini, malati, ecc... Tra queste istituzioni ricordiamo: gli Antoniani che curavano in modo particolare gli storpi e i soggetti colpiti dal «fuoco di Sant’Antonio»(28) i «fratelli dei ponti» e i «cavalieri d’Altopascio» che costruivano rifugi per i viandanti in prossimità dei valichi e dei tratti di strada particolarmente pericolosi o insicuri; l’Ordine di Santo Spirito, fondato verso il 1180 da un laico, Guido di Montpellier al quale si deve, per intervento di Innocenzo III che lo istituì formalmente, l’ospedale di Santo Spirito, la prima vera e propria struttura ospedaliera di un certo respiro che farà esclamare a Lutero nel suo viaggio a Roma:

«Gli ospedali in Italia sono provvisti di tutto ciò che è necessario; sono ben costruiti, vi si mangia e beve bene, e vi si è serviti con sollecitudine; i medici sono abili, i letti e le mobilia sono puliti e ben tenuti. Quando il malato vi è condotto, gli si tolgono gli abiti in presenza di un pubblico notaio che li registra; poi si mettono da parte con cura ed il malato viene ricoperto da una veste bianca e deposto in un tetto ben preparato. La pulizia è ammirevole».(29)

2.4 La Regola di san Benedetto. Parlando di hospitalitas, un posto a se stante occupa indubbiamente la Regola di san Benedetto che al suo esercizio dedica un intero capitolo, il cap. LIII: «Come debbano essere accolti gli ospiti» (De suscipiendis hospitibus):

1) Tutti gli ospiti che sopraggiungano, siano ricevuti come Cristo, perché Egli dirà: «Fui ospite e mi accoglieste»;
2) e a tutti si renda il conveniente onore, specialmente poi a quanti ci sono familiari secondo la fede, e ai pellegrini.
3) Appena dunque è stato annunziato un ospite, il superiore o i fratelli gli vadano incontro con ogni dimostrazione di carità;
4) ma prima preghino insieme, e solo allora si accomunino a lui nella pace.
5) Tale bacio di pace appunto non dev’essere offerto se non dopo che si è pregato, ad evitare le illusioni diaboliche.
6) Perfino nel modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono o partono:
7) inchinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori in essi Cristo che viene accolto.
8) Ricevuti dunque gli ospiti, siano condotti all’orazione, e dopo si sieda con loro il superiore o un fratello da lui incaricato.
9) Si legga dinanzi all’ospite la Legge divina per edificarlo, e poi gli si offra ogni segno di premurosa benevolenza.
10) Il superiore per riguardo all’ospite rompa pure il digiuno, purché non si tratti d’uno speciale giorno di digiuno che non possa esser violato;
11) i fratelli invece seguano i consueti digiuni.
12) L’acqua alle mani la versi agli ospiti l’abate;
13) i piedi a tutti gli ospiti li lavino sia l’abate che tutta la comunità,
14) e finita la lavanda dicano questo verso: «Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel mezzo del tuo tempio».
15) I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari cure ed attenzioni, perché specialmente in loro si riceve Cristo, mentre ai ricchi si porta rispetto per la stessa soggezione che incutono.
16) La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, di modo che in qualunque ora vengano all’improvviso gli ospiti, che nel monastero non mancano mai, i fratelli non ne siano disturbati.
17) A prestare servizio in questa cucina entrino per tutto un anno due fratelli ben adatti a tale compito.
18) A loro, secondo che ne abbiano bisogno, si procurino degli aiuti, perché servano senza mormorare; quando invece mancano di lavoro, vadano ad occuparsi dove viene loro comandato.
19) E non solo per essi, ma anche per tutti gli ufficiali del monastero sia questa la norma,
20) che quando hanno bisogno di aiuti, ne vengano provvisti, e quando invece sono liberi, si occupino dove vuole l’obbedienza.21) Similarmente la foresteria sia affidata ad un fratello che abbia l’anima posseduta dal timore di Dio;
22) in essa vi sia un numero sufficiente di letti arredati, e la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente.
23) Nessuno poi, se non ne ha ricevuto l’incombenza, si accompagni o parli con gli ospiti;
24) ma se li incontra o li vede, li saluti umilmente, come abbiamo detto, e chiesta la benedizione passi oltre, dicendo che non gli è permesso di parlare con l’ospite.

Il capitolo può essere nettamente diviso in due parti. I vv. 1-15 espongono in termini generali le ragioni dell’ospitalità, mentre i successivi trattano specificamente di alcune modalità pratiche per attuarla in monastero.

Il primo versetto pone l’accento sulla dimensione universalistica dell’ospitalità per cui si debbono accogliere tutti. Se una preferenza va fatta, questa riguarda i fratelli nella fede (domestici fidei) nei quali vanno ravvisati altri monaci o chierici, i pellegrini (che incontravano il monastero lunga la via del loro pellegrinaggio) e, com’è detto al v. 15, i poveri(30).

La prassi dell’ospitalità non è mai disgiunta, tuttavia, da una sua più elevata comprensione all’interno di un ben preciso universo spirituale, tant’é che il primo atto con cui l’ospite viene accolto non è quello del dargli ristoro ma del pregare insieme a lui(31).

Le ragioni teologiche dell’accoglienza non sono solo esplicitate al v. 1 in rapporto alla matteana parabola dei capri, ma vengono ulteriormente sottolineate da atti fisici di vera e propria venerazione, immedesimandosi in lui Cristo in persona, e dal sentimento di gratitudine formulato con le parole del Salmo 47,10(32).

Più pragmatiche e, certamente, di minor slancio spirituale, appaiono le indicazioni dei versetti successivi. Ma non c’è da stupirsene. La Regola, infatti, pur pervasa da un profondo affiato spirituale è pur sempre un testo normativo, per di più destinato a disciplinare la vita in un contesto monastico ben più affollato di quelli odierni e, di solito, anche culturalmente assai meno elevato. Per cui non devono disturbare indicazioni così dettagliate che non sono indice di pedanteria normativa e che nulla tolgono alla ricchezza spirituale dei precedenti versetti.

Vi sono da notare, tuttavia, due elementi di rilievo. Il primo riguarda il servizio del monaco accogliente al quale viene data molta importanza (v. 21). Tale attenzione ricorda quella che oggi, nell’ambito della gestione delle risorse umane viene attribuita ai cosiddetti servizi di front line che costituiscono il primo impatto dell’utente con una istituzione a volte determinante per la credibilità della stessa e i successivi sviluppi del rapporto.

Il secondo è relativo alla proibizione, fatta ai monaci, di intrattenersi con l’ospite. Potrebbe sembrare una chiusura contrastante con quanto affermato prima, ma non è così. Con grande saggezza e perspicacia, infatti, san Benedetto vuole evitare che persone sprovvedute e magari pettegole, come a volte potevano essere i monaci, abbiano a screditare il buon nome del monastero o della stessa vita monastica, lasciando un marchio negativo nella memoria dell’ospite. (33)

2.4 Il carisma di San Giovanni di Dio. Dopo secoli di prassi dell’ospitalità, praticata a livello individuale e soprattutto nelle foresterie monastiche, tale vissuto torna prepotentemente sulla scena ecclesiale in virtù dell’esperienza di un santo portoghese, san Giovanni di Dio (1495-1550), diventando l’oggetto specifico di un «quarto voto» per l’Ordine dei Fatebenefratelli che da lui avrà origine. (34)

Nella sua esperienza storica Giovanni Ciudad, dopo varie esperienze (guardiano di pecore, soldato di ventura, muratore, ecc.), convertitosi in seguito all’ascolto di una predica di san Giovanni d’Avila, manifesta visibilmente i segni di uno sconvolgimento profondo per cui viene ritenuto «pazzo»(35) e rinchiuso nell’ala manicomiale dell’ospedale di Granada. Lì ha modo di vedere come vengono trattati i malati, e i malati di mente in modo particolare, per cui chiede a Dio di poter avere, quando uscirà, un ospedale in cui poter curare i malati a modo suo (36). Cosa che avverrà dando origine a una ininterrotta attività «ospitaliera» che continua fino ad oggi, non limitata a quella sanitaria ma molto più ampia (case di riposo, hospices, asili notturni, unità di strada, ecc...)

