Vita nello Spirito

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Qualche domanda

Parabole estratte dal “Parabolario”
di Galando di Reigny

a cura di Sr. Giovanna Grazioli

Alcuni fratelli si recano da un padre spirituale desiderando ciascuno ricevere da lui una risposta alle loro domande.

9 A. I denti rotti del diavolo

1. La prima domanda: «Perché il salmista dice: “Hai spezzato i denti ai peccatori”a? Come si può affermare ciò, quando i peccatori hanno tutti i loro denti, e sani, mentre molti religiosi anziani sono sdentati al punto di poter mangiare appena il loro pane b?».

L’altro rispose: «Un uomo aveva un cane dalle reazioni immediate, in altre parole mordeva gli ospiti o gli sconosciuti prima di abbaiare: il padrone gli spezzò i denti affinché, se in seguito avesse morso qualcuno, non avrebbe potuto fargli del male.

Allo stesso modo, perché il diavolo non potesse nuocerci troppo coi morsi delle sue suggestioni improvvise e nascoste, il Signore ci ha insegnato ad opporre ai morsi del desiderio carnale, l’astinenza, a quello dell’orgoglio, l’umiltà; infine ad ogni vizio la virtù corrispondente. Con questo mezzo i morsi diabolici sono stati grandemente neutralizzati.

Vedi un fratello in collera che vuol litigare? Rispondigli dolcemente, e così hai «rotto i denti» della collera.

Il tuo spirito ti porta alle stelle, ti eleva sopra degli altri? Pensa che devi morire, che sarai presto polvere, che sarai sottoposto al giudizio divino, che avrai dei debiti da scontare, che sarai giudicato con severità; cosi avrai spezzato i denti dell’orgoglio.

2. Diciamo ancora come i denti dei peccatori saranno spezzati. Capita spesso che un secolare che ha commesso colpe criminali che trapassano come tanti denti del diavolo e che è stato per lungo tempo trattenuto nelle fauci di questo cerbero furibondo, sia visitato dalla grazia di Dio che tende a strapparlo dai denti del diavolo. Ma il nemico funesto non vuole lasciarlo andare cosi facilmente: o meglio non soffre affatto di disserrare i denti che ha piantato nelle sfortunate membra, come è naturale da parte di chi ha messo in opera tanto zelo e pena per custodire la sua preda, quanto il fatto che la credeva già in suo potere e diceva in se stesso che nessuno più l’avrebbe reclamata o gliela avrebbe strappata.

Ora il Signore libera con forza e potenza il peccatore che grida verso di Lui, secondo le parole “ha fatto uscire i prigionieri con forza”c, e ancora “verrà uno più forte di lui che li vincerà” d, ecc. Così si dice del diavolo che i suoi denti sono spezzati, comparandolo ad un essere al quale non si potrebbe far mollare ciò che avesse afferrato fra i denti senza romperlo.

3. Quando ci liberiamo dai peccati più importanti e più gravi, “il Signore spezza i molari dei leoni”e; quando si tratta di colpe più lievi o di poca importanza, egli “frantuma i denti dei peccatori”. O meglio, poiché i molari sono più nascosti dei denti davanti, il Signore frantuma i molari in quanto mi purifica “dalle mie colpe nascoste” f; quando si tratta di colpe commesse apertamente, Egli rompe i denti1. Dato che i molari sono più grossi dei denti davanti è giusto dire che essi rappresentano i peccati nascosti, Il fratello che pecca si corregge spesso più velocemente da una colpa evidente che da una colpa nascosta. Anche tu, rompi i denti del peccatore quando rifiuti di ascoltare il falso fratello g che ti invita al male.

Tale suggestione è un latrato, un morso di cane, una ferita dell’anima. E come mai ogni volta che ti suggerisce questo genere di cose non ottiene nulla, non può farti alcun male, se non perché ha i denti spezzati?».

9 B. Fede, speranza e carità

1. La seconda domanda: «Perché l’Apostolo dice: “Esse sono tre, la fede, la speranza e la carità; ma più grande di tutte è la carità?”a Perché le enuncia in questo ordine e mette l’ultima al di sopra delle altre?».

Rispose il Padre spirituale: «Quando un agricoltore ha messo tutte le sue cure nel piantare una vigna e si è preoccupato a coltivarla, è certamente gioioso quando col tempo la vede fiorire nei giorni primaverili e infine è felicissimo quando in autunno la vede portare frutto.

Ora la vigna di Dio, piantata dalla fede, fiorisce con la speranza e dà i suoi frutti nella carità. Se dunque la fede è una cosa gioiosa, la speranza la supera e la carità ne è sovrana.

Piantare una vigna! Ecco che non sempre dura; la bellezza dei fiori è passeggera; ma vuoi sapere di che natura è il frutto della carità? Ascolta il Signore: «E che voi portiate frutto, dice, e che il vostro frutto rimanga” b Questa piantagione che è la fede appassisce, i fiori della speranza cadono, ma la carità non sparirà mai c.

E di fatti noi soffriamo molto nel piantare e anche durante la fioritura non riceviamo ancora niente, fino alla raccolta dei frutti dove possiamo riempire gioiosi le nostre dispense.

2 . La carità riempie il granaio del cielo, perché la fede e la speranza non salgono fin là.

La nostra carità germina qui in basso, si alza dal basso della terra del nostro cuore; ma la sua cima penetra i cieli e il suo frutto ci mette in compagnia degli angeli. Tu non puoi salire fino al cielo se non per mezzo dell’albero della carità. A meno di piantare qui la carità, non potrai cogliere i frutti lassù. Ma quando seminerai una semente di carità nel giardino del tuo cuore, guardati dall’invidia, la peggiore delle erbe cattive. È soprattutto l’invidia che distrugge il germe della carità, soffoca tutti i suoi germogli d e la sradica fino alla radice.

Nutri la carità, ordina in te la carità e in modo da amare per prima le persone della tua casa, i tuoi compagni, poi le altre persone a te più intime, in terzo luogo i tuoi vicini e le persone del vicinato, in quarto luogo ugualmente coloro che abitano più lontani ma non ti sono sconosciuti, in quinto luogo gli stranieri e le persone sconosciute, ed infine perfino i tuoi nemici.

3. D’altronde l’Apostolo ha enunciato le tre virtù in quest’ordine, sia perché se non credi non puoi sperare i beni celesti e se non speri di raggiungerli un giorno non potrai infiammarti d’amore per essi; sia perché il percorso evangelicof che dobbiamo costruire nel nostro cuore ha per fondamento la fede, si eleva ben in alto con la speranza e termina con la carità; sia perché la fede ci insegna la via da seguire, la speranza ci mostra da lontano il luogo verso il quale ci dirigiamo g la carità ci fa giungere; sia perché la fede ispira a chi è caduto di rialzarsi, la speranza lo conforta fintanto che si rialza, la carità nasconde i suoi peccati h. In breve, la fede ci fa nascere, la speranza ci fa crescere, la carità ci rende perfetti 1.

La fede ci purifica, la speranza ci rallegra, la carità ci santifica. La fede ci distingue dai miscredenti, la speranza ci eleva verso le altezze, la carità ci unisce a Dio stesso. La fede ci fa cristiani, la speranza tutto ci dona, la carità ci rende figli di Dio. La fede scaccia l’errore, la speranza bandisce la disperazione, la carità scaccia il timorei».

9 C. La correzione moderata

1. Il terzo disse: «Chi è più in errore: colui che riprende troppo duramente le persone che peccano, o colui che lo fa fiaccamente?».

L’altro rispose: «Una volta avevo due vicini; la carità li spingeva spesso ad invitarmi a pranzo, e sia l’uno che l’altro mi offrivano da bere del vino accuratamente aromatizzato con miele e a ssenzio. Tuttavia uno di loro metteva quasi sempre in questa bevanda più miele e meno a ssenzio; l’altro invece ci metteva sempre meno miele e più a ssenzio di quello che richiedeva. L’uno e l’altro mi causavano un disgusto.

Tuttavia come la bevanda troppo dolce mi era meno nauseante dell’altra troppo amara, così una correzione più dolce è preferibile ad una più dura. Certamente, è bene talvolta avere in sé il rigore del vino, ma è meglio abbondare delle dolcezze del latte, come è scritto: poiché le tue tenerezze sono meglio del vino a. Infatti se bisogna versare del vino e dell’olio b su una ferita, si mette sempre più olio che vino; se si mischiano queste due sostanze, l’olio galleggia sempre1.

E se capitasse al tuo cuoco di superare la misura nel condimento dei legumi, sopporteresti meglio più olio che troppo sale».

2. Ahl Quale abbondanza di olio metteva nei cibi che ci preparava quel buon cuoco venuto in questo mondo c non per essere servito ma per servire d !

Vedi, ti prego e osserva Colui che dispose tutte le cose con dolcezza», che corregge dolcemente gli Apostoli che si contendono il primo posto f.

Egli accoglie la peccatrice in lacrime ai suoi piedi, l’assolve, la rinvia in pace g la giustifica persino, sia davanti a Simone il lebbroso h, sia davanti a Giuda figlio di Simone, l’lscariota l, sia davanti a Marta, la sua stessa sorella jk. Libera la donna adultera che gli conducono e la mette al sicuro non condannandola

Guarda Pietro che lo rinnega l . Persino sulla croce promette il Paradiso al ladrone m, intercede presso il Padre per i giudei n, a sua madre che piange, cerca un altro figlio che prenda il suo posto o. Dopo la sua morte e la sua risurrezione, va a trovare i suoi discepoli che non lo credevano risuscitato, li saluta, li saluta ancora, mette a nudo il suo costato q, li forma di nuovo ad avere fede, invita Tommaso a toccarlo r, se ne va e ritorna più volte, esortandoli ed istruendoli spesso s. Infine li conduce fuori, li benedice, ascende al cielo t.

3. Ah! Il «buon padrone dell’albergo» che offre dei banchetti così dolci e gustosi! Vuoi gustarli anche tu? Cerca di fare esperienza di ciò che dico. Avvicinati, entra anche tu al refettorio dell’Evangelo. Vi troverai quattro tavoli guarniti di delizie così numerose e così abbondanti che non saprai cosa prendere: quello è buono, quell’altro è migliore!

Si, veramente, se in primo luogo andrai alla tavola di Matteo - per non dire di tutto il resto -,cosa vi potrai trova-re di bene, di dolce, di morale, di edificazione che non contenga il sermone del Signore sulla montagna u?.

Poi quando avrai scrutato a fondo e per ordine gli altri due tavoli e avrai visto le meraviglie che vi sono servite, penserai che niente di meglio può trovarsi sotto il cielo.

Per ultimo ti si presenterà la tavola di Giovanni. La vedrai carica di cibi divini di una nobiltà tale che tutto ciò che avevi visto in precedenza ti sembrerà poca cosa. Cosa proverai infine quando giungerai alla Cena del Signore e percorrerai con lo sguardo l’abbondanza grondante, lo scorrere abbondante delle Parole divine v? In verità potrai esclamare con Paolo: O profondità della ricchezza della saggezza e della scienza di Dio! w»

9 D. L’Ispirazione divina

1. La quarta domanda: «Perché il Signore dice nell’Evangelo che Lui e Suo Padre verranno da chi osserva i suoi comandamenti e faranno la loro dimora presso di lui a, quando comunque nessuno può osservarli a meno che Dio non venga prima a visitarlo con una ispirazione divina.

L’altro rispose: «Un ricco allevò nella sua casa, per amore di Dio, un ragazzino povero e di modeste condizioni. Quando quest’ultimo giunse all’età adulta, il ricco gli disse: “Ho deciso di darti una piccola somma di denaro affinché tu la faccia fruttare, aumentandola a tuo profitto, alle seguenti condizioni: se la farai fruttare con sagacità te ne darò un’altra più grande; altrimenti pensa che questa sarà l’ultima”.

Ora, quando il giovane ebbe gestito questo denaro con prudenza, il suo padrone di casa aggiunse un’altra somma più considerevole alla prima; e quando vide che anche questa era ugualmente ben amministrata, lo gratificò con abbondanti ricchezze.

2. Così il Signore prima ci accorda un soffio leggero della Sua grazia, e se questa prima grazia non è stata vana in noi b, ci arricchirà in seguito di una benedizione molto più abbondante: la Sua venuta e quella di Suo Padre. E se facciamo fruttare bene e diligentemente la larghezza dei suoi doni, ci accorderà ancora di più i doni della sua liberalità; tanto più noi risponderemo convenientemente e con sagacia ai suoi doni, tanto più Lui ci arricchirà di più grandi.

E se noi non cesseremo di meritare il Suo bene, Lui non cesserà mai di farci del bene, e non ci sarà mai fine al nostro progresso spirituale quotidiano né alle Sue costanti e sovrabbondanti ricompense».

9 E. La bellezza spirituale

1. La quinta domanda: «Perché una certa persona dice di lei: sono bruna, ma sono beIIa a? Se è nera, come può essere bella? e se è bella, come è nera?»

Ma l’altro rispose: «Un giorno un uomo andò a raccogliere more con un bambino. Ma le more non erano tutte mature e non avevano dunque tutte lo stesso colore; le une erano nere, le altre verdi o rosse, Il bambino, credendo e dicendo in cuor suo b che tutto ciò che è nero è spregevole e da rifiutare, non raccoglieva che le more rosse e verdi, mentre il suo compagno non raccoglieva che le nere.

2. Anche tu, non credere che tutto ciò che è nero sia mediocre e senza valore: al contrario, molte cose sono migliori tanto più sono nere! Pensa per esempio alle lettere incise in un libro: più sono nere, più sono nitide. Rossicce o giallastre sarebbero meno leggibili. L’uva in autunno, o le more in questione sopra, sono tanto più gustose da mangiare tanto più sono nere; se gli restano delle tracce di giallo o di verde, ci sembrano già meno buone.

