La misericordia e il sacrificio
di Giovanni Vannucci
Le parole: "Voglio la misericordia, non il sacrificio" (Mt 9,13) segnano un importante passo in avanti della coscienza umana, di cui purtroppo pochissimi, anche dopo duemila anni, si sono resi conto: il passaggio dalla religione del Padre a quella del Figlio. Il Padre sentito come il Sovrano assoluto, il Giudice inappellabile, che promuove i buoni e, demonizza i peccatori. La coscienza bisognosa di sacrifici espiatori, di capri sui quali riversare i peccati propri e quelli comunitari, la coscienza solare, creatrice e apportatrice di vita. L'albero da frutto dona con trasporto i suoi frutti, e la sua gioia aumenta con l'accrescersi dell'abbondanza dei frutti; non demonizza gli animali e gli uomini che ne mangiano, il suo compito è di sostentare le creature che abbisognano dei suoi doni. Così il seguace della religione del Figlio vive per distribuire la misericordia, non per innalzare altari su cui immolare delle vittime.
L'esperienza cristiana è nel faticoso e laborioso cammino che va dalla religione del Padre, del Rigore, del Giudizio irreformabile, alla religione del Figlio, che non giudica, non condanna, non colpevolizza nessuna creatura, ma con mano generosa distribuisce amore e misericordia, non spenge la fiammella che fumiga, non spezza la canna incrinata. Mosè aveva dichiarato che l'uomo è l'immagine di Dio nel creato, Cristo ci dice che il Figlio e i figli dell'uomo son chiamati a spogliarsi dal timore e dal tremore dei servi, e dischiudersi alla gioia vitale di sentirsi figli di Dio. Il volto del Padre che Gesù ci rivela riunisce armoniosamente il Rigore e la Misericordia, il rigore inteso non nel senso di una instaurazione di processi e di tribunali per eliminare il male, ma come l'intransigente ricerca di aprirsi all'infinita misericordia divina.
L'uomo che consapevolmente vive la sua missione di immagine di Dio, comincia a muoversi verso il raggiungimento della perfezione divina: "Siate perfetti e misericordiosi come il Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5,48). "Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui cui il Figlio ha voluto rivelarlo" (Mt 11,27), cioè colui che ha raggiunto la coscienza propria della religione del Figlio. Gesù si manifesta non come il Re dalla tremenda maestà, come la nostra mente avida di potere e impaurita ama rappresentarselo, ma come l'umile e il mansueto. È Gesù mansueto e umile? Se mansuetudine e umiltà dovessero significare servilismo e vigliaccheria, certo Gesù non lo é. Il mondo, in genere, intende così l'umiltà e la mansuetudine. Per Gesù la mansuetudine è uno stato spontaneo di misericordia, per cui si è incapaci di serbar rancore per cosa alcuna, o di scandalizzarsi ipocritamente di qualche cosa. La mansuetudine è per Gesù la natura del leone, non quella dell'agnello; è mansueto colui che ha in sé la capacità di non poterlo essere: il libero, non lo schiavo; il forte, non il debole; l'audace e non il pavido; Gesù in questo senso è mansueto. Ogni volta che s'incontrerà nel peccatore avvilito e disprezzato, Egli lo rialzerà.
Cosa significa l'umiltà per Gesù? L'umiltà è per Lui la coscienza dei propri limiti; è l'offerta di se stessi perché la volontà divina sia fatta nell'uomo e attraverso l'uomo; è la serena dedizione al servizio umano, sempre grande, sempre nobile, comunque sia esercitato. "Chi di voi vuole essere il primo sia l'ultimo e il servo di tutti" (Mc 10,44). L'umiltà non è che il riconoscimento della propria posizione di creatura di fronte al Creatore e alle altre creature. Di creatura, non di giudice o sacrificatore, e la misericordia è il traboccamento di riconoscenza di quanto Dio e la vita ci hanno dato.
La luce
e le tenebre
di Giovanni Vannucci
Le parole: "Dio ha così amato il mondo da inviare il Figlio unigenito, non perché giudichi il mondo ma perché sia salvo" (Gv 3, 16-17); "La luce venne nel mondo e gli uomini amarono più le tenebre che la luce" (Gv 1, 5-11), rivelano l'immenso amore di Dio e la tragica presenza nella coscienza umana di una possibilità di rifiuto. Amore sconfinato da una parte, possibilità di non accoglierlo dall'altra: tra questi due poli si svolge la dolorosa vicenda dell'umanità; la via della liberazione è nell'accettare la luce riaccesa dal Figlio nel cuore dell'uomo.
C'è il mondo, c'è Dio; dopo Cristo, il mondo non è più abbandonato a se stesso, nel suo profondo opera l'energia salvifica del Figlio come presenza che plasma e guida la materia amorfa verso le sue origini divine. Quando una coscienza umana l'accoglie, comincia ad amare e a sognare; ad amare le realtà non sottoposte al disfacimento e alla corruzione, a sognare la casa del Padre dalla quale viene e verso la quale è in cammino, e così ritrova la sua vera natura di figlia regale.