3. Nuovi percorsi teologico-pastorali

In conclusione e senza volermi addentrare in trattazioni di più ampio impegno e respiro, mi limito a indicare alcune possibili vie che una riflessione sulle dimensioni teologiche dell’hospitalitas può aprire nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale.

3.1 Ospitalità e teologia trinitaria. Un primo percorso di ricerca credo sia quello di evidenziare all’interno della stessa vita trinitaria le radici fontali dell’ospitalità. Se, infatti, nell’analisi biblica ed ecclesiale si evidenzia la sua natura di virtù morale, questa va ricondotta non solo alla volontà creatrice di Dio strutturante la vita morale della persona, ma anche, e in primo luogo, alla sua stessa vita di cui quella umana dovrebbe costituire similitudine esistenziale e, soprattutto, caritativa.

E così che il Padre accoglie in sé il Figlio, anzi ancor più lo «genera» in una generazione eterna che, evidenziando l’unità di natura tra generato e generante, pone l’ospitalità nella sua dimensione di più profonda intimità e condivisione, non semplice accoglienza in seno alla propria esistenza ma comunione e unità genetica della stessa.

A sua volta il Figlio accoglie il Padre, nel suo essere generante, certo, ma - in prospettiva dell’Incarnazione - anche accettando profondamente e con amore sofferto la sua volontà. Il Padre, come dirà a Filippo (Gv 14,9), è già tutto nel Figlio e il suo ospitarlo in sé si fa segno per il mondo.

Infine lo Spirito, reciproco dono di amore ma anche sua reciproca accoglienza. Accoglienza, poi, diventa storia nell’esistenzialità umana ponendosi, come ci ricorda la sequenza di Pentecoste, quale dulcis hospes animae.

Ovviamente, in queste che sono linee appena abbozzate, non bisogna assolutamente correre il rischio di una sorta di implicito, per quanto involontario, «triteismo» sempre incombente quando si affronta il discorso sulle singole «persone» trinitarie. Il reciproco ospitarsi, in tal senso, deve costituire anzi un ulteriore elemento in grado di evidenziare, sia pure nel paradosso, il mistero del Dio uni-trino.

3.2 L’ospitalità eucaristica. È un punto di particolare delicatezza e attualità in ambito ecumenico. Il cammino compiuto dall’ecumenismo nei tempi post-conciliari è stato notevole, anche se in questi ultimi anni ha subito alcune battute di arresto che ci auguriamo possano essere presto superate.

Tra i vari problemi sul tappeto, quello della cosiddetta «ospitalità eucaristica» costituisce indubbiamente uno degli ambiti verso i quali sono maggiormente rivolte l’attenzione e le aspettative delle Chiese. Sappiamo bene, infatti, che il dialogo dottrinale si muove a piccoli passi e non sempre particolarmente significativi. La possibilità di accedere reciprocamente e in via ordinaria all’eucaristia (cosa attualmente possibile ad alcune particolari condizioni (37) e, in ogni caso, nell’ambito delle Chiese che riconoscono piena sacramentalità (38) alle rispettive celebrazioni eucaristiche), potranno costituire un significativo progresso sul piano del «vissuto» ecumenico che, spesso, precede e trascina poi la comunione dottrinale.

Non solo, ma il problema oggi è particolarmente avvertito nei matrimoni misti che costituiscono, forse, il fronte più avanzato, più problematico ma al tempo stesso più fecondo in ambito ecumenico. Di fronte a una comunione di vita e alla celebrazione sacramentale del matrimonio l’impossibilità di accedere insieme all’eucaristia costituisce, indubbiamente, un oggettivo segno di contraddizione.

Il dialogo, tuttavia, si è fatto più serrato in questi ultimi anni e non è escluso che, in tempi brevi, si possa arrivare anche a un qualche documento comune, come già avvenuto per la Dichiarazione sulla giustificazione (39).

3.3 L’ospitalità come rinnovata via di carità. Si è già detto, e più volte, che la virtù dell’ospitalità costituisce una particolare e significativa espressione della carità. Tuttavia, le sue forme storiche sono state quasi sempre esercitate, secondo modalità che oggi possono apparire desuete. Nessuno bussa più alla porta e viene accolto o si presenta come viandante, pellegrino, straniero. Anche nelle tradizionali foresterie monastiche che hanno mantenuto ininterrotta la consuetudine dell’accoglienza agli ospiti, questa si svolge oggi secondo modalità più spiccatamente «alberghiere», pur senza tradire lo spirito originario che le ha generate. Ma proprio per questo l’imperativo etico di Cristo attende di incarnarsi in forme nuove di esercizio. Molte delle quali, peraltro, sono sotto gli occhi di noi tutti.

Mi limito a ricordarne due in modo particolare. La prima, di carattere più generale e «pubblico» riguarda l’accoglienza agli immigrati. Non è questa la sede per affrontare un simile problema, ma è chiaro che lo spirito che deve animarla non può essere quello di una precostituita chiusura bensì, al contrario, quello di una fondamentale apertura all’altro. Anche se questo dovrà confrontarsi con oggettive possibilità o disposizioni legislative, queste dovranno essere sempre improntate a compiere il maggior sforzo possibile per garantire la fruizione di quei beni (terra, lavoro, casa, ecc.) che non possono essere gelosa ed egoistica prerogativa di una nazione.

La seconda modalità, più personale, segno quasi di una ferialità del quotidiano è quella che molti movimenti stanno portando avanti con la prassi di periodiche accoglienze, soprattutto per bambini vittime dei danni delle guerre o di catastrofi naturali. Anche questa è un’ospitalità in qualche modo «organizzata», ma costituisce un modo nuovo di esprimere la carità nei confronti di vittime innocenti del male, soprattutto se provocato dall’uomo. In tal senso, anzi, è interessante notare come tale prassi esuli dall’ambito strettamente cristiano essendo ampiamente diffusa anche tra chi non condivide in alcun modo la fede cristiana.

Forse, anche in questo sono ravvisabili quei semi del Verbo (spermata tou Logou) di cui parla Giustino (40), segno di perenne speranza e presenza dello Spirito nella storia dell’uomo.


Note

(1) Tale minaccia era particolarmente avvertita nei confronti delle donne cananee, perché, proprio in virtù, dei «matrimoni misti», queste avevano introdotto culti idolatri in Israele intaccandone la purezza della fede. Tale tentazione, dalla quale non fu immune lo stesso re Salomone (cfr. I Re 1-8), diede esito, nella legislazione post-esilica di Esdra, ad una specifica proibizione del matrimonio di un israelita con donne straniere e allo scioglimento di quelli già contratti (Esd 10).

(2) Cfr. Gn 19,2;24,25-32; Gd 15,19-20; 2 Sam 12,4; Gb 31, 2.

(3) A. BONORA, Lo «straniero» in Deuteronomio, in «Parola, Spirito e Vita», n. 27 (1993) 26-28;

(4) Dt 25,5; Gb 15,9; Is 61,5; 25,15; Ger, 30,8; 51,51; Ez 7,2-11; 11,9.

(5) Dt 23,21; 14,21; 15,3.

(6) Dt 14,29; 16, 11.14; 26,11-12.

(7) Cfr. ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO, Carta d’identità dell’Ordine, Curia Generalizia, Roma 1998, p. 2.2.3.

(8) Si tratta di una toccante leggenda di cui ci parla il poeta latino Ovidionelle Metamorfosi. Un giorno Hermes e Zeus si travestirono da mendicanti per andare sulla terra a vedere come vivevano gli uomini. Ma questi rifiutarono di accoglierli usando modi rudi e scortesi. Solo due poveri anziani, Filemone e Bauci, li accolsero nella loro povera capanna e condivisero con loro il proprio povero pasto con animo lieto. A questo punto gli dei si manifestarono e trasformarono in un tempio d’oro la capanna chiedendo quale fosse il loro desiderio più grande. I due anziani coniugi chiesero di poter rimanere sempre insieme a servirli nel tempio. Cosa che avvenne morendo contemporaneamente ed essendo trasformati l’uno in quercia e l’altra in tiglio, con i rami intrecciati tra loro.