Lo stesso vale nel campo spirituale; alcune virtù sono, in qualche modo, nere. Sembrano brutte e vergognose agli stolti, mentre i saggi le prediligono e le stimano. Tali sono la povertà volontaria, una pazienza tranquilla, l’umiltà religiosa.

Chiunque è capace di comprenderle e di riconoscerle, è adulto nell’intelletto, è perfetto nel discernimento. Ma chiunque è incapace di apprezzare tali realtà è un bambino nel giudizio c (1)e dallo spirito povero. Lascia da parte le more buone e mature per cogliere quelle verdi Ogni anima santa che per amore di Dio ha in sé quelle belle nerezze può dire con ragione: sono bruna, ma sono bella! d,»

9 F. L’uomo che grida con una voce non sua

La sesta domanda: «Perché il salmista dice: con la mia voce ho gridato al signore a? Infatti chi mai grida o parla con una voce non sua?».

L’altro rispose (A): «Vi era un vecchio al quale l’età aveva fatto perdere quasi completamente la vista. Aveva un figlio unico e molto caro, che faceva spesso delle corse di qua e di là per procurar loro il necessario. Un ragazzo che abitava nelle vicinanze spiava la sua a ssenza per andare a trovare il padre e, fingendo di essere suo figlio, gli domandava tutti i regali che voleva. Dato che possedeva una capacità d’imitazione e sapeva dare differenti timbri alla sua voce, prese la voce del figlio e ripeteva spesso il nome del padre con un tono affettuoso: così otteneva immediatamente ciò che domandava.

Lo stesso Dio cerca di ascoltare la voce di suo figlio e prova piacere nell’ascoltarlo. Una voce di figlio, dico, non di mercenario: la voce di colui che erediterà con Lui, non di colui che non dimorerà mai nella sua casa b. Ma non possiamo prenderci gioco di Dio c né ingannarlo come si è potuto abusare del vecchio. Se dunque vuoi avere una vera voce di figlio, bisogna che tu sia veramente figlio.

2. Una voce di vero figlio è una voce umile e semplice che esprime il dono di sé, voce in armonia con lo spirito (1), voce che confermi le opere. Una voce di vero figlio non cerca di vendicarsi dei suoi nemici, perchè suo padre fa piovere sui giusti e sugli ingiusti d; non domanda i beni terreni dati ai mercenari, ma attende quelli del cielo riservati ai figli. Una voce di vero figlio è una voce di operatore di pace», perché questi saranno chiamati figli di Dio f. Una voce di vero figlio parla spesso di opere di misericordia; perché il suo Padre Celeste è misericordioso g. È una voce lamentosa e gemente, come è scritto: la voce della tortora si è fatta sentire nella nostra campagna h. Allorché questa voce pronuncia il nome di Padre, l’amore del Padre occupa subito il cuore. Quando invoca il nome del Signore i, anche lo spirito porta in sé la reverenza dovuta al Signore.

Se per caso - non sia mai! - un giorno la mia malizia mi facesse essere figlio del diavolo e schiavo del peccato k qualora dicessi Padre nostro l o cantassi Signore, mio Signoro m, non griderei con la mia stessa voce; prenderei in prestito quella di un altro. Peccatore, usurperei ciò che spetta al giusto, e non impetrerei con la fiducia di essere esaudito, ma con la confusione per la mia cattiva coscienza.

3. Invece, Davide, che fu sempre buono e santo, dice giustamente: con la mia voce ho gridato al Signore, mi ha esaudito dal Suo monte Santo n. Come se dicesse: “Poiché grido al Signore con la mia solita voce, voce che Egli conosce bene, che sempre gradisce, ho fiducia di essere esaudito”.

E se dico della mia preghiera che essa grida, è perchè proferendola dal profondo della mia anima, la spando davanti a Dio in uno slancio spirituale.

Quanto al fatto che dico di essere stato esaudito (B) qualora gridassi, per così dire, dalla cima di una montagna (C), come se non dovessi essere ugualmente esaudito gridando da una valle, o come se Dio, che dimora in cielo, sente meglio coloro che gridano da una montagna piuttosto di coloro che gridano da una valle perché i primi sarebbero più vicini a Lui dei secondi, ma è vero che più tu sarai vicino a Lui, più velocemente sarai esaudito; e più sarai lontano da Lui, più ti sarà difficile ottenere ciò che domandi.

Così come la vicinanza o la lontananza si misurano in termini di luogo quando si tratta di noi, nel caso di Dio si valutano in termini di meriti perché è sicuramente per tali meriti che ci avviciniamo o o ci allontaniamo da Dio».

Note

GALANDO DE Reigny, Parabolaire, a cura di C. Friedlander, Sources Chrétiennes n.378, Les Editions du Cerf, Paris 1992.

aSal 3,8 // b Gen 3,19.

c Sal 67,7 // d Lc 11,26 // e Sal 57,7

f Sal 18,13

1 Vedi GREGORIO MAGNO: «Si designa per molari le insidie nascoste del diavolo, per denti, l’adempimento alla scoperta della colpa. Molari e denti di cui il salmista ha scritto “Ma Dio spezzerà i denti nella loro bocca, il Signore romperà i molari dei leoni”» (Mor. XIX, 26,47: PL 76,128 A).

g 2 Cor 11,26; Gal 2,4

a 1 Cor 13,13 // b Gv 15,16 // e 2 Cor 13,8.

d Gb 31,12 // e Ct 2,4// f Lc 14,28

g Eb 11,13; Gen 22.9 // h 1 Pt 4,8.

1 II tema della carità ordinata è stata legata agli autori spirituali del XII secolo dagli scritti di Origene sul Cantico: Hom. Cant. 2,8 (SC 37 bis, p. 128-130); in Cant. 3 (PG 13, 155D -160B). Le tre virtù teologali sono considerate come tre tappe dello sviluppo in noi di una stessa realtà che è la vita di Dio. Cf. GUILLAUME DE SAINT-THIERRY. La formazione dell’uomo religioso consiste nell’educazione morale; la sua via è l’amore divino. Vinto dalla fede, partorito nella speranza, questo amore riceve dalla carità, ossia dallo Spirito Santo, la sua forma e la sua vitalità» (Epist.169-170: SC 223, p. 278).

i 1 Gv 4,18.

a Ct. 1.1 // b Lc 10,34.

1 Comparare con S. Agostino: «L’olio versato nell’acqua sale al di sopra dell’acqua; l’acqua versata sull’olio scende al di sotto dell’olio: sono trattenuti dal loro peso e cercano il luogo che gli è proprio. Le cose che non sono al loro posto si agitano; ma quando trovano il loro posto restano ferme. Il mio peso, è il mio amore; in qualunque luogo io sia portato, è Lui che mi porta». (Conf. 13,9; trad. J. Trabucco, t. 2, Parigi 1937, P. 319).

c Gv 11,27; 9,39 // d Mt 20,28 II e Sap 8,1

f Cf. Lc 22,24-29 // g Lc 7,37 1 // h Cf. Mc14,3s.

i Cf. Gv 12,14s // j Cf. Lc 10,38 // k Cf. Gv 8,3s.

l Cf. Lc 22,61 // m Cf. Lc 23,43 Il n Cf. Le 23.34

o Cf. Gv 19,26 s. Il p Cf. Mc 16,14

q Cf. Gv 20,20-21 // rCf. Gv20,27; Lc 24-39

s Cf. At 1,3; Lc 24,27.44-49 // t Cf. Lc 24,50-51.

u Cf. Mt 5-7 // v Cf. Gv 13-17 // w Rm 11,33.

a Gv 14,23 // b 1 Cor 15,10.

a Ct 1,4 /I b Lc 11,38

c Cor 14,20 // dCt 1,4

(1)L’espressione «bambino nel giudizio» la si ritrova nel Lib. Prov. 85 e 98. Designa per Galand l’immaturità spirituale. Ct. C. Friedlander, “Galland de Reigny e la semplicita”, Coll. Cist. 41 , 1979, p41.

a Sal 3,5 // b Gv 8,35 // c Gal 6,7

(A) Ogni parte di un coltello non taglia, ma tutte sono utili o decorative. Così ogni elemento di una parabola non è necessariamente carica di sottigliezze allegoriche; ma tutto completa o perfeziona la composizione del testo affinché la trama del racconto possa tenersi. Quando si costruisce una casa, si fanno spesso dei lavori che mirano ad abbellire l’edificio piuttosto che a rispondere ad una necessità pratica. È’ nello stesso modo che dobbiamo comprendere i dettagli di questa parabola.

(1) Cfr. RB 19,7: «Quando cominciamo a salmodiare, facciamo in modo che il nostro spirito concordi con la nostra voce».

d Mt 5,45 // e Cfr. Gc 3,17 // Mt 5,9 // g Lc 6,36

h Ct 2,12 // i Gl 2,32

j Cfr. .At 2,21 // k Gv 8,34 // l Mt 6,9// m Sal 8,2

n Sal 3,5 // o Cfr. Sal 22,6 // p Cfr. Sal 72,27

(B) Si tratta di Davide

(C) «Mi ha risposto dal Suo monte santo» (Sal 3,5).

Mercoledì, 17 Ottobre 2007 02:19

Guglielmo di Saint-Thierry (Robert Thomas)

Guglielmo di Saint-Thierry

di Robert Thomas

Guglielmo di Saint-Thierry, nato a Liegi verso il 1085 da nobile famiglia, lascia il suo paese e va a studiare in Francia, probabilmente a Laon. Rinunciando poi, alla vita universitaria entra, nel 1113, nell’abbazia benedettina di St. Nicaise a Reims. Sei anni dopo, è eletto abate di Saint-Thierry, vicino a Reims.

Da quel momento si trova impegnato dai doveri del suo mandato: la direzione dei suoi monaci, l’amministrazione del monastero, le relazioni esterne Mentre egli compone le sue prime opere, fra cui la “Contemplazione di Dio”, è coinvolto nelle controversie teologiche del suo tempo e preso dal desiderio di rinnovamento che animava le abbazie della regione.

Ma Guglielmo non è un uomo d’affari. E’ un appassionato di Dio: egli. aspira al riposo, alla solitudine con Dio,a lunghe ore di preghiera. Fin dal 1116-1118, aveva incontrato a Clairvaux, San Bernardo e, la bellezza della vita cistercense lo aveva affascinato. Nacque così uno stretto legame di amicizia fra i due uomini. E da quel momento Guglielmo viene assorbito da un ideale molto alto che vorrebbe comunicare attorno a lui. Questo ideale è Bernardo e la vita che questi conduce. Nel 1124, desidera raggiungere il suo amico e vivere presso di lui nella solitudine di Clairvaux; ma Bernardo gli si oppone.

Per undici anni Guglielmo lavorerà alla riforma del suo monastero e di quelli della sua provincia, pur continuando la redazione delle sue opere fino, al giorno in cui, nel 1135, non badando ai consigli dì Bernardo, lascia Saint-Thierry per entrare nell’Abbazia cistercense di Signy, nelle Ardenne.

Lontano da tutto, nel mezzo dei ”campi e dei faggi “ può finalmente dedicarsi a Dio, consacrarsi alla contemplazione. Le opere letterarie si succedono a ritmo accelerato. Gli ultimi anni della sua vita sono divisi fra la difesa della fede cattolica contro alcuni innovatori troppo arditi e la composizione di opere spirituali per le anime avide di perfezione - come per esempio l’ammirevole “Lettera ai Certosini del Monte di Dio “ detta anche “Lettera d’Oro “, un vero trattato sulla solitudine e sulla vita monastica, che formò generazioni di monaci e che san Luigi Gonzaga, sapeva quasi a memoria. Contemporaneamente incomincia a scrivere la vita del suo amico Bernardo. Ma muore l’8 settembre 1148, prima di poter completare l’opera.

Lui che aveva tanto anelato all’incontro con Dio, poteva infine entrare in quella vita eterna dove è possibile vedere colui che si ama e amare colui che si vede.

IL VOLTO DI DIO

Guglielmo di Saint-Thierry,è un uomo affascinato da Dio, consumato dal suo desiderio. Una parola sgorgata dal fondo del suo cuore in una delle sue “Meditazioni”, “il petto gonfio del tuo desiderio “, lo dipinge ammirevolmente. Guglielmo è un uomo appassionato del volto di Dio. Anche quest’altra confessione, che in un’altra delle sue “Meditazioni” rivolge a Dio “brucio dal desiderio di vedere il tuo volto“, lo definisce molto bene.

La sua visione di Dio prende forma in questa espressione biblica di volto di Dio. Facendo affidamento alle parole dei salmi, egli cerca il volto di Dio, vi si ripara e vi si nasconde, è inondato dalla sua luce, la consulta per sapere quel che deve fare e come deve giudicare. Il volto di Dio, è Dio nella sua intima natura, Dio visto faccia a faccia : la visione beatifica nell’al di là, e, fin da quaggiù ciò che ci avvicina maggiormente.

La faccia di Dio, è la conoscenza faccia a faccia, quella che l’Apostolo definisce :“ Allora conoscerò come sono conosciuto. Ora vediamo come in uno specchio in maniera confusa, ma più tardi vedremo faccia a faccia: noi lo vedremo così come Egli è. “ ( 1 Co 13-12 )

L’uomo, fatto per Dio

Ricercare il volto di Dio, cioè l’intimità con Dio, ecco la vocazione dell’uomo:

Si cerca di continuo quaggiù questo volto attraverso l’innocenza delle mani e la purezza del cuore, ciò è la pietà Chi non la possiede ha ricevuto invano la sua anima. La sua vita è inutile o addirittura non vive del tutto, dato che è per vivere di questa vita che ha ricevuto la sua anima.

L’uomo è fatto per Dio: soltanto in lui può trovare l’appagamento di tutti i suoi desideri di pienezza e di felicità.