Il primo incontro con la luce di Cristo rende consapevole l'anima che la sua avventura, nella carne e nel sangue, è decisiva e definitiva. O riuscirà a fissare in se stessa la luce divina, divenendo in tal modo il veicolo della presenza redentiva del Cristo eterno e immanente; o rifiuterà di lasciarsi fecondare dalla luce, e, allora, si spegnerà come scintilla caduta nel fango. Se accoglierà la luce, sarà nell'onda dello spirito vivente e la sua vicenda nel mondo, pur incontrando un termine nella morte fisica, non si concluderà per questo, ma di ciclo in ciclo continuerà la sua corsa nell'infinito, verso la meta unica e suprema che è Dio stesso. La sua vita nel mondo, nella vita terrena e fisica, assumerà per lei il significato di una necessaria esperienza, che non si conclude nel giro angusto di una vita terrena, in un corpo di carne. «Dio amò il mondo tanto da dargli il Figlio unigenito, perché chi l'accoglie non perisca, ma abbia l’infinita vita". La vita nel mondo è, per ogni anima, determinante, è la misura suprema, la suprema prova agonistica; essa decide la vita e la morte, poiché le permette la valutazione esatta di tutte le sue possibilità. Se essa, durante l'avventura terrena, si mantiene unita alla sua vera luce mentale, se non perde per sua colpa il contatto con Cristo, luce del mondo, vivrà perché Cristo è infinita vita. Chi invece, con la volontaria ignoranza, con la volontaria adesione alle tenebre del mondo, rifiuta la luce rimane nella morte, non essendo in lui comunicazione di vita e di grazia.
Esiste nell'uomo una presenza di luce che continuamente parla, ammonisce, guida, conforta, illumina, esorta: la cosiddetta voce della coscienza, che è in realtà l'interiore rapporto spirituale che, trasformato in azione psichica, si contrappone a quanto nella materia vorrebbero arrestarne il volo. L'uomo sa ciò che è bene e ciò che è male, nel suo interiore è più che convinto della necessità di non fermare la sua marcia ascensionale. Nel mondo delle forme, nel piano dell'esistenza, niente è così sicuro, così fermo, così stabile come egli sa e sente che sarebbe necessario per rispondere alla sua vera natura. L'uomo effimero, ma eterno, contrasta con la perennità delle cose labili e queste realtà labili e perenni cercano in mille modi di fermare, trattenere quel principio spirituale portato per sua natura a trascenderle.
La lotta tra le tenebre e la luce è tutta qui: o l'uomo ascolta la voce del suo spirito interno e trascende la materia, allora verrà assunto dalla luce del Figlio donato al mondo da Dio, e in lui sarà confermato illuminandosi, conservando, nella suprema illuminazione, qualcosa di peculiarmente suo: l'individualità; oppure cede alle lusinghe della forma, alle suggestioni e agli inganni della tenebra, allora morirà, disperso nei mille suoi principi costitutivi, distrutto nella sua individuale sostanza, e questa è la permanenza nella tenebra, opposta alla luminosa certezza del possesso interiore del regno di Dio. «Questo è il giudizio: chiunque fa cose vili odia la luce, chi opera nella verità va nella luce".
L'incontro con la luce del Figlio che Dio ha donato per la salvezza del mondo è un evento interiore che si effettua nella carne e che mediante il tempo si afferma nell'eternità. L'uomo da solo ben difficilmente potrebbe riuscirvi, per questo il Figlio è stato mandato, "perché non uno solo si perda di quanti a lui furono dati dal Padre". Gli ostacoli che le tenebre oppongono alla luce sono principalmente tre e tutti di natura mentali: orgoglio e presunzione di sé, in quanto io separato; chiusura egoistica a ogni altra espressione di vita; rifiuto di aderire alla verità conosciuta, in quanto implica una necessità di sacrificio. Su questi tre cardini della cattiva volontà, il potere delle tenebre cerca di agire continuamente per impedire alla luce di manifestarsi nella coscienza, cosicché venga rifiutata dalla sua dimora e l'anima rimanga in balia delle forze nemiche. Quando l'uomo, attraverso lo sforzo di ascesa, l'esercizio affinante della meditazione, perviene a eliminare questi tre ostacoli, la luce si spande liberamente in lui, gli si manifesta in pienezza di conoscimento; alla mente rapita si rivelano le cose occulte; i misteri si schiariscono; si placano, trovandosi risolti, tutti i dubbi.
Quando l'uomo capisce di avere in se stesso la luce divina, viene rivestito da essa, le sue opere diventano luminose, perché "in Dio sono compiute". Sia tale uomo colto o incolto, comunicativo o introverso, abbia in sé la forza che trascina o ne sia privo, quando parlerà tutti lo capiranno, quando tacerà il suo silenzio sarà più forte e più vero delle parole. Chi si abbandona alla luce che è in lui, con umiltà profonda, vive nell'amore col quale Dio ha amato il mondo, non perirà nelle tenebre e vivrà la vita eterna, l'infinita vita divina.
(da Adista, 7 maggio 2005)I discepoli
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Il luogo del pellegrino è la strada. Quella che porta alle Stinche è poco più di un sentiero che si apre a fatica nel cuore del Chianti fiorentino. Quando i vigneti lasciano spazio ai misteri del bosco l'eremo sboccia, in una piega nascosta, come un fiore non colto. Anni Settanta. È questa la meta di migliaia di viandanti dello spinto, è qui che salgono, in una processione solitaria, religiosi che vogliono dare aria alla propria vocazione e atei che desiderano parlare di Dio, giovani in fuga dalla droga o semplicemente in cerca di sé stessi. Nel rustico, addossato a una chiesa trecentesca, li accolgono il silenzio della natura e le rare parole di un monaco: Giovanni Vannucci.
di Alberto Camìci
Giovanni Maria Vannucci, frate dei Servi di santa Maria, nacque a Pistoia il 26 dicembre 1913. Seguiti gli studi ginnasiali a Firenze e quelli filosofico-teologici a Roma, pronunciò i voti solenni il 13 ottobre 1936 e venne ordinato sacerdote il 22 maggio 1937. Al Pontificio Istituto biblico di Roma ottenne la licenza in Sacra Scrittura nel 1943, sotto la guida del noto biblista e filologo prof. Vaccari, e nel 1948 la licenza in teologia presso l’Ateneo dell’Angelicum.