(9) Gn 18, 1-16. In tale brano potremmo rinvenire addirittura un vero e proprio parallelo letterario nel racconto della visita che i tre dei greci, Zeus, Posidone ed Hermes fanno a Ireo e, dopo averne ricevuto ospitalità, gli promettono un figlio, Orione. La narrazione biblica e il mito greco potrebbero dipendere, con modalità che non conosciamo, da un comune substrato tradizionale (G. VON RAD, Genesi, Paideia, Brescia 1978, p. 269).

(10) In tal caso il primo riferimento, indubbiamente è quello a Gn 18,1-16 ma non è esclusa l’allusione ad altre tradizioni circolanti tra i destinatari a cui l’autore della lettera si rivolge.

(11) Non a caso vi è un incedere quasi liturgico nel racconto di Abramo alle querce di Mamre: si prostra (culto), prepara il vitello e il latte (offerta), crede alla promessa (fede), li supplica di non distruggere Sodoma (orazione).

(12) Cfr. Lv 16,29 18,26; 19,10.33

(13) Mi limito a riportare, tra tutti, un brano di Gregorio di Nissa: «Il Verbo, essendosi unito all’uomo, prese in lui tutta la nostra natura, affinché, per questa unione alla divinità, tutta l’umanità fosse divinizzata in lui e tutta la massa della nostra natura fosse santificata con la prima» (Adv. Apoll 15, PG 45, 1152c).

(14) Ormai è assodato che il tema della “grotta” nasce col Protovangelo di Giacomo, scritto verso la fine del il secolo. Ma se scompare la grotta l’interpretare con “mangiatoia” il termine greco phartne fa propendere per l’ipotesi della “stalla”. L’idea del nascere “per strada”, così, non solo assai più plausibile ma è anche consona al tema degli eventi itineranti così tipico di Luca. In realtà il termine phatne indica anche la sacca che veniva deposta sul dorso del mulo nel quale si poneva gli oggetti di uso comune e il cibo. Per cui diventa non solo verosimile ma anche suggestivo che Maria abbia posto il bambino in questa mangiatoia-sacca, lui che un giorno sarebbe stato il “pane di vita”, nel “villaggio del pane” (=Bet-lehern) nascendo per strada (cfr. G. I. GARGANO, I vangeli dell’infanzia, EDB, Bologna 2004, pp. 11-14).

(15) Ovviamente tale sostantivo deve inteso in senso propriamente biblico, cioè non solo come colui che non ha, ma come colui che non è, che non ha peso sociale, che è emarginato, che patisce l’ingiustizia, che non ha voce. La triplice categorizzazione scritturistica dell’orfano, della vedova e dello straniero prescinde infatti dalle effettive condizioni economiche che potevano anche non essere precarie. La loro precarietà era più esistenziale che economica (cfr. A. GELIN, Il povero nella Sacra Scrittura, Sussidi Biblici n. 32-33, 1991).

(16) Tale simbolizzazione scenica, del resto ripropone quanto già sant’Ambrogio affermava: «In officiis hospitalibus omnibus humanitas impertienda est…., ne tu suscipias hominem, suscipias Christum. Licet in hospite sit Christus, quia Christus in papere est, sicut ipse ait» (AMBROGIO,De officiis, lib. 11, 107).

(17) Verosimilmente il loro elenco, come oggi lo riportiamo risale ai secc. XII e XIV quando costituiva un comune insegnamento tramandato oralmente. Dopo il concilio di Trento esso venne ufficialmente codificato nei catechismi, soprattutto ad uso della prima confessione e comunione.

(18) Cfr. quanto già detto alla nota 10.

19) Cfr. A.P. FRUTAZ, Ospitalità in: E ANCILLI (a cura di), Dizionario enciclopedico di ospitalità, Città Nuova, Roma 1992, pp. 1792-1793.

Didachè, XIII, 1-5 in A. QUACQUARELLI (a cura di), I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 1984. Prima lettera di Clemente ai Corinti 0.10,7; 11,1; 12,1 (ibid.). ERMA, Il Pastore, Precetto VIII, 10; Similitudine VIII, 10,3 (ibid). ARISTIDE, Apologia, t15 (Corpus apologeticum, IX, 344-348).

(24) CIPRIANO, Epistulae n. 7 (PL 4, 196).

(25) TERTULLIANO, De praescriptione haereticorum, n. 29 (PL 2, 9).

(26)AMBROGIO, De Abraham 1, 5,32 (PL 14, 435); De Officiis 2, 103 (PL 16, 131); SANT’AGOSTINO, Sermones 355, 1, 3 (PL 39).

(27) Cfr. A. CASERA, L’ospedale e l’assistenza ai malati nel corso dei secoli, Ed. Salcom, Brezzo di Bedero 1994.

(28) Il fuoco di Sant’Antonio altro non è che un malattia causata dall’herpes zoster e caratterizzata da forti dolori ed eritema cutaneo a fascia. La sua etimologia popolare non è chiara. Secondo alcuni farebbe riferimento alla iconografia che a volte raffigura sant’Antonio abate con una fiamma in mano (riferita in realtà alla leggenda agiografica del fuoco strappato al demonio e donato all’uomo), secondo altri all’ardore delle tentazioni sessuali da lui superate nel deserto e delle quali ci parla Atanasio nella biografia del santo.

(29) Riportato da G. COSMACINI, Lebbrosario, Lazzaretto, Ospedale, in «Missione Salute», n. 2 (1993), 48.

(30) Cfr. La Regola di San Benedetto e le regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Fondazione Lorenzo valla/Mondadori, Milano 1998, p. 360.

(31) Questo in realtà aveva anche un secondo scopo, cioè quello di evitare gli «inganni del demonio», che nella persona dell’ospite potevano celarsi (Sancti Benedicti regula monasteriorum, a cura dii. SCHUSTER, Pia Società San Paolo, Alba 1945, p. 313).

(32) Proprio per tale fondazione cristologica, il precetto di accogliere gli ospiti è presente in quasi tutte le regole monastiche: Pacomio, Praecepta, 51-54; Regola di san Basilio, 32-33; Regola dei quattro santi Padri, 2, 36-42; Seconda Regola dei Padri, 14-16; Regola di Cesario per le Vergini, 38; 40; Vitae Patrum Jurensium 172 (tutti citati da G. HOLZHERR, La Regola di San Benedetto, Piemme, Torino 1992, p. 387).

(33) Ibidem.

(34) La menzione di un vero e proprio «voto di ospitatiti» compare per la prima volta nel Breve Romani Pontificis di Clemente VIII (1596), cioè dopo quasi mezzo secolo dalla morte del santo, dopo che l’ordine si era già diffuso in gran parte d’Europa. La citazione non è delle più nobili in quanto è inclusa in una disposizione che consente agli Ordinari dei luoghi di espellere i frati giudicati indegni e «ab emisso per eos hospitalitatis voto absolvere» (G. RUSSOTTO, Origine ed evoluzione sotrica del voto di ospitalità dei Fatebenefratelli, Ufficio Formazione e Studi dei Fatebenefratelli, Roma 1978, p. 36).

(35) II Castro, primo e più autorevole biografo del santo, dice che il santo «fu preso per pazzo» (F DE CASTRO, Hiistoria de la vida y sanctas obras de Juan de Dios, Granada 1585), anche sei successivi studiosi, sopratutto degli ultimi due secoli, danno diverse interpretazioni dell’evento, optando chi per una semplice simulazione o espressione parossistica di uno stato d’animo, chi per un effettivo disordine mentale (cfr. G. RUSSOTTO, San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Ufficio Formazione e Studi FBF, Roma 1969, vol. I, pp. 62-64). Sia l’una che l’altra interpretazione ovviamente nulla tolgono alla genuinità della conversione e alla santità del successivo percorso esistenziale.

(36)Il Castro ha riportato fedelmente le parole del santo: «Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione e servirli come desidero io» (E. DE CASTRO, op. cit., cap. IX).

(37)Sono sostanzialmente quelle fissate dal can. 844 §§ 3-4 del Codice di Diritto canonico e dall’enciclica di Giovanni Paolo II, Ecdesia de Eucaristia, nn. 45 e 46.