E, dato che l’uomo è fatto per Dio, Dio lo attrae irresistibilmente: questo bisogno di Dio è inscritto nella natura. Guglielmo dichiara tre volte nelle sue opere, prendendo d’altronde quasi parola per parola un testo di sant’Agostino, che Dio “ affascina l’uomo “, lo strappa da se stesso con il desiderio che gli ispira di possederlo un giorno.

E’ per te, per andare verso di te, che siamo stati creati.

Colui che cerca qualcosa al di là o al di sopra di te, preferendolo a te, cerca invano, nulla è migliore di te.

L’uomo è fatto per Dio: questo non soltanto è insito nella sua stessa natura di creatura, ma anche nella sua storia, per ciò che riguarda il passato,il presente e l’avvenire.

L’uomo, immagine di Dio

Guglielmo ricorda la storia dell’umanità di fronte a Dio, un po’ dappertutto nel susseguirsi delle sue opere, ma in modo particolare nel suo trattato “ Natura e dignità dell’amore.”

Dio ha creato l’uomo a sua immagine, a immagine delle tre Persone divine, della Trinità. A immagine di Dio che è Padre, Figlio, e Spirito, l’uomo è memoria, intelligenza,volontà. Ha la capacità e il felice obbligo di ricordare sempre Dio, di pensare a lui, di amarlo. Così l’uomo è stato creato contemplativo, rivolto sempre a Dio col ricordo, il pensiero, l’amore.

Ciò che sopratutto Dio attendeva da lui era l’amore. Come san Agostino, Guglielmo fà osservare che ogni essere ha un “peso” che di solito lo trascina verso il basso, se si lascia un oggetto questo cade per terra. Tuttavia certi esseri, come la fiamma, sono attratti verso l’alto. E’ così per l’amore: emanato da Dio, come una favilla che sfugge dal focolare, ha tendenza a risalire verso Dio.

Ma libero e sottomesso alla tentazione, l’uomo ha peccato. Egli ha voluto “ essere come Dio “ in un modo sregolato. Allora questa anima bella, che risplendeva della bellezza di Dio guardandola con amore, è stata sfigurata : più nessun ricordo, più nessun pensiero, più nessun amore di Dio. Ecco l’uomo rivolto in maniera disordinata verso la creatura. Invece della rassomiglianza divina ha preso quella degli animali senza ragione: “L’uomo, mentre era in onore non ha capito: si è posto al rango degli animali senza regione, è divenuto simile a loro.” Così Guglielmo interpretava il ritornello del salmo 49, nel suo testo latino.

Fortunatamente il Figlio, che nella Trinità è l’immagine del Padre, si è proposto di salvare l’uomo. Si è incarnato, si è messo a parità dell’uomo e gli ha detto; hai voluto essere come Dio; ora io solo, lo sono veramente,immagine perfetta del Padre e suo simile. Ebbene,eccomi! Imitami, diventa la mia immagine e sarai salvato.

Non è un cammino facile,perchè imitare Gesù, vuol dire passare per la croce per raggiungerlo in cielo. Ma infine, grazie a Gesù Cristo, il cammino è ritrovato e la porta del cielo è aperta. Là in cielo l’uomo, acquisterà la perfetta rassomiglianza con Dio. Sarà la sua perfetta immagine: “Noi saremo simili a lui, perchè lo vedremo così come egli è”. ( 1 Gv. 3-2)

Raggiungere Dio

Come è possibile che l’uomo raggiunga Dio? Risalendo,anzitutto dalle creature al Creatore. Ecco, ciò che Guglielmo scrive nel suo libro "Della contemplazione di Dio":

Tutte le tue gentilezze vanno incontro a colui che sospira per te. Dal cielo e dalla terra, e attraverso tutte le tue creature, esse affluiscono verso di me e mi colmano, o Signore adorabile e amabile, in ogni cosa! E più esse ti proclamano e dimostrano la tua amabilità, più attizzano l’ardore del mio amore verso di te...
Questo è l’esercizio continuo della mia anima appoggiandomi con tutte le mie forze sulle tue ricchezze e sulle tue gentilezze, come ci si appoggia sui piedi e sulle mani, cerco di salire sino a te , in te, Amore supremo, sommo Bene!

Questo testo è senz’altro l’unico in cui Guglielmo parla chiaramente della conoscenza delle creature per risalire a quella di Dio.

Più volentieri parla di risalire a Dio, partendo da se stesso. L’uomo non è infatti una creatura, e anzi, un’immagine di Dio ? E l’anima creata ad immagine di Dio, è come il suo specchio. Conoscersi è dunque conoscere Dio attraverso la propria immagine. All’anima che è evasa da se stessa e si è dissipata, il Signore rivolge questo rimprovero:

Sei uscita da te stessa perchè non ti conosci. Impara a conoscerti, o mia immagine. Potrai, così, conoscere me, di cui sei l’immagine. E, in te, mi ritroverai.

Ma è soprattutto per merito dell’incarnazione del Figlio, grazie a quest’uomo che è Dio, che si può conoscere Dio stesso. Dio si è messo alla nostra portata:

Si poteva immaginare migliore sistemazione, più meravigliosa disposizione per facilitare l’uomo in ascesa verso il suo Dio ? Invece di dover giungere all’altare salendo dei gradini, troverebbe il terreno livellato dalla sua rassomiglianza ( la natura umana del Cristo simile alla nostra); potrebbe tranquillamente avvicinarsi ad un uomo simile a lui, che dalla soglia gli direbbe:” Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv. 10—30)”.

Conoscere Dio come egli è

Raggiungere Dio e conoscerlo attraverso le sue creature, anche se si tratta di se stessi,anche se si tratta della santa umanità del Cristo, è ancora e sempre avvicinarlo attraverso una immagine. E’ ben vederlo in un certo qual modo, ma non ancora faccia a faccia. E’ possibile in questo mondo, questo raggiungimento diretto di Dio? Ecco in breve, la risposta di Guglielmo: E’ assolutamente impossibile . Dio ha dichiarato a Mosè : Nessuno può vedermi e continuare a vivere (Es. 33-20). E tuttavia quando, sotto l’azione dello Spirito Santo, l’amore è “illuminato“ esso diventa un vero senso - Guglielmo lo definisce “il senso dell’amore illuminato”, - e percepisce in un certo modo Dio “tale e quale è”.

Per far sì che un senso corporale percepisca un oggetto, è necessario che, subendo un’impressione si trasformi, in un certo qual modo, in ciò che percepisce. Così l’anima percependo la bontà di Dio per mezzo dell’amore, diventa buona, di questa bontà e, in questo modo, percepisce e conosce Dio che è essenzialmente buono. Una tale conoscenza oltrepassa di molto ogni conoscenza intellettuale:

E’ permesso e possibile all’uomo dotato di ragione di pensare a volte a certe perfezioni divine e di scrutarle - come per esempio la delicatezza della sua bontà, la potenza della sua forza... Ma la sua stessa essenza è assolutamente inaccessibile al pensiero. “Soltanto il senso dell’amore illuminato può, in un certo qual modo, raggiungerla “…

Dio è lui stesso la sua propria vita, e questa vita è divinità, eternità, grandezza, bontà e forza. Esiste e sussiste in sé stessa, dilaga in ogni luogo per la sua immensità e, per la sua eternità, da ogni tempo che potrebbe contenere la ragione o l’immaginazione. La sua verità, la sua eccellenza sfidano ogni fatto da qualsiasi fonte esso venga. Pertanto “il senso dell’amore illuminato e umile, lo raggiunge sicuramente più che qualsiasi pensiero della ragione”.

Non è la visione beatifica, ma ciò che può maggiormente avvicinarvisi quaggiù. Queste linee del Commento al Cantico dei Cantici lo affermano senza ambiguità:

Al momento di questa visita divina, saltano il muro di questa vita mortale sembra separare ancora lo Sposo e la sposa dal bacio perfetto (che è l’unione perfetta del cielo).

Alla fine del suo “Enigma sulla fede”, Guglielmo prende da sant’Agostino la preghiera finale del suo trattato “Sulla Trinità” pur cambiandolo un po’. Vi mette il suo tono personale e lo conclude così:

Che mi ricordi sempre di te, che sempre ti ricordi e ti ami. Un giorno infine, o Dio Trinità, a forza di ricordarmi fedelmente di te e amandoti sinceramente, tu mi rifarai a tua immagine a quella immagine alla quale mi avevi creato.

Tale è la visione di Dio in Guglielmo di Saint-Thierry :un Dio che, nel suo amore prepara l’uomo a contemplarlo faccia a faccia, e che suscita in lui il desiderio di possederlo,di vederlo, di amarlo - ciò che per Guglielmo fa tutt’uno. Un Dio che si è avvicinato all’uomo dandogli il proprio Figlio, la propria immagine; ed il suo Spirito, il suo amore.

L’ITINERARIO VERSO DIO

Vedere Dio è lo scopo della vita cristiana. Ma per vedere Dio bisogna essere puri: Cristo lo ha detto nel Vangelo. Guglielmo all’inizio della sua opera “Sulla contemplazione di Dio” esclama:

Signore mostraci il tuo volto e noi saremo salvi! (S. 79) Ma ahimè, ahimè! Signore, com’è temerario, disordinato, presuntuoso, pretendere di vedere Dio con cuore impuro!

Tutta la spiritualità di Guglielmo di Saint-Thierry consiste in un distacco progressivo dalle cose materiali, in una purificazione sempre più grande del cuore, per giungere fin da quaggiù, a vedere Dio in un faccia a faccia che, pur non essendo quello dell’eternità è tuttavia nella stessa linea e lo prepara.

Le tre tappe della vita spirituale

Nella sua “ Lettera ai fratelli del Monte di Dio “, Guglielmo distingue tre “stati” o gradi nel cammino spirituale, e quindi nell’avvicinamento a Dio, che sono altrettanti gradi di purificazione e di spiritualizzazione: lo “ stato sensitivo “ (che chiama animale dal latino anima), lo”stato ragionevole” e lo “stato spirituale”.

Lo stato sensitivo - Il principiante nella vita spirituale ha ancora un animo debole. E’ trattenuto da tutto ciò che colpisce i sensi: è superficiale, e gli manca l’introspezione.

Ha bisogno di un maestro, di un padre spirituale che se ne prenda cura e che gli imponga l’obbedienza e la mortificazione. Tali sono i due rimedi che raccomanda vivamente Guglielmo di Saint-Thierry: poiché quest’uomo non è ancora guidato dalla sua ragione, ma dai suoi sensi è il giudizio del maestro spirituale che lo guiderà: è necessario che gli obbedisca. A questa prima spogliazione se ne aggiungerà un’altra: il maestro gli imporrà anche mortificazioni corporali, farà “digiunare“ tutti i suoi sensi.

Lo stato ragionevole - Così guidato e poco a poco purificato, questo uomo comincia a essere padrone di se stesso. La sua ragione si rafforza: non si lascia più dominare da tutte le sue impressioni. A quest’anima virilizzata Guglielmo da ora il nome di “animus. “ Ma questo “stato ragionevole”’ non è per installarvisi: l’ascesa continua. E’ durante questa tappa che si fortifica l’anima virile, padrona di sé e del suo corpo; che continua la purificazione non solo dalle cattive inclinazioni, ma anche da tutto ciò ch’è troppo solamente sensitivo, che ostacola l’anima e intralcia la visione di Dio.

E’ nel profondo dell’anima e con la grazia di Dio, che si compie questo lavoro di sgombero delle creature e di se stesso, questa morte del “vecchio uomo“. L’anima si sottomette a tutta una disciplina interiore per controllare e regolare i suoi pensieri. E non è cosa da poco: quanti pensieri passano per la testa in un giorno! Così, poco a poco ci si interiorizza.

Lo stato spirituale - A un certo momento lo Spirito Santo interviene in modo speciale. Era già certamente all’opera in tutto questo lavoro di purificazione e nei numerosi sforzi che l’anima compiva per essere tutta a Dio, ma ora agirà secondo il “suo modo” che è il modo divino. L’anima non farà, ma si lascerà fare. Il suo sforzo consisterà piuttosto a lasciarsi fare - e non è così facile come lo si potrebbe pensare! L’anima si controlla con severità per assicurarsi che la sua volontà è consona a quella di Dio. Ma sopratutto lo Spirito Santo, nei momenti che afferra l’anima la rende conforme a Dio in modo speciale. La rassomiglianza con lui si accentua stupendamente: quest’uomo diventa sempre più immagine di Dio. Irradia questa presa di possesso di Dio. E’ diventato spirituale.

Tutto questo lungo itinerario, lo si comprende, è una purificazione progressiva. Da “sensibile“ si è passato al “ragionevole“ e dal ragionevole allo “spirituale“. Il principiante, molto “terrestre”’ si è innalzato poco a poco , con la grazia di Dio, al di sopra di ciò che prima l’attirava con forza. E’ stato portato a riflettere maggiormente, a rientrare in se stesso, cioè a raccogliersi. Si è liberato dal bisogno di vedere e comprendere tutto, di ricercare i propri comodi in tutto. Lo Spirito Santo, vedendo quest’uomo così purificato, l’ha spinto a lasciare le molteplici riflessioni, la mescolanza delle idee per semplificarlo e dargli un po’ della semplicità di Dio. L’unità si è sostituita poco a poco alla molteplicità. Quest’uomo ora, aspira a un’unica cosa: essere con Dio, solo con lui, più che possibile. “Chi ha Dio con sé, dice Guglielmo, non è mai meno solo di quando è solo.”

Disposizioni interne

Le disposizioni interne che raccomanda Guglielmo di Saint-Thierry sono già state esposte nelle pagine precedenti. Diamo qui, soltanto qualche elemento nuovo.