(38) Sono escluse sostanzialmente quelle delle Chiese nate dalla Riforma alle quali la Chiesa Cattolica non riconosce la piena validità sacramentale per defectus ordinis.

(39) Si tratta della Dichiarazione Congiunta tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale circa la dottrina della giustificazione (Gemeinsame Erklärung) firmata il 31 ottobre 1999 ad Augsburg, in Germania, dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Tale dichiarazione pone fine a cinque secoli di reciproche incomprensioni su un problema che è stato il punto di partenza dottrinale della riforma luterana e del successivo allontanamento tra le due Chiese.

(40)GIUSTINO, II Apologia 13, 3 (PL 6).


* Docente di Teologia morale alla Facoltà teologica di Sicilia. - Palermo. Le riflessioni qui presentate nascono da una duplice contingenza esperenziale. La prima fa riferimento a lunghi anni di frequentazione della foresteria monastica di Camaldoli, la seconda trae spunto dall’aver operato per circa vent’anni tra i Fatebenefratelli che professano, nell’ospitalità, il loro quarto voto religioso.

(da Vita Monastica, n. 233, Gennaio-marzo 2006)

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Dialogo ecumenico

Spiritualità e mistica: frontiere esigenti

di Andrea Pacini

Il dialogo della spiritualità è formalmente riconosciuto come un livello importante attraverso cui si è chiamati a sviluppare il dialogo interreligioso. A questo esorta il documento Dialogo e annuncio. Al dialogo della spiritualità sono riconducibili, tra le altre, le iniziative promosse dall’Interfaith Monastic Dialogue negli Stati Uniti o, a livello locale, il dialogo orante attuato dai monaci trappisti di Tibhirine con i membri di una confraternita sufi algerina, di cui rimane memoria nei loro scritti.

Tuttavia, accanto a tali esperienze di alto livello, non si può non notare la diffusione di un generico richiamo al dialogo a partire dall’esperienza spirituale che presenta non poche ambiguità: spesso prende infatti la forma di una sorta di invito al superamento della dottrina che divide, a favore di un incontro a un livello più profondo, spesso denominato "mistico". Ma proprio sulla mistica occorre un chiarimento.

In effetti una corretta comprensione del dialogo della spiritualità rimanda certamente all’esperienza religiosa vissuta dai seguaci delle diverse tradizioni religiose e rinvia al ruolo della mistica come ambito di dialogo. Per muoversi in tale prospettiva occorre essere consapevoli che la dimensione mistica rappresenta il nucleo fondamentale di ogni tradizione religiosa specifica.

In quanto tale, il suo concetto generale dovrebbe piuttosto essere declinato nell’accezione plurale di "mistiche": proprio perché la dimensione mistica svolge il ruolo di riferimento esistenziale fondante e di orientamento fondamentale dell’esperienza religiosa proposta dalle diverse tradizioni, ogni religione ha una specifica espressione mistica, che riceve senso e conferisce senso all’interno della religione specifica.

Questa prima precisazione è fondamentale, perché riconduce la mistica alla sua realtà più vera: quella cioè di esprimere sul piano dell’esperienza religiosa vissuta l’orientamento più profondo sotteso alla specifica tradizione religiosa praticata.

Nello stesso tempo viene corretta una possibile interpretazione erronea della mistica, quella cioè di essere una sorta di religio perennis (religione perenne), che come un fiume carsico scorre nella vita spirituale dell’umanità ed emerge concretamente nelle religioni storiche. In effetti, nel rapporto religione/mistica è la religione specifica che ha la priorità: quest’ultima con la sua dottrina e i suoi precetti (spirituali e morali) definisce la visione di Dio (o Realtà assoluta), del mondo e della realtà, nonché l’orientamento dell’uomo in rapporto alla globalità dell’esistente, e quindi definisce l’orientamento mistico.

Le mistiche esprimono quindi la tradizione religiosa di riferimento; per questo si possono suddividere almeno in due grandi categorie rispetto alle religioni di cui sono espressione: le mistiche interpersonali e le mistiche fusionali.

Le mistiche interpersonali esprimono l’esperienza spirituale nelle cosiddette religioni profetiche (ebraismo, cristianesimo, islam), caratterizzate – sia pure con differenze tra loro – dalla fede in un Dio unico e "personale", con il quale l’uomo è chiamato a sviluppare un rapporto interpersonale, anche se le modalità e il termine ultimo di tale rapporto differiscono per le tre religioni.

Le mistiche fusionali sono espressione delle grandi religioni orientali (hinduismo, buddismo) la cui finalità è far compiere al soggetto l’esperienza della non dualità, ovvero di sperimentare la propria coincidenza con il "tutto esistente" (la realtà assoluta) in cui la consapevolezza individuale si annulla. Si tratta di due orientamenti spirituali molto diversi e ci si può chiedere fino a che punto esprimano una stessa esperienza: si tratta di una questione cui può rispondere solo un dialogo della spiritualità assunto in modo rigoroso.

All’interno delle cosiddette religioni profetiche occorre poi notare un accento forte sulla dimensione morale, che crea un campo di tensione con l’esperienza mistica. Nell’ebraismo la mistica cabalistica si è sviluppata in tensione con l’insegnamento rabbinico tradizionale, più preoccupato di offrire una formazione morale e religiosa di tipo normativo.

All’interno dell’islam ortodosso ufficiale la mistica (il sufismo) ha una collocazione problematica per almeno due motivi: per la possibile relativizzazione in termini di superamento del ruolo della legge (la shari’a), considerata mediazione ineludibile per attuare la sottomissione a Dio in cui consiste il nucleo della religione musulmana; e per l’orientamento finale che i maestri sufi propongono, ovvero l’esperienza dell’unione con Dio. Questo concetto è assai poco condiviso all’interno dell’ortodossia ufficiale, che radicalizza la categoria di tawhid, unicità, per la quale non si può definire il rapporto dell’uomo con Dio, assolutamente trascendente, nei termini di "unione".

Occorre infine evidenziare come all’interno del cristianesimo la mistica riceva un’accezione propria, in quanto si presenta come mistica cristologica: infatti coincide con l’esperienza stessa della fede cristiana, in cui "morale" e "mistica" sono funzioni interdipendenti dell’unica caritas. Ma la caritas, prima di essere esperienza morale e spirituale dell’uomo, è la stessa identità (natura) del Dio uno e trino, che precede ogni risposta ed esperienza umana e ne costituisce la condizione di possibilità («Dio ci ama per primo»).

La mistica è cristologica perché trova in Cristo il suo luogo personale di manifestazione e di esperienza: in lui, vero Dio e vero uomo, si attua in sommo grado la comunione tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo. Propriamente parlando, la mistica cristiana coincide con la persona di Gesù, che nella sua unicità è mediatore universale della "comunione" tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio. Qui è l’essenza del mistero cristiano.

La mistica cristiana è dunque cristologica, perché implica la mediazione ineludibile di Cristo ed è suo "dono", e perché consiste nella trasfigurazione in Cristo della vita personale dei credenti, cioè assumere il pensiero, i sentimenti, l’amore, la volontà di Cristo. Ne consegue un rapporto indissolubile tra mistica e morale, e tra mistica e storia in prospettiva escatologica.

Poste queste troppo sintetiche precisazioni, nel considerare il rapporto tra le diverse mistiche in vista del dialogo interreligioso, occorrerà evitare con cura sia il sincretismo, cui rimanda ad esempio il concetto di religio perennis sopra menzionato, sia l’esclusivismo. Il sincretismo confonde ciò che è generale con ciò che ha valore supremo, ciò che è comune con ciò che è specifico, scambiando gli aspetti comuni con il sostrato ultimo. In definitiva finisce per dissolvere le identità delle diverse religioni con il rischio di "inventare" espressioni religiose nuove e quanto mai vaghe, di cui la galassia delle varie forme religiose riconducibili alla New Age sono un possibile tipo di espressione accanto ad altre di ispirazione esoterica.

L’esclusivismo è l’errore opposto, che implica il considerare le mistiche non cristiane in netta opposizione con la fede cristiana, vedendone solo gli elementi di differenza e sottoponendoli a un giudizio puramente negativo.

Si tratterà invece di valorizzare, pur nella loro differenza, gli orientamenti mistici presenti nelle diverse tradizioni religiose per avviare a partire da essi un dialogo di scambio e di riflessione sulle reciproche esperienze spirituali, verificandone la sintonia con i valori evangelici e avendo, da parte cristiana, il criterio cristologico come elemento fondamentale di valutazione e di discernimento.

In questa prospettiva il dialogo della spiritualità è certamente la frontiera più affascinante e significativa del dialogo interreligioso, ma proprio per questo rappresenta il livello più impegnativo e più delicato in cui il dialogo può spingersi, rispetto al quale occorre evitare ogni tipo di banalizzazione.

(da Vita Pastorale, n. 2, 2007)

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Nei rapporti con l’ebraismo e l’islam

Sincero rispetto e lucido realismo

di Enzo Bianchi

Le tre religioni professano il monoteismo e si rifanno tutte e tre al Dio di Abramo. Il cristianesimo, però, presenta dei tratti che non sono ascrivibili al monoteismo delle altre due confessioni di fede. È allora ovvio che il dialogo a livello teologico sia asimmetrico e difficile, ma va incentivato tra i credenti il confronto sui temi che interessano l’umanità.

Il monoteismo, cioè la confessione di un Dio uno e solo, è un dato innanzitutto ebraico, ma poi, con il sorgere del cristianesimo e dell’islam, è stato declinato al plurale ("i monoteismi") a indicare le tre grandi religioni ebraica, cristiana e islamica.

È vero che esse riconoscono un Dio unico che identificano con il Dio di Abramo e di conseguenza tutti i loro credenti si sentono figli di Abramo, ma va detto con chiarezza che il cristianesimo presenta dei tratti che non sono ascrivibili al monoteismo delle altre due confessioni di fede.

1 Innanzitutto perché i cristiani non confessano solamente un Dio unico, ma un Dio fatto uomo in Gesù Cristo: Dio non è piu il "distinto", il "Santo" e quindi non uomo, non mondano, ma è invece Dio fatto carne, umanizzato nella storia e sulla nostra terra in Gesù, suo Figlio. Di conseguenza, i cristiani confessano Dio quale unico e uno, ma anche comunione (koinonia) del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Si potrebbe quindi porre la domanda: può il cristianesimo dirsi ancora un monoteismo? Sì, ma con delle specificazioni che mettono in evidenza la sua singolarità rispetto a ebraismo e islam.

2 Una seconda osservazione deve chiarire che proprio l’eredità della fede condivisa è diventata, come spesso accade nelle famiglie, motivo di gelosia, di opposizione e perfino di violenza. Ciascuno dei tre è stato persecutore e perseguitato dall’altro monoteismo – certo in misure molto diverse, anzi sproporzionate, e da valutarsi storicamente in modo differenziato, perché gli ebrei hanno perseguitato i cristiani solo nei primi decenni del cristianesimo – o comunque si è sempre trattato di un rapporto conflittuale e di rivalità. Così, la storia dei tre monoteismi è purtroppo segnata da opposizioni e violenze reciproche e quindi il dialogo intrapreso da alcuni decenni abbisogna di una "purificazione della memoria" e di una volontà di riconciliazione che ancora oggi paiono assai difficili e dense di contraddizioni.

Cristiani verso gli ebrei...

Quale atteggiamento si esige allora da parte dei cristiani nei rapporti con gli altri due monoteismi? Con l’ebraismo, innanzitutto. Un primo problema sorge con la definizione del partner dei cristiani in questo confronto: chi è l’Israele con cui tessere il dialogo? Infatti, è risaputo che l’ebraismo si presenta come una realtà complessa ed eterogenea.

Certamente è l’Israele credente, quello che l’apostolo Paolo chiama «l’Israele di Dio» (Gal 6,16), quello che noi possiamo chiamare ancora "popolo di Dio" in alleanza con lui. Ma attenzione, a rigor di termini, gli ebrei dell’epoca successiva alla nascita di Gesù non sono "fratelli maggiori" perché sono figli dell’Antico Testamento come lo sono i cristiani.

La Chiesa non si è sostituita al popolo di Israele in alleanza con Dio, quindi non è figlio minore, né figlio adottato: potremmo dire che ebrei e cristiani dei popoli dell’era volgare sono due "figli gemelli" dell’antica alleanza, due interpretazioni diverse dell’unico patto. Tra di essi, come scriveva già l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani (11,11-15), regna gelosia ed emulazione, ma occorre che questa sia vissuta non gli uni contro gli altri bensì come "zelo buono" per l’unico Dio vivente e per la promessa che egli deve ancora portare a pieno compimento.

Sì, da parte dei cristiani a volte c’è il rischio di "giudaizzare", conducendo con gli ebrei un tipo di dialogo che diminuisce e svuota la singolarità cristiana. Ora, l’Antico Testamento ci unisce, Gesù "ebreo per sempre" ci unisce e tuttavia, nel contempo, ci divide, perché per noi cristiani non è solo un profeta o un rabbi, ma l’uomo che ha "narrato" (exeghesato, Gv 1,18) il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, l’uomo che è la stessa parola di Dio fatta carne. Oggi, ed è questa la novità, alcuni grandi rabbini o studiosi rileggono da ebrei la vicenda di Gesù di Nazaret e dissipano l’antico e tradizionale disprezzo verso di lui. Sarà possibile intraprendere un dialogo veramente interreligioso, cioè un dialogo che riguardi la fede di Israele e della Chiesa per condurre insieme una ricerca attorno all’identità di Gesù di Nazaret?

Certo, sappiamo che questo dialogo non è teologicamente simmetrico: gli ebrei possono leggere l’Antico Testamento senza i cristiani – cosa che noi cristiani non possiamo fare – ma anche questa asimmetria può avere una dinamica nella pratica dell’ascolto cordiale reciproco. Il dialogo, infatti, resta necessario e non vi è spazio all’autoreferenzialità dell’«io non ho bisogno di te». L’essere fratelli "gemelli" ci chiede di accedere a una fase nuova del dialogo in cui ebraismo e cristianesimo, nati dallo stesso ceppo, imparino a percepirsi capaci di interrogarsi l’un l’altro.

...e verso l’islam

Per noi cristiani l’islam resta un "enigma": come può esserci per volontà di Dio una "nuova profezia" dopo Gesù, unico e definitivo mediatore e rivelatore di Dio? L’islam resta una realtà che non si può giustificare a partire dalla fede cristiana, una realtà esterna e, in un certo senso, non necessaria ed estranea. Non a caso, alcuni padri della Chiesa, da Giovanni Damasceno in poi, lo hanno letto come una "eresia cristiana".

Ma oggi noi cristiani riusciamo forse a leggere nell’islam una profezia anti-idolatrica, che ha portato la fede monoteistica alle genti attraverso la lotta contro l’idolatria presente in chi non conosce il Dio unico. Tuttavia le difficoltà del dialogo – dovute alla storia vissuta, alla non contemporaneità tra Paesi musulmani e Occidente, alla presenza aggressiva di componenti fondamentaliste nel mondo musulmano – permangono e stiamo solo muovendo i primi passi: giustamente monsignor Henri Teissier, arcivescovo di Algeri, ha osservato che nel dialogo con l’islam siamo all’età della pietra.

Anche in questo campo il dialogo, pur necessario, non è teologicamente simmetrico perché, mentre l’islam si considera continuazione autentica della rivelazione di "Gesù profeta dell’islam" e giudica il cristianesimo esistente come un’alterazione del messaggio evangelico, per noi cristiani tutto è stato detto e rivelato in Gesù Cristo, Signore e salvatore dell’umanità. Quale dialogo, allora, con l’islam? Certo, il dialogo teologico è molto difficile e va pensato come «ricerca sulla rivelazione di Dio» da entrambe le parti, ma per giungere a questo occorre un dialogo franco, rispettoso, che voglia essere un autentico servizio all’umanità, alla giustizia, al rispetto di ogni essere umano, alla pace.