Per prima cosa notiamo l’attitudine di “generosità“. Guglielmo la raccomanda vivamente:

Da tutti voi, si esige la perfezione, ma non la stessa da ognuno. Se cominci, comincia perfettamente bene. Se hai già realizzato qualche progresso, anche in ciò comportati perfettamente. Se in qualcosa hai raggiunto la perfezione misurati con te stesso e dì con l’Apostolo: “ Non però che io abbia già conquistato il premio o che sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo. Questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù.” (Fil. 3,l2-14)

Da notare anche l’attitudine di vigilanza su se stessi: il modo migliore per conoscersi. Certamente bisogna dimenticarsi, superarsi, ma Guglielmo insiste sulla conoscenza di sé stessi, sulla vigilanza da esercitare sui propri pensieri:

Secondo il precetto dell’Apostolo, “bada a te stesso con la più grande cura,”e, per poter avere sempre gli occhi su di te, distoglili da tutto il resto. Occupati di te stesso: hai in te stesso, un motivo considerevole di occupazione.

Questo brano è tratto dalla “Lettera ai Fratelli“. Eccone un altro nella stessa linea :

Impara a dirigerti, a regolare la tua vita, il tuo comportamento, a giudicarti, ad accusarti, a biasimarti spesso, a non lasciarti andare senza punizione...
Al mattino renditi conto della notte passata e stabilisci un programma da realizzare durante il giorno che comincia. Alla sera esigi il resoconto del giorno trascorso e traccia il piano per la notte che arriva. Controllato così rigorosamente non avrai mai del tempo libero per scherzare.

Guglielmo raccomanda anche il distacco assoluto. Questa attitudine non è contraria a quella precedente: il dovere di dimenticare il creato e di dimenticarsi per occuparsi soltanto di Dio si accorda perfettamente con la vigilanza su se stessi. Guglielmo, nel suo trattato “Natura e dignità dell’amore“, descrive in questo modo l’ultima tappa dell’ascesi verso Dio:

Nell’abbandonare il proprio corpo e tutte le preoccupazioni e i tormenti corporali, l’anima dimentica tutto ciò che non è Dio. Essa non si occupa d’altro che di Dio. Ritiene che esista soltanto: Dio e lei, e dice: Il mio diletto è per me ed io per lui (Ct. 2,16) “ Fuori di te nulla brano sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore, ma la roccia del mio cuore è Dio, e Dio la mia sorte per sempre.”(S .72)

Tale è quindi la spiritualità di Guglielmo di Saint-Thierry purificarsi per unirsi a Dio, vederlo e possederlo. E’, possiamo aggiungere, purificare, strofinare, far brillare l’immagine di Dio; rettificare ciò che l’ha danneggiata; modellarsi su Gesù, che è immagine del Padre, e diventare sempre più immagine di Dio, imitandone le sue virtù, le sue attitudini, le sue disposizioni.

TRE FORME DI ORAZIONE

Guglielmo è un uomo di preghiera, si è dedicato all’orazione, come ne danno testimonianza le sue “Meditazioni” e altre preghiere. Ha scritto sull’orazione e non nasconde il suo desiderio di formare i principianti alla preghiera interiore. Vuole loro insegnare il cammino da seguire per giungere “all’orazione spirituale”.

Per quali strade li conduce? Quali consigli dà sul modo di praticare l’orazione e, sormontare le difficoltà?...

Lasciare tutto

Venite, scaliamo la montagna del Signore, saliamo alla dimora del Dio di Giacobbe, e ci insegnerà le sue vie. Intenzioni, desideri, pensieri, sentimenti, tutte le mie intime energie, venite! Scaliamo la montagna, conquistiamo il luogo dove il Signore vede e si lascia vedere! Preoccupazioni, sollecitudini, inquietudini, fatiche, oppressioni penose aspettatemi qui. Dopo aver adorato ritorneremo a voi.

E’ con questa esortazione che inizia il trattato sulla “ Contemplazione di Dio.” Per Guglielmo si tratta di lasciare da parte, quando si vuol fare orazione, tutto ciò che può impegnare il cuore e lo spirito, e di slanciarsi verso Dio. Spesso servirà da trampolino una parola della Scrittura - come questa Venite, scaliamo la montagna del Signore...”

Questo invito insistente di lasciare tutto al momento dell’orazione non ha che uno scopo: permettere a colui che prega di essere totalmente a Dio, attento a lui, unicamente occupato a conoscerlo ed amarlo.

Guglielmo distingue tre forme di orazione, che corrispondono a tre tappe della vita spirituale già menzionate:l’orazione immaginativa, l’orazione meditativa, l’orazione spirituale.

L’orazione immaginativa

Questa prima forma di orazione è quella del principiante nelle vie dell’orazione, dell’uomo che vive a livello di ciò che cade sotto i suoi sensi. Non potendo afferrare Dio in se stesso, lo raggiunge attraverso la vita, la creazione che lo circonda, l’esistenza concreta di Cristo, così come l’immagina.

Durante l’orazione si applica a considerare una scena del Vangelo, a rappresentarsela a viverla come se fosse presente in attore e non in semplice spettatore. Citiamo un brano caratteristico della Xa Meditazione dove Guglielmo entra in scena:

Non avendo ancora oltrepassato la tappa elementare della mia immaginazione propensa al sensibile, tu permetti, tu accetti volentieri che la mia povera anima, ancora debole, segua la propria natura concentrando la sua immaginazione sulle tue umiliazioni. Così abbraccio la mangiatoia che ti ha visto nascere, adoro la tua santa infanzia, bacio i piedi di colui che è sospeso al legno della Croce, metto la mia mano al posto dei chiodi gridando: “ Mio Signore e mio Dio!...Adoro ciò che con l’aiuto dell’immaginazione: vedo, sento, tocco, del Verbo di Vita.

Ogni orazione del principiante è così incentrata sulla persona di Cristo - di Cristo conosciuto, anzitutto nella sua umanità. E’ per questo che Guglielmo domanda di dare al novizio letture, meditazioni, dove egli possa rappresentarsi con l’immaginazione, le azioni del Salvatore.

Al principiante in Cristo, sarà più proficuo e sicuro, proporre, come soggetto di lettura e di meditazione, le azioni del nostro Redentore. Gli si insegnerà a scoprire una lezione di umiltà, uno stimolo all’amore e agli slanci affettuosi…
Bisogna anche, certamente insegnargli a innalzare nell’orazione il suo cuore, a pregare in modo spirituale, a distaccarsi il più possibile dalle immagini materiali e corporali...
Ma ripetiamolo, sarà più proficuo e sicuro proporre a questo principiante, come soggetto di meditazione e di orazione, la umanità del Signore, la sua nascita, la sua passione, la sua risurrezione. Così, questo spirito ancora debole, che sa solo pensare a realtà materiali e corporali, avrà un oggetto dove fissarsi, qualcosa alla sua portata, a cui potrà aderire con uno sguardo affettuoso… Pur rappresentandosi Dio sotto sembianza umana non si allontana abusivamente dalla verità. Purché la sua fede non allontani Dio dall’uomo, potrà un giorno raggiungere Dio attraverso l’uomo. (nell’umanità di Cristo).

Questo metodo di orazione raccomandato da Guglielmo di Saint-Thierry, è una vera iniziazione alla vita divina: è attraverso Cristo, immagine del Dio invisibile che si raggiunge il Padre.

Accade a volte che, partendo da questa rappresentazione umana di Cristo, l’anima si trova illuminata, infiammata: lo Spirito Santo la invade e le concede di provare un’esperienza autentica della bontà di Dio. E’ ben questa una “orazione spirituale” anche se non sia ancora giunta a questo punto.

L’orazione meditativa

Per eccellente che sia questa prima forma di orazione, non è che una tappa. Perchè si tratta di lasciar cadere poco a poco, tutte queste rappresentazioni, e di “slanciarsi nelle cose dello spirito.” In altre parole, far posto alla meditazione,ai pensieri di fede, e all’espressione i sentimenti intimi:

Questo modo di pregare prende di solito, il suo soggetto da una verità di fede, da un articolo del Simbolo (Credo). Allora ciò che si crede fedelmente in conformità alla fede cristiana, lo si ama in piena verità e semplicità, e la rappresentazione immaginativa delle azioni del Signore Gesù, si trasforma in un sentimento profondo.

Si medita su tale disposizione di Cristo, su tale perfezione di Dio, tale verità di fede che si sperimenta interiormente. Si parla a Cristo, lo si ascolta, si cerca di conoscerlo e di amarlo in un modo migliore. Gli si esprimono i sentimenti del proprio cuore gioia, riconoscenza, fiducia, abbandono. . .Questa orazione “ è uno slancio affettuoso dell’uomo che si unisce a Dio, un colloquio semplice e pieno di abbandono.”

Parla, Signore,ogni tanto al cuore del tuo servo e fa si che le tue consolazioni rallegrino la mia anima! Insegnami a parlarti spesso, a confidarti, mio Signore Dio e Padre, tutta la mia miseria ed i miei bisogni. Fa che ti ami più che me stesso, e che non mi preoccupi affatto di ciò che tu potrai fare di me, purché io faccia ciò che è gradito ai tuoi occhi.

E’ sufficiente sfogliare le “Meditazioni” di Guglielmo per capire come meditasse durante le sue orazioni, si meravigliasse, esultasse, si dimenticasse, si perdesse in Dio. Così questa meditazione , che termina con un ardente aspirazione alla vita eterna, in una ammirevole invocazione allo Spirito Santo:

O Amore, o Fuoco, o Carità, vieni in noi! Sii guida e fiaccola, fuoco ardente e purificatore dei nostri peccati! Paracleto, Consolatore, nostro avvocato e sostegno nella nostra causa.
Scoprici ciò che crediamo, infondici ciò che speriamo! Che possiamo ripeterti:” Il mio cuore te l’ha detto: il mio viso ti ha cercato!” (S. 27,8)

Ma, a questo punto della vita di preghiera, essa non è ancora sempre un’espressione interiore. A volte è l’aridità:

Come lo sparviero che tende le ali verso il mezzogiorno, io tendo le mani a te, Signore, e la mia anima è d’innanzi a te, come terra arida.

Qualche volta le distrazioni ci assalgono. Guglielmo le conosce e, più di una volta ne parla. Per ripetere sempre che la preghiera è innanzi tutto una offerta di sé, un sacrificio offerto a Dio, che non è incompatibile con le distrazioni. Evoca Abramo che doveva scacciare gli uccelli rapaci che si abbattevano sulle vittime immolate (cf. Gn. 15,11): è l’immagine della preghiera quando si è talmente presi dalle distrazioni ch’essa diventa soltanto un combattimento.

Bisogna leggere la sua IXa’Meditazione’ dove lotta contro le distrazioni con una tale energia, fino a che la calma non sia tornata:

Ora ogni traccia di fitta nebbia è sparita. Rivolgo a te, o Luce di verità, occhi più chiari.. .Nascosto nel segreto del tuo viso comincio a parlarti con tutta intimità e familiarità, ti svelo tutti i recessi della mia coscienza. Avendomi tolto questa tunica di pelle che tu avevi dato ad Adamo per coprire la sua vergogna, eccomi nudo davanti a te, tale quale mi hai creato. Tu vedi le mie ferite, dalle recenti alle più antiche. Non ti nascondo nulla, ti mostro il bene che è opera tua, e il male che è opera mia.

L’orazione spirituale

Un giorno, Dio interviene più chiaramente e abitualmente. Numerosi sono i testi in cui Guglielmo parla del passaggio dall’orazione meditativa all’ “orazione spirituale”. Si considerava Cristo in Croce, si meditava il suo amore, ed ecco per l’anima una luce stupefacente sull’amore infinito di Dio:

Non è più una comprensione, frutto faticoso del nostro sforzo umano; non si tratta nemmeno di un battito d’occhi dei nostro spirito accecato dalla tua luce, ma di una tranquilla sperimentazione del tuo amore.
L’anima, tutta illuminata, resta immobile per godere della presenza di Dio tanto quanto è permesso.

Più di una volta Guglielmo nota che, in questi momenti, lo Spirito Santo invade, attira l’anima, stimola il suo amore, e ama in lei:

L’anima è invasa da un fiume di gioia così impetuoso che le sembra di vederti “tale quale sei”, mentre con piacere medita il bene che ci hai dimostrato nell’ammirevole mistero della tua passione. Bene tanto grande quanto te. Bene che è te stesso.
L’anima allora, colma di amore afferra e contiene l’Incomprensibile e l’Incontenibile; comprende l’Incomprensibile. In realtà essa è più catturata di quanto catturi, perchè chi cattura in lei, non è lei stessa, ma lo stesso Amore, che è lo Spirito Santo.

Questa irruzione dello Spirito Santo è un felice sconvolgimento interiore; è un’esperienza spirituale completamente nuova, una trasformazione nel più intimo dell’essere, una vita che invade tatto. L’anima diventa una risplendente immagine divina, è come divinizzata.

Senza dubbio, quando questa esperienza sarà finita, la luce non brillerà più, ma l’anima ne resterà segnata. Quando Guglielmo commenta la frase della sposa del Cantico dei Cantici;”Bruna sono ma bella” la interpreta: dopo la grazia dell’unione, dopo l’esperienza di Dio, non sono più illuminata, sono di nuovo senza fulgore;conservo però, la nuova bellezza che mi è stata data.

Guglielmo non tralascia mai di dire che questa preghiera spirituale non dipende da noi; essa è un dono di Dio. Non sempre l’uomo “spirituale” ne fa l’esperienza. Quando allora non ci viene data, umilmente e senza paura di sbagliare, bisogna accettare di ritornare a un’orazione più semplice.

Così come lo stato ragionevole deve normalmente raggiungere lo stato spirituale, altrettanto è impossibile che lo stato spirituale non ritorni, ogni tanto, a quello ragionevole. Essere senza interruzione sotto l’impulso dello Spirito non è di questa vita.