Occorre cioè un dialogo che si nutra della "ragione", come ha richiamato Benedetto XVI, un dialogo che accetti il confronto sui temi che interessano l’umanità, condotto da credenti nel Dio unico che si propongono di camminare insieme sulle vie dell’umanizzazione. La libertà di professare la propria fede, la laicità delle istituzioni politiche, il confronto che rifugge la violenza e rigetta il terrorismo, la capacità di rileggere insieme la storia sono tutti temi sui quali oggi esistono differenze e anche conflitti, ma essi devono diventare nuove occasioni offerte ai credenti per mostrare, una volta spogliato dalle proiezioni perverse che alcuni ne fanno, il volto autentico del Dio unico e vivente.

Certo, con l’islam noi cristiani dovremmo comunque avere l’atteggiamento e i sentimenti di Gregorio VII che, nell’XI secolo, così scriveva ad Anzir, re della Mauritania: «Non c’è nulla che Dio approvi più del fatto che un uomo ami un altro uomo e che ciò che uno non vuole sia fatto a lui, non lo faccia a un altro. È questo amore, dunque, che noi cristiani e voi musulmani dobbiamo avere tra di noi in modo speciale, più che nei confronti di altre genti, perché crediamo e confessiamo, sebbene in modo diverso, un solo Dio che ogni giorno lodiamo e veneriamo come creatore dei secoli e reggitore di questo mondo» (PL 148, 450).

(da Vita Pastorale, 2 2007)

Bibliografia

Khoury A.T. (a cura di), Dizionario comparato delle religioni monoteistiche. Ebraismo - Cristianesimo - Islam, Piemme 1998, Casale Monferrato; Fumagalli P.F. (a cura di), Fratelli prediletti. Chiesa e popolo ebraico, Mondadori 2005, Milano; Caspar R., Pour un regard chretien sur l’Islam, Bayard 2006, Paris.

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Martedì, 05 Dicembre 2006 01:18

Hussar, profeta del dialogo (Giuseppe Caffulli)

Hussar, profeta del dialogo
di Giuseppe Caffulli *

Nevé Shalom è un pugno di case linde adagiato sul cocuzzolo di una collina, in mezzo agli ulivi e ai campi tra Gerusalemme e Tel Aviv. L’8 febbraio all’Oasi della pace (questo il significato del doppio nome in ebraico e in arabo: Nevé Shalom/Wahat al-Salam) non è un giorno qualsiasi. È il giorno in cui si fa memoria della morte di padre Bruno Hussar, il fondatore. Quello di quest’anno è un anniversario ancora più sentito, perché ricorre il decennale. E nella Dumia, il Santuario del Silenzio, la cupola bianca dove gli uomini di tutte le religioni possono pregare Dio, gli abitanti di questo singolare condominio solidale ricorderanno il mandato spirituale lasciato da quel frate domenicano ebreo definito dal cardinale Carlo Maria Martini «un profeta di riconciliazione e pace in Israele».

Ma chi è stato Bruno Hussar, e quale è oggi la sua eredità?

Nato in Egitto nel 1911 da padre ungherese e madre francese, entrambi ebrei non praticanti, frequentò al Cairo il liceo italiano. All’età di 18 anni si trasferì in Francia, conseguendo a Parigi la laurea in ingegneria. Nel dicembre del 1945 entrò nell’ordine dei domenicani, diventando sacerdote nel 1950. Poi la svolta decisiva: i superiori gli affidarono il compito di aprire a Gerusalemme un centro di studi sull’ebraismo (dal cui tronco nascerà la Casa di sant’Isaia, laboratorio ante litteram del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo). In quel periodo si va sempre più precisando in Hussar una certezza profonda: l’appartenenza a Israele pur nella nuova identità cristiana.

Oggi i tempi sono mutati e si guarda con simpatia al dialogo tra ebraismo e cristianesimo. In Israele esiste una comunità cattolica di lingua ebraica che si propone come «ponte» (non senza difficoltà e incomprensioni) tra mondo ebraico e mondo cristiano. Ma a quei tempi le cose erano differenti. Negli ambienti cristiani, scrive Hussar nel libro autobiografico Quando la nube si alzava..., gli ebrei erano ancora perfidi, ladri e bugiardi.

Gli anni del Concilio portano grazie a Dio una ventata di novità. Hussar affianca il cardinale Agostino Bea nell’elaborazione del «testo ebraico», divenuto poi il quarto paragrafo della Dichiarazione Nostra Aetate sull’atteggiamento della Chiesa verso le religioni non cristiane. Il placet a quel testo, il 20 ottobre 1965, non fu né facile né scontato da parte dei Padri conciliari. Il contributo di Hussar all’approvazione del documento fu tale che due settimane dopo ricevette la cittadinanza d’Israele che aveva atteso per anni.

Nel turbolento Medio Oriente scoppiava pochi anni dopo il sanguinoso conflitto dei Sei Giorni (1967), che aumentava ancora di più la distanza tra mondo arabo e mondo israeliano.

Come segno concreto di pace e di riconciliazione tra i due popoli che si fronteggiano come nemici in Terra Santa, padre Bruno comincia a coltivare il sogno di Nevé Shalom, un villaggio nel quale ebrei e arabi palestinesi possano vivere in pace e amicizia. A partire dal 1974 l’Oasi della pace comincia a prendere forma.

«Il suo principale merito - commenta Bruno Segre, presidente dell’Associazione Amici di Nevé Shalom - è quello di essere diventato motore di un importantissimo mutamento di mentalità. Gli intoppi sul cammino non mancano, ma il villaggio resiste come modello di convivenza ragionevole e secolarizzata fra persone che si identificano con tradizioni religiose, culture, nazionalità diverse e conflittuali».

E dell’eredità spirituale di padre Hussar, che cosa resta? La risposta va cercata certamente a Nevé Shalom, simbolo di una pace possibile, ma ancora di più in un rimando costante a Dio e alla preghiera, nella consapevolezza che i costruttori di pace devono chiedere con insistenza il dono dell’ascolto e della comprensione. Anche nei tempi bui (e Dio solo sa quando finiranno i tempi bui per la martoriata Terra Santa), padre Bruno ha insegnato ai suoi figli a restare saldi, come sentinelle che scrutano l’aurora. A dieci anni dalla morte, accanto alla bianca Dumia, padre Bruno veglia ancora sulla sua utopia diventata realtà. In una riflessione sul processo di pace nel Vicino Oriente, dopo gli accordi di Oslo del 1994, annotava: «Gli estremisti dei due campi fanno già di tutto per frustrare gli sforzi verso la pace. La nostra esperienza ci ha insegnato che non bisogna rinunciare a sperare».

* Direttore della rivista Terrasanta

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Reciprocità: moschee per chiese?
di Giuseppe Scattolin

Nei nostri rapporti con i musulmani c'è, a mio parere, o molta ignoranza o molta ingenuità. In ogni caso, mi pare che pochi si rendano conto che essi esigono da noi tutti i diritti senza concedere nulla nei loro paesi. Le nazioni islamiche risultano, infatti, in fondo alla lista per quanto riguarda i diritti umani e noi chiudiamo gli occhi su tutto... Si sa bene che nell'Arabia Saudita nostro grande amico in mammona-petrolio - non solo non c'è libertà religiosa (per cui, un musulmano che volesse cambiare religione viene sistematicamente messo a morte), ma è addirittura proibita qualsiasi manifestazione religiosa non islamica. Al punto che, se uno celebra la messa, anche se nel segreto della sua casa, può essere messo in prigione ed espulso. Ma tutto ciò è sistematicamente ignorato dai nostri politici e dai nostri maitre-à-penser televisivi. Possibile che non ci si renda conto che stiamo noi stessi aprendo il nostro paese al più retrogrado oscurantismo religioso, cioè quello islamico? È tempo che si cominci a dare l'allarme. Osi tratta di vera parità - e, quindi autentica reciprocità - o non si-tratta. Punto e basta!

Giulio Crescetino - Napoli


"Reciprocità vera". È un’espressione – quasi una invocazione! – che ricorre spesso, soprattutto in occasione di incontri con il mondo islamico. In essa si avverte tutta l’amarezza di chi si sente preso in giro da tante belle parole, proclamate anche da persone autorevoli, ma che, in pratica, lasciano il tempo che trovano.

Pertanto, la reazione normale è quella di sbattere i pugni sul tavolo e dire: «O vera reciprocità, oppure si chiude... E "gli estranei" se ne tornino a casa loro, ché noi stiamo meglio senza di loro!».

Posta in questi termini, la questione sembra molto semplice. Non si tiene conto, però, che la realtà - soprattutto quella umana - è molto più complessa. Non si tratta di condurre una compravendita: io ti do una moschea, se tu mi dai una chiesa.

Innanzitutto, ognuno vede la realtà dal proprio punto di vista. Se noi, in Europa, ci possiamo lamentare dei "fastidi" che la presenza dei musulmani causa nelle nostre società, dovremmo, per lo meno, ammettere che anche essi hanno delle rivendicazioni nei nostri confronti, tenendo presente il passato coloniale. Potrebbero anch'essi, quindi, sentirsi in diritto di sbattere i pugni sul tavolo. Ma a suon di pugni sbattuti non si va molto lontano. Ed è facile immaginare che i pugni, prima o poi, possano facilmente cambiare direzione: dal tavolo alla faccia dei contendenti!

Il problema che sta alla base della questione della reciprocità è, in realtà, molto più profondo e serio. Si tratta della questione dei diritti umani. Dobbiamo operare insieme per creare società umane pluraliste, in cui le differenze non sono eliminare, marginalizzare e combattere (come lo furono nel passato), bensì accolte e rispettate. E, questo, nel discorso che va molto al di là delle contrattazioni tipo "una moschea in cambio di una chiesa". Occorre, invece, promuovere all'interno di tutte le società una vera "rivoluzione culturale" (ben diversa da quella ideo-politico-partitica di Mao Tsedong, la "grande guida" della Cina moderna).

Una rivoluzione culturale degna di questo nome richiede, innanzitutto, un serio lavoro culturale a lungo termine. I diritti umani saranno accertati e rispettati, se e quando tutte le persone delle nostre società "globalizzate" saranno formate alla loro conoscenza e alla loro pratica. La storia della nostra vecchia Europa dovrebbe insegnarci qualcosa in materia. Non bastò, infatti, ghigliottinare il re per riconoscere e dare ai cittadini francesi i loro diritti. Proprio gli autori della Grande Rivoluzione si rivelarono, alla fine, i peggiori dittatori (e quelli della rivoluzione comunista non sarebbero stati di meno).

Ma come si può realizzare una simile "rivoluzione culturale"? Molti gli ambiti di un simile impegno! In primo luogo, metterei le scuole. In Egitto, ad esempio, noi missionari occidentali abbiamo un'importante presenza scolastica, con migliaia di studenti e studentesse, nella stragrande maggioranza musulmani, che frequentano le nostre scuole; anzi, fanno la gara a iscriversi ad esse. Ma la domanda è: abbiamo maturato un vero progetto formativo per studenti e professori, in cui la dimensione dialogica è parte integrante del programma? Questo è un punto di capitale importanza, dato che le scuole sono chiamate a essere i primi luoghi di dialogo e di apertura verso gli altri, autentiche palestre e laboratori per la conoscenza e il rispetto dei diritti umani.

Oltre alle scuole, ci sono tante altre opere di promozione umana in quasi tutti gli ambiti della società. La nostra presenza in tali ambiti deve contribuire a far crescere e maturare una nuova mentalità di vero dialogo interreligioso e interculturale.

Prima di lamentarci e assumere atteggiamenti di rifiuto, dovremmo domandarci se stiamo facendo buon uso delle occasioni che ci sono offerte per creare questa nuova mentalità di apertura e dialogo a tutto campo, la sola in grado di garantire una vera reciprocità in materia di diritti umani.

Non nego che occorra agire anche a livello diplomatico e giuridico per esigere da tutti gli stati il rispetto dei questi diritti. Un'azione non esclude l'altra. Credo, tuttavia, che la vera carta vincente è da ricercare in una formazione capace di cambiare alla base la mentalità di ogni popolo e di ogni individuo, perché ogni persona esca dal "tribalismo tradizionale" e si apra a una vera mondialità, avvertita come arricchimento umano comune.

(da Nigrizia, aprile, 2005, pag. 74)

Pubblicato in Dialoghi

Condizioni per un dialogo delle culture
di Hans Küng


Molti uomini si interrogano di fronte agli sbandamenti e ai disordini odierni: sarà il XXI secolo realmente migliore del XX secolo, un secolo pieno di violenza e di guerre? riusciremo a conseguire un nuovo ordine mondiale, un ordine mondiale veramente migliore? Nel XX secolo abbiamo perduto tre occasioni per la realizzazione di un nuovo ordine mondiale: il 1918 dopo la Prima Guerra Mondiale a causa della "Realpolitik" europea; il 1945 dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello Stalinismo; il 1989 dopo la riunificazione tedesca e la guerra del Golfo a causa di mancanza di visioni.

Ma il nostro gruppo del "Progetto per un’etica mondiale" ha una tale visione, e cioè la visione di un nuovo paradigma delle relazioni internazionali, che prende in considerazione anche nuovi attori nella scena globale.

Nei nostri giorni di nuovo si fanno avanti le Religioni come attori nella politica mondiale. È vero che molto spesso nel corso della storia le Religioni hanno mostrato il loro lato distruttivo. Esse hanno fomentato e legittimato odio, inimicizia, violenza, perfino guerre. Ma in molti casi esse hanno promosso e legittimato comprensione, riconciliazione, collaborazione e pace. Negli ultimi decenni ovunque si sono rafforzate nel mondo iniziative del dialogo inter-religioso e della collaborazione delle Religioni.

In questo dialogo le Religioni del mondo hanno riscoperto che le loro proprie affermazioni etiche supportano e approfondiscono quei valori etici secolari, che sono sviluppati nella "Dichiarazione universale dei diritti umani". Nel "Parlamento delle Religioni mondiali" che si è tenuto a Chicago nel 1993, più di 200 rappresentanti di tutte le religioni mondiali hanno espresso per la prima volta nella storia il loro consenso su alcuni comuni valori, standard e atteggiamenti etici come base per un’etica mondiale, che poi nel rapporto del nostro gruppo di esperti sono stati assunti per presentarli al Segretario generale e all’Assemblea plenaria delle "Nazioni Unite". Qual è allora la base per un’etica mondiale, capace di essere condivisa da uomini e donne di tutte le grandi Religioni e tradizioni etiche?

Il "principio di umanità": "Ogni essere umano – sia uomo o donna, bianco o colorato, ricco o povero, giovane o vecchio – deve essere trattato umanamente." Questo è affermato in maniera più espressiva nella "Regola d’oro" della reciprocità: "Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso". Questi principi sono stati sviluppati in quattro ambiti centrali vitali e appellano ogni essere umano, ogni istituzione e ogni nazione ad assumersi le loro responsabilità:

  • per una cultura della non violenza e del rispetto di ogni vita;
  • per una cultura della solidarietà e di un ordine economico giusto;
  • per una cultura della tolleranza e per una vita nella veracità;
  • per una cultura della equiparazione dei diritti e di pari dignità di uomo e donna.

Proprio nel tempo della globalizzazione una tale etica globale è assolutamente necessaria. Infatti la globalizzazione di economia, tecnologia e comunicazione porta anche ad una globalizzazione di problemi in tutto il mondo, che minacciano di sommergerci: i problemi nell’ambito dell’ecologia, della tecnologia atomica e della tecnologia genetica, ma anche della criminalità e del terrorismo globalizzati. Nel nostro tempo si rende urgentemente necessario che la globalizzazione di economia, tecnologia e comunicazione sia sostenuta da una globalizzazione dell’etica. In altre parole: la globalizzazione necessita di un’etica globale, non come peso aggiuntivo, ma come fondamento e aiuto per gli esseri umani, per la società civile.