In altre parole, qualche volta si ritornerà a una scena del Vangelo, ci si rappresenterà Cristo nella sua umanità, si mediterà una verità di fede. Ciò che fa spesso Guglielmo che, lungi dal mettersi fra gli “spirituali“, si pone umilmente fra “le anime deboli”.

A Dio non piace del resto che Guglielmo non sia uno Spirituale! Più o meno a sua insaputa, dimostra attraversi i suoi scritti sull’esperienza di Dio, sull’azione e l’irruzione dello Spirito Santo nell’anima, di essere familiare a queste grazie di unione. Testimoni questi due ultimi testi che dimostrano a che altezze s’innalzava Guglielmo. Lo Spirito Santo fa partecipare l’anima a ciò che è lui stesso : legame d’amore del Padre e del Figlio nella Trinità.

Così è la stupefacente condiscendenza del Creatore per la sua creatura: l’uomo si trova messo, in un certo senso, in questo abbraccio e in questo bacio fra il Padre e il Figlio che è lo Spirito Santo. Si vede unito a Dio da questa stessa Carità che fa l’unione del Padre e del Figlio.

Giunta a questo stadio, l’anima vuole solo ciò che Dio vuole. Essa è matura per questa ultima rassomiglianza a Dio, che Guglielmo chiama l’“unità” di spirito.

Si chiama “unità di spirito“ non solamente perchè lo Spirito Santo la realizza o vi dispone lo spirito dell’uomo, ma. perchè è lo Spirito Santo, lui stesso, Dio-Carità.
In effetti, essa si produce, quando Colui che è l’Amore del Padre e del Figlio, la loro unità, la loro soavità, il loro legame, il loro bacio il loro abbraccio... diventa per l’uomo rispetto a Dio, ciò che in virtù dell’unione consustanziale è per il Figlio verso il Padre e per il Padre verso il Figlio. (o meglio il legame vivente dell’amore).
Quando la coscienza fortunata si trova presa nell’abbraccio del Padre e del Figlio, quando in un modo ineffabile, inesprimibile, l’uomo di Dio merita di diventare, non certo Dio, ma ciò che Dio è per natura: ecco ciò che diventa l’uomo per la grazia.

L’ ORAZIONE NELLA VITA

Per Guglielmo di Saint-Thierry, orazione e vita si richiamano mutualmente e si compenetrano. L’orazione impregna la vita cristiana e tende a divenire continua; e poco a poco la vita cristiana viene trasformata dalla preghiera.

Momenti di preghiera nella giornata

Guglielmo, è chiaro, consacra ogni giorno del tempo alla preghiera . Le sue “ Meditazioni “ e altre preghiere che ci ha lasciato non sono composizioni cerebrali: esse sono l’eco della sua anima, vissute prima di essere scritte. Egli ci insegna a fare altrettanto, a riservare dei tempi di preghiera nelle nostre giornate.

In modo speciale raccomanda una pratica ai suoi occhi molto preziosa: la meditazione quotidiana della Passione di Cristo.

Chiunque ha il sentimento del Cristo sa quanto è vantaggioso alla pietà cristiana, conveniente al servitore di Dio, consacrare ogni giorno un po’ di tempo a rivivere attentamente nel proprio cuore i benefici della Passione di Cristo e della Redenzione per “assaporarli deliziosamente nell’intimo della propria anima e fissarle fedelmente nella propria memoria”.

Queste ultime righe possono sorprendere; esse hanno infatti, un enorme importanza nel pensiero di Guglielmo. Questa meditazione sulla morte e risurrezione del Cristo consiste in un ricordo appassionato e pieno di fede di tutto ciò che il Signore ha sofferto nella sua Passione. Per Guglielmo si tratta di una vera “comunione“, di una “comunione spirituale. E’ sicuro, non vi si riceve fisicamente il corpo e il sangue di Cristo, come nell’Eucaristia, ma la “grazia del sacramento”‘ vi è donata.

Questa “celebrazione” intima, Guglielmo la ricollega non al sacerdozio ministeriale, ma al sacerdozio battesimale di tutti i fedeli:

La celebrazione rituale di questa santa e venerabile commemorazione (la messa), in luoghi e tempi stabiliti è riservata ad alcuni uomini rivestiti di questo ministero. Ma ciò che ne costituisce la realtà spirituale è alla portata di tutti i cristiani a cui s’indirizzano queste parole: “ Voi, proprio voi, siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perchè proclami le opere meravigliose di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce.” (IPt. 2,9) E’ possibile quindi a tutti i cristiani di fare questa celebrazione, di servirsene,di appropriarsene per la propria salvezza in tutti i tempi e in tutti i luoghi. L’unica condizione richiesta è uno slancio di amore.

Guglielmo insiste su questa “ comunione spirituale “ con stupefacente vigore - e sa quel che dice, questo teologo sperimentato ed allo stesso tempo mistico eccezionale :

Se lo desideri, si, se lo desideri veramente, è a tua disposizione a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ogni volta che ti ricordi di ciò che Cristo ha sofferto per te, ogni volta che applichi la tua anima a questa considerazione con fede e affetto, tu mangi il suo corpo e bevi Il suo sangue.

Verso un’orazione continua

Chi pratica l’orazione, sente il bisogno di dedicarsi ancora di più all’orazione, di trasformare la sue giornate e le sue azioni, in una preghiera continua.

In un modo molto concreto, Guglielmo, nella sua “Lettera ai fratelli”, dimostra come anche gli esercizi più “corporali” della giornata - il sonno, i pasti, il lavoro manuale, - possono esser vissuti pur continuando il contatto con Dio, pur rimanendo alla sua presenza. E’ una specie di preghiera continua che ingloba anche i più umili dettagli della vita.

Così, al momento di coricarsi, consiglia di portare con se un pensiero di fede e di addormentarsi con lui. Con molto giudizio osserva che ci si addormenterà tranquillamente, che il riposo sarà pacifico e il risveglio facile e piacevole. Col pensiero della fede che è continuato per tutta la notte, al risveglio si ritrova il proprio slancio e si è pronti a “ritornare a ciò da cui non si è completamente usciti”: l’unione con Dio

Quando stai per addormentarti, porta sempre con te nella tua memoria o nel tuo pensiero qualcosa che ti permetterà di addormentarti tranquillamente, che a volte influenzerà persino i tuoi sogni, e che accogliendoti al tuo risveglio ti restituirà lo slancio del giorno prima.

Lo stesso per i pasti. Guglielmo raccomanda di mantenere la presenza di Dio, di nutrire la propria anima così come si nutre il proprio corpo.

Quando mangi non dedicarti esclusivamente al cibo. Ma, mentre il tuo corpo prende il suo cibo, che la punta della tua anima non trascuri il proprio. Che rimuggini e assimili un pensiero attinto al ricordo della bontà infinita di Dio, o una parola della Scrittura : la tua anima ne sarà nutrita mentre la mediterà o, semplicemente se ne ricorderà.

Quanto al lavoro manuale, se è necessario per guadagnarsi da vivere, ha anche il vantaggio di procurare allo spirito un certo riposo. Ma non deve essere occasione di distrazione. Nel pensiero di Guglielmo, il lavoro manuale assicura non solo la continuità, ma anche l’intensificazione della vita di unione con Dio:

Avrà meno lo scopo di ricreare lo spirito che di assicurare agli sforzi spirituali la conservazione, l’aumento della loro gioia. Lo spirito si riposa un momento, ma non si rilassa mai.

I benefici nella vita cristiana

In chi prega l’anima e il corpo sono segnati dall’orazione. Per prima cosa l’anima anela a una grande purezza. La prima cosa che Dio fa a chi si avvicina a lui è quella di aprire il cammino dell’unione con lui. E per questo Dio lo purifica: il più piccolo attaccamento, fosse anche solo un filo, sarebbe un ostacolo a questa unione . Così Dio ispira all’anima che è assidua alla - orazione il desiderio di una grande purezza:

La sposa che aspira alla visione di Dio,desidera avere un cuore puro, una coscienza pura, una sensibilità pura, una intelligenza pura, una purezza totale.

Nello stesso tempo l'anima conosce un accrescimento delle altre virtù. Guglielmo nel suo "Specchio della fede" ci mostra che le tentazioni che assalgono l’uomo sono di due specie: sensualità per la carne, orgoglio per lo spirito. Per vincere le prime è necessario ricorrere alle mortificazioni corporali; per vincere le seconde bisogna cercare “aiuto: nell’orazione, nella lettura, nella meditazione”. Si lotterà così contro l’orgoglio, meditando sull’umiltà del Salvatore chiedendogli la grazia della conversione...

E’ sopratutto nell’esperienza mistica, quando la grazia si impadronisce dell’anima che le virtù acquistano tutta la loro portata. In particolare le virtù della fede, della speranza e della carità , ma anche le altre, come la pazienza e l’umiltà ricevono un forte impulso. Se contempliamo il Verbo fatto carne, umiliato sofferente, non sorprende che l’anima si accenda del più intenso desiderio di assomigliargli :

Impossibile vedere il Bene supremo senza amarlo. Impossibile non amarlo per tutto il tempo che ci è concesso di vederlo. Così vero che poco a poco l’amore dell’uomo perviene a una certa rassomiglianza con un altro Amore: quello che ha indotto Dio a farsi simile all’uomo prendendo l’umiliazione della condizione umana. E questo per stabilire l’uomo in uno stato di somiglianza con Dio, facendolo partecipare alla sua vita divina per mezzo della glorificazione.
A quest’uomo sembra dolce, allora, essere associato all’umiliazione della somma Maestà,diventare povero della povertà del Figlio di Dio, conformarsi alla divina Sapienza, vivere interiormente i comportamenti di nostro Signore Gesù Cristo.

L’orazione non solo favorisce la crescita delle virtù, ma agisce anche sul corpo stesso. Più di una volta Guglielmo constata che quando l’anima ha incontrato Dio in una grazia di unione, in una esperienza intima, il corpo si spiritualizza e irradia qualcosa dell’anima. Parlando dei monaci di Signy o di Clairvaux, Guglielmo scrive;

La luce che brilla nel loro interno, si riflette con tutta naturalezza , sui loro visi. Essa comunica ai loro lineamenti, a ogni loro comportamento una ammirevole semplicità: :e quasi una provocazione del tuo amore... Perfino i loro corpi prendono un aspetto spirituale, i loro visi angelici riflettono una bellezza unica.

Se è vero che Guglielmo di Saint—Thierry è stato un Maestro di vita spirituale, una guida eminente per tutti quei monaci che al XII° secolo, lo hanno conosciuto e amato, hanno gustato le sue opere e “bevuto“ le sue parole, oggi ancora per chi legge assiduamente i suoi scritti e lo prega, può diventare un maestro un padre spirituale, un amico. Una guida nelle vie dell’orazione.


Spiritualità benedettina e cistercense

Annotazioni antropologiche sul desiderio
a servizio della formazione monastica (1)

di Dom Bernardo Olivera, abate o.c.s.o
Abate Generale dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza


INTRODUZIONE

Ancora una volta vorrei dare un contributo antropologico nel contesto della nostra formazione monastica. L’uscita di una mezza dozzina di giovani monaci adulti negli ultimi due anni mi ha tatto pensare. In quasi tutti i casi, c’è stato un paio di dati in comune: la scoperta dell’amore umano incarnato in una donna concreta e la relativizzazione totale di tutto ciò che era stato vissuto precedentemente. Sembra che la scoperta dell’amore umano abbia fatto diventare irreale la ricerca monastica di Dio.

Ovviamente, non si tratta ora di mettere in discussione la vocazione di questi giovani; si tratta, piuttosto, di interrogarci sulla formazione che abbiamo offerto loro. Alcune domande pertinenti potrebbero essere le seguenti: su quali basi umane è stato costruito il grattacielo spirituale? Che tipo di antropologia stava alla base, era il presupposto del processo formativo? Siamo convinti che la grazia edifica sulla natura? Favoriamo forse delle dicotomie, pur affermando il contrario? Perché le giovani monache non fanno esperienze simili? Forse le donne sono più realiste, anche se noi, uomini, siamo più carnali? Reprimiamo la dimensione istintiva per privilegiare quella razionale? Diamo gran valore a ciò che è spirituale a detrimento di ciò che è corporale? Continuiamo a leggere come allegorie i testi biblici sull’amore, svuotandoli del loro spessore umano? Coltiviamo il senso di appartenenza alla comunità? E si potrebbe continuare così, con altri interrogativi analoghi.

Non è mia intenzione rispondere direttamente alle questioni che ho appena suggerito. Tuttavia, i paragrafi che seguono offriranno qualche abbozzo di risposta, Il tema che tratteremo può essere formulato con queste parole: «Annotazioni antropologiche sul desiderio a servizio della formazione monastica». Tratterò quindi il tema in una forma parziale ed incompleta (si tratta si semplici «annotazioni») e il mio approccio sarà principalmente antropologico, pur senza dimenticare che l’antropologia cristiana trova il suo significato proprio e completo nell’ambito della teologia.

Il seguente testo del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica mi è servito da ispirazione e sarà utile come punto di partenza:

Dio stesso, creando l’uomo a propria immagine, ha iscritto nel suo cuore il desiderio di vederlo, Anche se tale desiderio è spesso ignorato, Dio non cessa di attirare l’uomo a sé, perché viva e trovi in Lui quel/a pienezza di verità e di felicità che cerca senza posa. Per natura e per vocazione, l’uomo è pertanto un essere religioso, capace di entrare in comunione con Dio, Questo intimo e vitale legame con Dio conferisce all’uomo la sua fondamentale dignità (cap. I,2).