Alcuni politologi prevedono per il XXI secolo uno "scontro delle culture". Ma noi contrapponiamo a questa previsione una visione del futuro diversamente articolata; non semplicemente un ideale ottimistico, ma una realistica visione di speranza: le Religioni e le culture del mondo, in collaborazione con ogni uomo di buona volontà, possono aiutare ad evitare un tale scontro, a condizione che esse realizzino le seguenti convinzioni: nessuna pace tra le nazioni senza pace tra le Religioni. Nessuna pace tra le Religioni senza dialogo tra le Religioni. Nessun dialogo tra le Religioni senza valori etici globali. Nessuna sopravvivenza del nostro globo nella pace e nella giustizia senza un nuovo paradigma delle relazioni internazionali sulla base di valori etici globali.


(pubblicato in Teologi@Internet, Queriniana, Brescia)
Pubblicato in Dialoghi
Martedì, 21 Marzo 2006 00:20

Il dialogo nelle religioni del mondo

Il dialogo
nelle religioni del mondo

INDUISMO


La verità è una, i sapienti ne hanno definizioni diverse. (Rigveda)

Perseverando
nella devozione alla divinità, curvati e adora dove altri
s’inginocchiano, poichè dove così tanti pagano tributo di adorazione,
Dio longanime senz’altro si manifesta.

(Ramakrishna)



BUDDISMO

Si deve sempre rispetto alle religioni altrui. Agendo diversamente si fa ingiuria alla propria religione oltre che alle altrui. (...) vi sia dominio di sè, gli uni diano ascolto e rispettino la fede religiosa degli altri.

(XII editto di Asoka)

BAHA’I

O Tu, Dio di bontà, unisci tutti gli esseri, fa che le religioni si accordino, che le nazioni diventino una sola, affinchè tutti si riconoscano di una stessa famiglia e considerino la terra come un’unica patria. Fa’ che tutti vivano insieme in perfetta armonia.

(Baha’u’illàh)

CONFUCIANESIMO

Il Maestro dice: “L’uomo magnanimo non è settario (fazioso – partigiano) e mira all’universale. L’uomo meschino, ignorando l’universale, si chiude nel settarismo”.

(Confucio, Dialoghi, 2, 14)


ISLAM

 “Iddio è il Signore nostro e il Signore vostro. Noi abbiamo le nostre azioni e voi le vostre, nè vi sia disputa alcuna fra noi [islamici] e voi [ebrei e cristiani]: Iddio ci unirà tutti, chè a lui tutto ritorna”.

(Sura XLVIII)


TAOISMO

La via del cielo non conosce favoritismi; offre sempre l'occasione di essere in buoni rapporti con gli altri.

(Tao Te-Ching LXXIX).


EBRAISMO

 Dice il Signore: “Non si vanti il ricco delle sue ricchezze. Chi vuol gloriarsi si vanti di questo: di conoscermi e di sapere che io, il Signore, sono buono, giusto e retto con tutti. E di queste cose mi compiaccio”.

(Geremia, 9, 22s)


SIKHISMO

Non sono straniero a nessuno e nessuno mi è straniero. In verità sono amico di tutti.

(Guru Granth Sahib, pg. 1299)


GIAINISMO

 Ama tutti e servi tutti. Dove c’è amore c’è vita. Violenza è suicidio. Silenzio-e-autocontrollo è non violenza. Rispetto per tutti gli esseri viventi è non violenza. Non violenza è la più alta religione.

(Lord Mahavier)


CRISTIANESIMO

Davvero mi rendo conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto.

(Discorso di Pietro, Atti 18,34s)


ZOROASTRIANISMO

Fa comunione con noi, o Ahura Mazda, con giustizia, e vieni a noi vicino, di modo che i nostri pensieri che prima s’erano sviluppati separatamente, possano ora maturare insieme, fondersi e diventare sapienza.

(Gathas, Vasna)


INDIANI DEL NORD AMERICA

In questa terra, dove un dì vivevano solo gli indiani, ci sono ora uomini di tutti i colori, bianchi, neri, gialli, rossi, ma sono tutti un popolo. Che questo dovesse accadere era rinchiuso nel cuore del Grande Mistero. Perciò è giusto così. E sia pace ovunque.

(Vecchio indiano sioux)


UNITARIARISMO

Noi affermiamo e promoviamo il rispetto per l'interdipendenza di cui facciamo parte.

(Principio Unitariano)


(da Cem/Mondialità novembre 2004)

Pubblicato in Dialoghi
Venerdì, 20 Gennaio 2006 00:40

Chi semina vento... (Giuseppe Scattolin)

Chi semina vento...

di Giuseppe Scattolin


Fare i profeti è sempre stato un mestiere rischioso. Oggi che il termine "profeta" è stato banalizzato e ridotto a "futurologo", è addirittura temerario. Eppure, la futurologia va molto di moda nel nostro mondo così secolarizzato e così pieno di banali superstizioni. (Quale interessante materia di studio per gli antropologi!).

Se però "profeta" sta ad indicare uno che cerca di leggere in profondità la realtà presente, per indicare quali potrebbero essere le conseguenze di alcune premesse, allora siamo in piena tradizione biblica. In tal caso, la mia risposta è la seguente: «Il futuro dipenderà dalle premesse che insieme creiamo».

Come ho già più volte detto da queste pagine, il mondo islamico odierno ha bisogno di una seria riflessione per uscire da un atteggiamento puramente apologetico (per lo più rivolto al passato) e per assumere più seriamente le sfide che la convivenza nel "villaggio globale" umano impone a tutti. Mi riferisco, in particolare, al tema dei diritti umani fondamentali, quali una vera libertà di coscienza, l'esigenza di un'autentica giustizia sociale, e l'apertura alle altre religioni e culture. A questo riguardo, non mi stancherò mai di ripetere che non tutti i musulmani sono estremisti. Esistono pensatori musulmani che affrontano tali tematiche con serietà ed impegno, ma sono per lo più isolati, se non addirittura perseguitati ed eliminati dalle società islamiche. Ed è la prima "premessa" negativa.

Se però questi pensatori trovassero maggior sostegno, sia dentro che fuori i loro paesi di origine, allora si potrebbe cominciare a respirare un’aria più pluralista all’interno delle società islamiche. Da qui, la fondata speranza che a prevalere non sarà l’islam del tradizionale "imperialismo religioso islamico" (come personalmente preferisco chiamarlo) o dell’"islam politico" (come viene definito più correttamente), ma l’islam dei valori umani di libertà e giustizia, cioè quell’islam che dà una ragione d’essere ad un "umanesimi islamico".

Nelle società occidentali, invece, bisognerà vedere se a fare la parte del leone sarà la politica dell'"imperialismo liberista (o libertinista) finanziario" americano, tragicamente caratterizzato dall'arroganza e dalla più totale ignoranza della situazione culturale dei popoli islamici. Se sarà così, allora si sarà posta una premessa tragicamente negativa, che avrà, come conseguenza, una sempre più violenta reazione da parte dei popoli islamici, dominati da correnti estremiste e violente, che soffocheranno sul nascere ogni tentativo di rinnovamento interno. L'Iran dal post-Khomeini è lì a dimostrare ciò.

Se, invece, come ci si augura, prevarrà una politica illuminata dal rispetto dell'altro e dal sincero impegno per un apertura verso un pluralismo culturale e religioso, sostenendo persone e movimenti che si muovono in tal senso (anche se non potranno contraccambiare con i pertrodollari), allora non è da escludere la speranza che anche i popoli del mondo islamico potranno aprirsi agli altri "quartieri" del villaggio globale in spirito di fraterna collaborazione ed amicizia.

Non vorrei apparire pessimista. Ma ritengo che i recenti sviluppi della situazione mondiale abbiano avuto un segno più negativo che positivo, sia dentro che fuori i paesi islamici. Ma siamo sempre in tempo. Anzi, è necessario cambiare la nostra politica ed il nostro indirizzo culturale. Non si tratta più di domandarci se sia o meno possibile il dialogo, ma di convincerci che non esiste alternativa ad un dialogo serio ed impegnato. L’altra alternativa, infatti, sarà una terza guerra mondiale. Che, in parte, è già cominciata con la guerra scatenata dalle bande "terroriste", e che noi occidentali abbiamo alimentato con la nostra miope politica dei petrodollari.

Si tratta, quindi, d'impegnarci seriamente a creare premesse positive, certi che l'albero buono darà frutti buoni.

(da Nigrizia, gennaio 2004)

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