Questo testo del magistero pone il desiderio in stretta relazione con l’immagine di Dio nella creatura umana; il desiderio fontale o strutturale spinge la creatura alla ricerca della pienezza del Creatore e fa di lui un essere religioso e degno.

Non è necessario dire che questo testo del Catechismo affonda le sue radici nella tradizione agostiniana. Effettivamente, come non ricordare queste celebri parole del Santo dì Ippona: «Ci hai creati per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (5. Agostino, Confessioni 1,1.1). La Regola di Benedetto e gli scritti di San Gregorio Magno furono gli strumenti principali attraverso i quali, nel corso del Medio Evo, venne trasmessa la spiritualità agostiniana ai monasteri d’Occidente. Questa è la linfa che nutre e dà vigore alla nostra tradizione cistercense, Bernardo di Chiaravalle trova qui il fondamento della sua dottrina spirituale.

Il tema del desiderio occupa un posto centrale nell’antropologia cistercense. Il linguaggio mistico dei nostri Padri esprime e manifesta l’esperienza del desiderium. Cinque termini fondamentali si riferiscono ad essa: desiderium, affectus, amor, caritas, contemplatio, nuptiae. Inoltre, Bernardo utilizza diversi sinonimi nei suoi Sermoni sul Cantico dei Cantici, ad esempio: suspirare (sospirare, 59,4), appetire (desiderare, 47,5), sitire (avere sete, 7,2), sospendere (essere sospeso, 172), clamitare (chiedere a grande voce, 74,7), se afflictare (affliggersi, 31,5), inhiare (anelare, essere a bocca aperta per l’avidità, come un uccellino che aspetta il cibo da sua madre 28,13), deficere (venir meno, 28,13), fIere (piangere, 58,11). Tutto ci dimostra l’importanza del tema e costituisce un altro motivo per riflettere su di esso nell’oggi in cui viviamo.

Inizieremo consultando la rivelazione biblica, per indicare il posto centrale che occupa i[ desiderio nell’antropologia ebraico-cristiana. Considereremo quindi l’etimologia del termine, i suoi paradossi e l’onnipresenza del desiderio nell’esperienza umana, in modo speciale nella sessualità, nella religione, nella psicologia e nelle culture. Concluderemo con alcune riflessioni sulla relazione del desiderio con la virtù teologale della speranza. Ad ogni punto, cercherò di trarre delle conclusioni e di sottolineare alcuni aspetti in rapporto alla formazione monastica.

1. Desiderio e immagine e somiglianza

Nell’antropologia biblica, troviamo un termine che riveste una importanza fondamentale per capire l’esperienza umana del desiderio. Questo sostantivo appare fin dalle prime pagine della Bibbia: Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne una nefesh vivente (Gen 2,7).

Una semplice consultazione dei dizionari e degli studi di teologia biblica dell’Antico Testamento dimostra che nefesh ricorre circa 754 volte nella Sacra Scrittura, con un’amplia gamma di significati: alito, soffio, anima, vita, gola, appetito, desiderio, essere vivo, vita, persona. Per quanto ci interessa, basterà dire che può indicare:

- Un organo fisico-corporeo che permette di respirare o inghiottire: la gola, il collo (Is 51,23; Sal 69,2; Pr 3,22; 25,25), la bocca (Is 5,14; Pr 28, 25), e perfino lo stomaco (Is 29,8; Pr 6,30; Sal 107,9).

- La funzione fisiologica relazionata con tali organi: la respirazione (Gen 35,18; Lam 2,12; Gb 11,12), la sete (Sal 78,18; Pr 16,26), la voglia di cibo (Dt 23,25; Pr 12:10; Sal 106,15).

- In senso traslato, la tensione della brama o del desiderio (1Sam 20,4; Pr 19,2; Sal105,22).

Questo vuol dire che nefesh può essere utilizzato anche per designare l’uomo vivente come essere di desiderio, strutturato verso la relazione con l’altro/Altro per la realizzazione di se stesso. In questo senso potremmo tradurre liberamente il testo di Gen 27 nel modo seguente: e l’uomo divenne un desiderante vivo. Quando l’amata del Cantico parla dell’amato come dell’amore della mia anima, è come se dicesse: colui che è desiderato dai miei desideri! (Cf 1,7; 3,1-4; cf. è,6; 6,12). Leggiamo anche nel Salmo 130,6: la mia anima (la mia nefesh) è protesa verso il Signore come le sentinelle verso il mattino. In altre parole: la struttura della mia persona in quanto essere di desiderio è orientata verso Dio, come la sentinella che attende l’aurora (Cf Sal 42,2.6.12; 43,5).

Come abbiamo appena visto, il termine nefesh viene tradotto a volte anche con anima, vita o anche con un pronome personale; difatti, quando è utilizzato in relazione con i sentimenti, indica globalmente il centro vitale della persona: il suo sentire, il suo reagire ed anche il suo decidere (Gdc 18;25; 2 Sam 5,8; 17,8; Is 19,10; 38,15; Pr 11,25; 14,10; Ger 42,21; ecc.).

Questa dottrina biblica è stata assunta da S. Agostino, che afferma: il desiderio è il seno del cuore (Confessioni, 10,8). Alcuni filosofi moderni si pongono nella stessa ottica, uno di essi non esiterà ad affermare: il desiderio è l’essenza dell’uomo (Spinoza, Etica, IV, 18).

A partire da questo desiderio fontale e strutturale, noi, esseri umani, viviamo desiderando e moltiplicando desideri, I nostri desideri risvegliano tutta una costellazione di sentimenti: viviamo desiderando e sentendo. Questa realtà così fondamentale del nostro vivere umano deve occupare un posto privilegiato nei nostri programmi di formazione monastica. Il monastero sarà una scuola di carità nella misura in cui saprà educare i desideri e ordinare gli affetti.

2. Etimologia e significato

Un essere umano si comporta come tale quando funziona in forma «desiderante», affettiva, volitiva, cosciente ed intelligente. Cioè, il desiderio, l’affettività, la volontà, la coscienza e l’intelligenza sono le funzioni psichiche fondamentali del comportamento di un essere umano, uomo o donna. Il desiderio è una struttura di base, prima di differenziarsi in desideri diversi. Questo desiderio fontale soggiace alla nostra affettività e alla nostra volontà, Ma che cosa ci insegna l’etimologia del sostantivo desiderio rispetto all’esperienza indicata dallo stesso termine? Tra le diverse possibili etimologie, mi soffermo sulla seguente. La parola «desiderio» deriva dal latino: de-siderare, che si compone di una particella privativa (de) e di un derivato verbale (da sidus-eris: stella), da qui si ottiene: sentire la mancanza di una stella.

La cultura cinese c’i insegna anch’essa qualche cosa di interessante a questo proposito. Il termine «speranza» (wang, in mandarino) si scrive con un ideogramma composto da due parti. Nella parte inferiore, un uomo in piedi su una piattaforma, guarda verso l’alto; nella parte superiore: la luna crescente. Questo vuoi dire che la speranza viene rappresentata mediante un essere umano che attende e desidera che giunga la luna piena. Questo stesso ideogramma, in giapponese, è usato in riferimento al desiderio (nozomi) e alla tensione del desiderio (nozomu).

Quando dunque parliamo di desiderio, ci esprimiamo metaforicamente e ci riferiamo al movimento verso qualche cosa o verso qualcuno assente, che si mostra ed è percepito come buono ed attraente. Più in particolare, il desiderio implica un sentimento di assenza, di ricerca di ciò che è assente, un trattenere l’assente reso presente e un nuovo sentimento di assenza per l’insoddisfazione di quanto che si trattiene nel presente. Bernardo di Chiaravalle descrive concisamente questa esperienza del desiderio: tutti gli esseri dotati di ragione, per tendenza naturale, sempre aspirano a ciò che loro sembra migliore, e non sono soddisfatti se manca loro qualche cosa che considerano migliore (Dil, 18).

Da quanto abbiamo detto finora si può dedurre una lezione importante per il processo di maturazione personale. Solamente quando riconosciamo la nostra «carenza» strutturale possono emergere il mondo e gli altri in quanto diversi e con tuffo il loro potenziale di significato e di missione da compiere.

L’accettazione della mancanza e dell’assenza, con la solitudine esistenziale che ne consegue e che ci caratterizza come esseri umani, è un requisito imprescindibile per stabilire relazioni con gli altri. Difatti, solo quando riconosciamo di essere persone carenti può emergere l’altro in quanto altro e divenire compagno. Per nessuno, noi siamo tutto, e nessuno può essere tutto per noi. Questa è una condizione perché possano esserci: la coppia, l’amicizia, la fraternità, la comunità e la solidarietà. Ma sempre ci sarà una distanza, una separazione e una differenza costitutive. Tutto è presenza e assenza, anche nella comunione più intima.

Quando il nostro desiderio è stato configurato e delimitato dalla separazione, dalla differenza e dall’assenza, si potrà evitare questa triplice tentazione:

- La fusione con l’altro/a che finisce con distruggere l’amore: un rischio abbastanza comune nel processo della formazione monastica iniziale.

- La cosificazione dell’altro/a a servizio di sé: un rischio possibile per i superiori/re carenti di una sufficiente maturità umana.

- L’autoeliminazione a servizio di quello si suppone sia il desiderio dell’altro: un rischio di non poche giovani in formazione, che cercano di compiacere alle loro formatrici.

3. Paradossi e dimensioni

Il desiderio è una realtà paradossale e onnipresente nella nostra vita umana. Ci pone in movimento e in ricerca a partire da una mancanza e da una insoddisfazione. Desiderare è riconoscersi incompleti, in uno stato di carenza ed in presenza di qualche cosa di assente il cui possesso appare come una soddisfazione o un piacere. Da qui deriva una conseguenza importante: ogni desiderio risveglia dei sentimenti; sotto la riattivazione dell’affettività soggiace il desiderio.

3.1. Paradossi

Qualcuno ha affermato che, a causa del desiderio, viviamo un certo disagio o ansia e, di conseguenza, questa esperienza di disagio sta alla base di ogni attività umana. Ma qualcun altro ha risposto: se non abbiamo qualcosa da desiderare, saremo felicemente dei disgraziati. Molti paradossi del desiderio sono diventati sentenze o massime popolari, ad esempio:

- Non pretendere che le cose siano come vorresti, desidera che siano come sono.

- Se tu potessi soddisfare la metà dei tuoi desideri, raddoppieresti le tue inquietudini.

- Quanto più desideri tanto più senti la mancanza.

- È più stimolante un desiderio impaziente che essere saziati di piacere.

- Una felicità difficile da raggiungere, la si gode il doppio.

- Il desiderio diminuisce quando abbondano le occasioni e le facili soddisfazioni.

- Il molto diventa poco quando si desidera un po’ di più.

Ci angustiamo di fronte alla possibilità dell’insuccesso: possiamo fallire e non raggiungere quello che vorremmo. Ma può succedere il contrario. Tuttavia, tra il nostro desiderio e la sua realizzazione si dà una grande distanza: le nostre realizzazioni sono di solito corte, in confronto alle nostre speranze. Nulla ci colma pienamente, la sazietà è fugace, il desiderio ci lascia al di qua di quello che desideriamo, il desiderio ci lascia sempre affamati: un milione di baci non spegne il desiderio di baciare! Il desiderio sembra saziarsi soltanto di infinito e di eternità.

Se il fine del desiderio fosse [lasciarci in] una penosa insaziabilità, il mondo e noi, creature umane, saremmo un assurdo e un senza senso. Per questo è necessario non dimenticare mai che il desiderio ci permette di vivere e ci trasforma in esseri di speranza. L’attesa e la speranza sono esperienze vissute, radicalmente umane: se sono proteso nella speranza, sono vivo. In definitiva, il desiderio ci espone non solo all’angustia ma anche e soprattutto alla speranza.

Il desiderio invita a uscire da se stessi, pone in contatto con gli altri, mette in relazione. È esperienza di incompiutezza e di limite, ma anche possibilità di essere più e meglio. Mettendoci in rapporto con gli altri, il desiderio permette a noi di porci come soggetto: Io sguardo dell’altro risveglia il mio proprio sguardo. Fare attenzione ai nostri desideri ci permette di conoscere noi stessi per dire chi siamo. Abbiamo qui un compito fondamentale nel processo di formazione, soprattutto nella tappa iniziale: verifica che cosa e chi desideri, e saprai chi sei.

È vero che il desiderio ci mette in movimento e alla ricerca di qualcosa o di qualcuno di cui avvertiamo la mancanza: crea una tensione verso qualcosa di più. Ma questo «di più», in ultima istanza, lo possiamo ricevere soltanto come dono e regalo. Per questo, il desiderio è anche spazio, apertura, accoglienza del dono e, soprattutto, accoglienza di colui che dona.

È anche vero che, tra i paradossi del desiderio, bisogna segnalare la sua ambiguità: può essere buono o cattivo; il desiderio può deviare, Il verbo desiderare (hamad) viene utilizzato in Gen 2,9 in senso positivo: Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi (lett. desiderabili) alla vista e buoni da mangiare. Ma nel capitolo successivo lo stesso verbo è usato in riferimento al desiderio da cui nasce il peccato: Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito (lett. desiderabile) agli occhi ... (Gen 3,6). Tuttavia, nel Cantico dei Cantici troviamo un riferimento a questa situazione, ma prima del peccato, quando la sessualità ancora era fonte di piacere, di gioia e di felicità in Dio: Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani. Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palata (Ct 2,3).

L’apostolo Paolo denuncia senza ambagi l’ambivalenza del desiderio: Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste (Gal 5,16-17).

Ogni persona, uomo o donna, che abbia deciso di seguire Cristo sotto la mozione dello Spirito, dovrà vivere concretamente un’ascesi del desiderio per orientarlo verso il bene ed evitare il male. Si tratta di un’ ascesi che ha un’importanza primaria negli anni di formazione iniziale, ma che assume un’importanza permanente e continua, in tutto il corso della vita.

3.2. Dimensioni

Il desiderio fontale e strutturante del nostro essere umano genera tutta una gamma di molteplici aspirazioni, brame, aneliti, ansie, appetiti, voglie, ambizioni, passioni, capricci... che nella vita di ciascuno di noi progressivamente vanno prendendo forma con il passare del tempo. Tutto questo dà origine a una tipografia del desiderio estremamente varia, in stretta relazione con le vicende (gratificazioni, fantasie, relazioni) della propria biografia personale.

Ma può accadere, e di fatto succede, che gli obiettivi autentici del desiderio siano repressi e, di conseguenza, ignorati; i sogni sono una via che facilita l’emergere dei desideri ignorati. Quanto più grande è l’ambito dei desideri repressi ed esclusi, tanto meno autentica diviene la vita: non si sa più quello che si vuole! Si confonde il volere con le velleità e il capriccio con il desiderio. E in questo modo si possono imboccare strade completamente sbagliate e si può finire col trovarsi in qualsiasi genere di vocazioni frustrate.

Analogamente, l’ignoranza e l’incompatibilità dei nostri desideri può paralizzare la nostra vita o dare origine a un conflitto insopportabile, fra gli uni e gli altri. Probabilmente, questa è una delle cause più frequenti delle nostre «nevrosi» temporanee o permanenti. D’altra parte, la dispersione dei desideri o il loro non avere oggetto concreto è di solito causa di ansia e di disagio diffuso.

La radicalità della struttura del desiderio e la varietà infinita di oggetti che sembrano soddisfarlo fa sì che il desiderio sia presente in quasi tutte le dimensioni della nostra vita. È importante che vi sia chiarezza, per poter scegliere e rinunciare, mettere ordine e vivere in modo integrato, in armonia. Vediamo sinteticamente come si manifesta il desiderio in alcune dimensioni dell’esistenza umana.

- Dimensione biologica: brama, attrazione ed unione sessuale.

- Dimensione affettiva: tenerezza, affezione, innamoramento, romanticismo. 

- Dimensione ludica: humor, scherzo, sport.

- Dimensione pragmatica: laboriosità, capacità di servizio.

- Dimensione interpersonale: paternità, maternità, fraternità, amicizia, socievolezza. 

- Dimensione gerarchica: autorità, politica.

- Dimensione possessiva: proprietà, commercio.

- Dimensione intellettuale: ricerca, informazione, scoperte.

- Dimensione estetica: bellezza, arte.

- Dimensione altruistica: gratuità, beneficenza, sacrificio.

- Dimensione religiosa: assoluto, infinito, al di là, Dio.

Il desiderio è quindi una struttura fondamentale dell’essere umano in relazione con una carenza e/o assenza. Il desiderio, come abbiamo appena visto, si apre su un’ampia gamma di dimensioni e di esperienze interdipendenti, alcune delle quali sono più comuni di altre; tra queste, le due seguenti:

- Prima di tutto, il desiderio è presente nell’ambito del nostro mondo sessuale ed affettivo. Qui trova la sua origine e il maggior campo di sviluppo. La sessualità è la dimensione della vita dove più grande è la promessa di giungere a un’unione che rompa i limiti della differenza, dell’assenza e della distanza. L’affettività, ovviamente, alimenta e dà vita a molti tipi di relazioni interpersonali, come la paternità e la maternità, la fraternità e l’amicizia.

- Ma forse, è l’ambito religioso quello che offre la possibilità di colmare le aspirazioni e gli aneliti più profondi. Di fatto, il desiderio trova nella religione: amore, protezione, sopravvivenza, trascendenza, trasformazione. I monaci e le monache, in tulle le grandi religioni, sono persone che vivono un desiderio irresistibile di Dio, Dio è per loro attrattiva e fascino più grande di qualsiasi altra cosa; su questa base, può poggiare una vocazione monastica cristiana ed evangelica.

4. Desiderio, sessualità e religione

Abbiamo già fatto riferimento all’origine ultima del desiderio umano: il fatto di essere creati a immagine di Dio. La psicologia del profondo indica anche l’origine esistenziale del desiderio: il fatto di nascere separandoci da nostra madre. A partire da questa duplice origine, il desiderio tende verso un duplice fine: la pienezza nella comunione beatificante con Dio (fine divino) e la complementarità nell’unione gradevole e gioiosa con l’altro/a (fine interpersonale).

Il desiderio spirituale, il cui fine è la comunione con Dio, si potrebbe chiamare: anelito beatificante. E il desiderio corporale-affettivo, il cui fine è relazione interpersonale, eterosessuale o no, si potrebbe definire: appetito sessuale ed eros personale. Per cui potremmo dire che: il sesso è desiderio biologico, l’eros è desiderio personalizzato, e l’anelito spirituale è desiderio divinizzato.

Ora, l’appetito sessuale saziato è causa di piacere, l’eros interpersonale produce gioia, ma da solo l’anelito beatificante apre ad una felicità incommensurabile.

La tabella seguente permette di sintetizzare in modo più chiaro le affermazioni fatte fin qui:

Due dimensioni fondamentali del desiderio umano

Religiosa

Corporale-affettiva

Origine

Creazione a immagine e somiglianza del Creatore

Separazione dal seno materno al momento della nascita

Nome

Anelito beatificante

Appetito sessuale (sesso)

Eros personale (affettività)

Fine

Comunione con Dio

Unione complementare con l’altro/a

Effetto

Felicità

Piacere (sessuale)

Gioia (affettiva)

4.1. Desiderio e sessualità

L’eros personale e l’appetito sessuale hanno qualcosa in comune: sono due forze che ci permettono di uscire da noi stessi e di sradicare l’egoismo occulto nel nostro essere. Ciononostante, l’eros ed il sesso sono realtà diverse. È importante che sia ben chiaro ciò che li differenzia:

- Il sesso produce tensione e distensione corporea, l’eros personalizza e dà senso, illuminando e guidando questa esperienza. L’eros favorisce l’intimità tra le persone, mentre il sesso solo rende possibile la relazione tra i corpi.

- Il sesso senza eros termina nel proprio corpo, mentre l’eros, anche senza sesso, è orientato verso l’altro/a.

- L’atto sessuale è il simbolo più potente della relazione tra due persone di relazione e l’eros è l’intimità nella relazione.

- L’eros va molto più in là del sesso; se il sesso è soglia, l’eros è traversata.

L’eros in quanto desiderio di comunione, pienezza e gioia interpersonale con una persona amata permette di sentirsi appagati e di donare pienezza. L’eros, così considerato, è attraente e terribile: attraente, per la sua promessa di pienezza; terribile, perché chiede di abbassare i controlli o lasciare da parte ogni controllo. L’intimità affettiva risveglia l’eros, e questo è attraente; allo stesso tempo, l’intimità a cui invita l’eros chiede di abbassare sempre di più i controlli, e questo è causa di timore di paura. Molte volte, i celibi e le vergini che hanno scelto di essere tali, non sanno dove tracciare la frontiera per essere fedeli alle loro scelte. L’eros, nella relazione tra un uomo e una donna segue di solito la dinamica seguente:

- sentimento piacevole per il fatto di stare insieme;

- impulso a creare intimità accorciando la distanza che separa; 

- tacere per «entrare in contatto» e sentire; 

- la gioia, lasciata al suo proprio impulso, può correre alla ricerca del piacere.

La rinuncia e l’autocontrollo che implica la scelta della verginità e del celibato non devono costituire un impedimento perché noi, uomini e donne, sappiamo vivere e trascorrere un momento gradevole insieme. Chi non sa vivere con gratitudine questi momenti sani e cordiali, di solito compensa con fantasie ciò di cui si priva o reprime.

La cultura occidentale, invadente nei confronti delle altre culture, ha asservito l’eros al dominio del sesso. È vero che non siamo più sotto la tirannia della rivoluzione sessuale della fine degli anni ‘60; in quel frangente si è passati dal piacere proibito al piacere obbligatorio; il sesso divenne coercizione e si stabilì la dittatura dell’orgasmo imposto, imprescindibile e obbligatorio. Nella maggior parte delle nostre società si vive tuttavia una sessualità che si è svincolata dalle norme e, molte volte, si riduce a un gioco, a discapito delle persone. I nostri giovani, uomini e donne, provengono da questa società e da questa cultura.

D’altra parte, certe spiritualità sublimi e certi «soprannaturalismi» privi di appoggio sulla natura hanno prodotto lo stesso effetto della rivoluzione sessuale secolare: la morte deIl’eros, cioè del desiderio interpersonale. Difatti, noi, donne e uomini pii, cercando di soggiogare la carne finiamo con l’uccidere la carne e l’affezione, l’appetito e l’eros...

Forse sarà necessario proclamare e programmare un’altra rivoluzione, per restituire all’eros interpersonale tutto il suo fascino e tutta la sua apertura verso l’assoluto e il trascendente. La «rivoluzione erotica» non è una rivendicazione dell’erotismo in quanto maschera delle pulsioni genitali, ma una promozione dell’eros per umanizzare e sublimare il nostro sesso.

4.2. Desiderio e religione

noto che la religione è fonte di soddisfazione per le aspirazioni più fondamentali delle creature umane. Il linguaggio divino è il linguaggio dei sentimenti profondi, che stanno alla radice dei desideri di base del cuore umano. È qui dove si situa l’origine della conversione, della fede, della giustizia e dell’amore. La Scrittura ci offre numerosi esempi: Mi hai sedotto, Signore, ed io mi sono lasciato sedurre (Ger 20,7); Tu mi scruti e mi conosci (Sal138); Non ardeva forse il nostro cuore..? (Lo 24,32). Attraverso questo linguaggio, Dio seduce i nostri cuori per aprirli a Gesù Cristo e alla sua Buona Novella. La seduzione di Dio è liberatrice ed esige una nostra libera risposta.

In questo contesto, possiamo chiederci: il desiderio-anelito di Dio poggia sul fondamento del desiderio-appetito sessuale? In altre parole: esiste un continuum (senza soluzione di continuità) tra la dimensione biologica del desiderio e la sua dimensione religiosa?

Molti psicologi non esitano a dare una risposta affermativa alla domanda che abbiamo appena formulato. Alcuni teologi avrebbero dei dubbi: tra la natura e la grazia si dà un salto qualitativo. Altri teologi, senza negare la gratuità della grazia divina, affermano l’esistenza di una continuità tra la persona umana, corpo-anima a immagine di Dio, e l’unione con Dio. Essi affermano, con i teologi medioevali: l’essere umano è capax Dei!, la grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la perfeziona).

Per San Bernardo, non esiste nell’essere umano un «desiderio specifico» che lo orienti verso Dio. È l’unica forza umana del desiderio che, a partire dall’appetito biologico orientato dal libero arbitrio, spinge a cercare e a trovare Dio. Nei Sermoni sul Cantico dei Cantici, la simbologia erotico- sessuale si riferisce al desiderio dell’anima santa, che è alla ricerca di Dio e dell’unione con lui. La brama e l’eros sono a servizio della carità.

Sia come sia, al di là del dibattito teologico, resta chiaro che senza il desiderio-eros personale la ricerca di Dio diventa qualcosa di artificiale, mentale, inconsistente, vuoto, e crolla come un castello di carte di fronte alla presenza e alla relazione concreta con qualcuno che colpisce il nostro cuore e mobilita la nostra corporeità. lo sono del parere che, al riguardo, noi uomini siamo più vulnerabili delle donne, nella misura in cui siamo più teorici e propensi all’astrazione.

Abbiamo già indicato fin dall’inizio che il desiderio di Dio è costitutivo della natura umana. In tutti gli esseri umani si dà una capacità innata di Dio, esiste un orientamento verso di lui che precede la scelta morale. È in questo senso che la creatura umana è stata creata a immagine di Dio.

Alcuni autori medievali, soprattutto i cistercensi, si distanziano alquanto dalla tradizione agostiniana in un punto molto concreto, pratico. La dottrina agostiniana sembra tracciare una frontiera netta tra l’«uomo esteriore» e l’«uomo interiore», fra la carne (sessualità) e lo spirito: la prima è causa di perdizione così come il secondo è causa di salvezza. Questa spiritualità può in tal modo risultare dualista e con fondamento insufficiente nello spessore corporeo dell’essere umano.

Molti Padri spostano la frontiera e fanno guadagnare terreno alla carne. L’eros e l’affezione spontanea, che si radicano nel sesso, sono chiamati a svolgere un ruolo importante nella ricerca di Dio. Ascoltiamo Guglielmo di San Thierry nel suo Commento al Cantico dei Cantici:

«Di conseguenza, nel momento in cui consegna agli uomini il cantico dell’amore spirituale, lo Spirito Sacro riveste la sua relazione spirituale e divina [con gli esseri umani], con immagini esterne desunte dall’amore carnale, perché soltanto l’amore comprende pienamente le cose divine. L’amore carnale, però, è chiamato a unirsi a quello spirituale e a trasformarsi in lui, poiché solo l’amore capterà rapidamente ciò che gli è simile. E come è impossibile che il vero amore, avido di verità, possa dilungarsi o soffermarsi per molto tempo sulle immagini, rapidamente passerà per questa via conosciuta alla realtà che prima aveva evocato attraverso delle immagini. Quindi l’uomo, pur essendo un uomo spirituale, in ragione della dimensione corporale della sua natura, abbraccerà le delizie dell’amore carnale, e, una volta assunte grazie allo Spirito Santo, le porrà a servizio dell’amore spirituale. Per questo, appare qui una donna che, senza nessun pudore, emerge con impeto da un luogo sconosciuto e, senza dire chi è, né da dove viene, né a chi si dirige, esclama: “Che mi baci con il bacio della sua bocca!”» (Esp Cant 24).

Guglielmo si pone in quella grande corrente spirituale che propone la ricerca del volto del Signore a partire da ciò che noi siamo in forza della creazione, per poter giungere ad essere per la grazia ciò che possiamo essere.

Sono cosciente che questa dottrina / pratica può avere i suoi rischi ed essere motivo di timore. Le frontiere sono meno chiare e il mondo interiore è più complesso. Restano alcuni interrogativi: fin dove si può scendere per potersi appoggiare con piede sicuro su se stessi e risalire con sicurezza e potenza verso il mondo dello spirito?

Il problema fondamentale, sia per i medievali sia per noi, sta in questo: come trasformare l’eros in carità. Probabilmente, la soluzione di questo problema è diversa per gli uomini e per le donne. Le donne potrebbero erotizzare indebitamente l’amore di carità, noi potremmo ridurlo a dimensione fisica o non saper cosa fare delle risonanze carnali che si potrebbero avere di tanto in tanto.

La trasformazione delI’eros interpersonale in anelito spirituale non è facile, ma è possibile. Questo implica, innanzi tutto, assumere consapevolmente e pacatamente la propria sessualità a partire dalla pulsione fisica. Quindi, concentrare l’esperienza nell’eros inteso come desiderio di pienezza, comunione interpersonale e gioia in questa comunione. Da ultimo, lasciare che l’eros trascenda ogni adesione definitiva con qualsiasi creatura, perché diventi anelito di unione e beatitudine in Dio.

L’alternanza di assenza e presenza, di consolazione e desolazione gioca un ruolo molto importante nella purificazione dell’eros e nella sua trasformazione in anelito di Dio.

In questo contesto, dovremmo localizzare e potenziare nella nostra formazione la devozione cistercense all’umanità di Gesù, la contemplazione dei «misteri» di Cristo prima della Pasqua, che conduce alla ricerca e alla comunione con la sua persona divina e gloriosa. Di più, sarebbe necessario attualizzare la spiritualità sponsale, intesa come «dono reciproco in comunione feconda», una spiritualità che presenta indubbiamente delle ricchezze, benché non sia esente da difficoltà che si possono sanare con una corretta pedagogia. Quanto più sani, pieni e felici noi saremo se queste parole dell’asceta Giovanni Climaco fossero realtà nelle nostre vite: Felice l’uomo il cui amore per Dio è come l’eros dell’innamorato per la sua amata! (Scala, 30,5).

Desiderio e psicologia umanista

La psicologia contemporanea di approccio umanistico parla del «potenziale umano». Con queste parole, ci informa che l’essere umano possiede un capitale naturale per crescere e raggiungere un modo dì essere e di vivere pienamente personale. In questo contesto, si colloca la dottrina sui bisogni o le tendenze umane, una dottrina che completeremo con la realtà antropologica del desiderio.

Un bisogno ha questa particolare caratteristica: ci chiude nel presente e in noi stessi; il desiderio, invece, ci apre e ci lancia verso il futuro e verso gli altri, I bisogni si possono soddisfare facilmente: una volta raggiunto l’oggetto adeguato, si elimina la tensione suscitata nell’organismo (l’acqua appaga la mia sete). Ma nessun oggetto presente può soddisfare completamente il desiderio, perché in ultima istanza, il desiderio rimanda a un passato e a un futuro, a cui nessun presente può dare una risposta compiuta ed esaustiva.

Ora, tanto i bisogni di quanto i desideri sono «tendenze» tese verso la soddisfazione, per uscire da uno stato carenza o privazione fisica, psichica o spirituale. È facile constatare che questa tendenza verso la soddisfazione gioca un ruolo di primaria importanza in qualsiasi teoria o pratica sulla motivazione umana.

Cerchiamo di sintetizzare e classificare queste tendenze (bisogni e desideri) in tre gruppi:

- biologico: aria-respirazione, acqua-sete, cibo-alimentazione, sonno-riposo, sesso-accoppiamento-riproduzione, casa- abitazione-vestito... 

- psicologico: sicurezza-protezione, amore-appartenenza, stima di sé, stima degli altri, convivenza-associazione... 

- spirituale: bellezza, bontà, verità, giustizia, ordine, pienezza, significato, libertà, perfezione, religione, spiritualità, mistica...

È facile constatare che le tendenze cosiddette biologiche sono più dei bisogni che dei desideri; mentre le tendenze psicologiche e spirituali sono dell’ordine del desiderio.

Queste tendenze — bisogni e desideri — non sono presenti tutti contemporaneamente, né con la medesima urgenza. Esiste una certa gerarchia degli stessi. In generale, ognuno dei diversi livelli si fa sentire nella misura in cui il livello precedente è stato soddisfatto. È evidente che la situazione concreta di una società e o di un gruppo può facilitare o impedire la soddisfazione dei bisogni, moltiplicarli o confondere i bisogni con i desideri.

L’esperienza insegna che molto difficilmente si accede alla soddisfazione dei desideri spirituali quando si soffre di una grave carenza per quanto riguarda i bisogni biologici o i desideri psicologici. Chi soffre di sonno, a fatica si potrà dedicare con efficacia alla ricerca del significato della Parola di Dio. Allo stesso modo: una insufficiente stima di sé condiziona la libertà e l’apprezzamento della bontà della vita.

Quanto abbiamo appena detto ha un’incidenza pratica nell’ambito della formazione monastica. Nella maggior parte dei nostri monasteri, i bisogni biologici dei membri sono coperti. Ma non sono sicuro di poter affermare la stessa,cosa per quanto riguarda i desideri psicologici, che frequentemente servono da supporto per i desideri spirituali. Sarebbe anche il caso di chiederci se le nostre comunità sono esperte nell’arte di sviluppare desideri spirituali aperti all’esperienza mistica di comunione con Dio e se tutto è ordinato a questo fine.

6. Desiderio e cultura capitalista

Le grandi culture umane si sono poste e si pongono in modo diverso di fronte al desiderio. La cultura orientale tende verso la liberazione del desiderio; certe correnti buddiste considerano che coloro che si liberano del desiderio si liberano dall’«io» e giungono a una libertà piena; uno dei nomi del nirvana è, appunto, «annichilamento della sete» (tanhakkhaya); estirpata la sete del desiderio, cessa ogni sventura e sofferenza.

La cultura greca classica insegnerà a controllare i desideri; Aristotele elogia Platone perché afferma che l’educazione consiste nell’insegnare a desiderare ciò che è desiderabile. Ritroviamo la stessa dottrina in S. Tommaso d’Aquino, quando commenta il Padre nostro nella Somma Teologica: La preghiera è una interprete del nostro desiderio davanti a Dio; domanderemo correttamente solo ciò che correttamente possiamo desiderare. E nella preghiera del Padre nostro non solo si chiedono tutte le cose che si possono desiderare correttamente, ma anche nell’ordine in cui si devono desiderare; in questo modo non è soltanto una regola per le nostre petizioni, ma anche una norma di tutti i nostri sentimenti (informativa totius nostri affectus) (II-II, 83:9).

La cultura medievale occidentale, impregnata di cristianesimo, come abbiamo visto, ha posto il desiderio a servizio della ricerca di Dio. Si può persino pensare che alcuni dei commentari al Cantico dei Cantici fossero uno strumento pedagogico in funzione della trasformazione del desiderio. Invece, la cultura occidentale nord-atlantica contemporanea, manipola i desideri a servizio del commercio e dell’economia, Consideriamo brevemente questo ultimo punto

Il sistema economico capitalista si sta imponendo nel mondo attuale per il motivo seguente: diventa sempre più capace, su scala mondiale, di produrre «cultura» generando un’antropologia di massa con un sistema di valori e di bisogni che corrisponde al modello economico da lui offerto.

Per raggiungere il suo obiettivo, il capitalismo affronta i desideri in un modo che gli è proprio: li confonde intenzionalmente con i bisogni e poi tenta di modellarli o di conferire loro una forma particolare. Come già abbiamo detto, i bisogni si possono appagare e sono strettamente connessi con la dimensione sociale. I desideri profondi sono insaziabili e sono strettamente connessi con l’interiorità, la profondità e l’originalità dell’essere.

Le teorie capitaliste sono pensate in funzione della soddisfazione dei bisogni- desideri. Ma non si tratta, innanzi tutto, della soddisfazione dei bisogni-desideri di lucro degli imprenditori, bensì della soddisfazione dei bisogni-desideri dei consumatori. Il lucro è una conseguenza della soddisfazione dei bisogni-desideri del cliente che consuma.

Ma, oltre a soddisfare, si tratta anche di manipolare e di creare dei bisogni-desideri. E, poiché i bisogni sono innumerevoli e il desiderio e’ illimitato, infinita sarà la possibilità di lucro. Il capitalismo non educa i desideri, ma piuttosto li confonde con i bisogni, li produce, li riproduce e li plasma artificialmente. In questo modo, il consumatore (che ha potere d’acquisto), assume e consuma quello che desidera e anche quello che non desidera, ma di cui crede fermamente di avere bisogno.

Nel mondo capitalista, i mass media obbediscono alla legge del massimo profitto economico. Non sono affatto neutrali; anche se si proclamano «indipendenti», i mass media sono alleati politicamente ed economicamente, I profitti derivano dalla pubblicità o dalla propaganda. Il telespettatore, l’ascoltatore o il lettore vale secondo il tempo quotidiano che trascorre davanti alla televisione, all’ascolto della radio o nella lettura di giornali e periodici. Il proprietario dei media vende a chi vuol fare pubblicità un certo numero di lettori, ascoltatori e telespettatori e ore di consumo; in altre parole, si vendono udienze/pubblico. Per questo, lo scopo che persegue la programmazione è accattivarsi il maggior numero possibile di udienze/pubblico durante il maggior tempo possibile. I media, soprattutto la televisione, sono orientati in modo da mantenere il desiderio dello spettatore attaccato allo schermo o al microfono, mediante stimoli ben programmati. Ed è in questo modo che i bisogni-desideri diventano profitto economico e vengono manipolati per lo stesso fine.

L’educazione dei nostri desideri, nel contesto monastico, non può ignorare questa manipolazione dei desideri. É necessario saper discernere per poter fare scelte libere e giuste. D’altra parte, il passaggio dal lavoro manuale al lavoro commerciale in molti nostri monasteri, ci costringe ad entrare, in qualche modo, in questa manipolazione capitalista e pubblicitaria dei desideri. È possibile passare da soggetto manipolato a soggetto manipolatore. Non è facile tracciare la frontiera tra la dimensione economica e quella apostolica, tra l’aspetto lucrativo e quello pastorale. L’etica commerciale dei monaci non si può allineare con l’etica commerciale dei secolari. È un tema su cui riflettere, come qualcuno/qualcuna ha già fatto notare, per evitare ambiguità che possono minacciare il fondamento del progetto formativo e della trasmissione del carisma monastico alle giovani generazioni. Difficilmente noì potremmo insegnare a pregare il Padre nostro, come principio che ordina dei nostri desideri e regola i nostri sentimenti, se al tempo stesso cooperiamo con la manipolazione degli uni e degli altri.

7. Desiderio e speranza cristiana

La virtù della speranza corrisponde al desiderio di felicità che Dio ha posto nel nostro cuore quando ci ha creati. Questa speranza dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna. S. Agostino lo esprime così: Tutta la vita di un buon cristiano è un santo desiderio. Ma quello che desideri, non lo vedi; tuttavia, desiderando, dilati la tua anima così che possa riempirsi quando giungerà il tempo della visione (In Io.ep. tr. IV: 6).

Questo desiderio e questa speranza aperti verso l’escatologia, devono costituire il dinamismo più potente per lavorare con perseveranza e fedeltà. La speranza non è evasione dal mondo e proiezione verso il cielo, è piuttosto: un impegno nel tempo e un fondamento che poggia sulle basi eterne del cielo. La Chiesa cammina sulla terra e lavora in essa come un cittadino che contempla il cielo. In definitiva: Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente(1Tim 4,10).

La presenza di Gesù Cristo risorto al cuore della Chiesa e del mondo è la fonte della nostra speranza. Questa presenza ci spinge a desiderare, anche gemendo, la manifestazione gloriosa del Signore e a lavorare di buona Iena per un mondo migliore.

Non c’è dubbio che una delle caratteristiche della vita monastica è appunto la sua apertura escatologica e il suo realismo terreno, fondato sul desiderio e sulla speranza. La storia secolare del monachesimo attesta questa duplice realtà: il desiderio di Dio e l’anelito del cielo, radicali in realizzazioni culturali significative e creative.

Alcune delle nostre comunità nel mondo nord-occidentale sono oggi provate nella loro speranza. Il progressivo invecchiamento, la mancanza di vocazioni, la diminuzione dei membri, la povertà di persone competenti e l’incertezza del futuro sono, certamente, una prova difficile da attraversare. Ma costituiscono anche un’opportunità e un’occasione. L’opportunità di vivere una vita monastica trasparente al vangelo, spoglia di aderenze ormai prive di significato, libera ed agile nel suo ritmo quotidiano, a dimensioni domestiche, come di una famiglia, nell’economia e negli edifici, centrata essenzialmente sulla ricerca e l’incontro con il Signore nella comunione e nella carità.

Forse, perché questo sia possibile, non è necessario cercare di conformarsi [a un certo stile] con toppe e rammendi, bisogna desiderare una vita monastica nuova, in un nuovo cielo e in una terra nuova, dove un uomo e una donna nuova possano nascere di nuovo. Bisogna scegliere ciò che è più impossibile, più difficile, più utopistico. Bisogna saper dire: «si, ma non ancora». Bisogna diventare generatori e generatrici di speranza, testimoniando che la lupa allatterà degli agnellini, che la guerra sarà soltanto un termine da cercare in dizionari sorpassati, che le armi saranno pezzi da museo, che la parola data sarà più valida di mille documenti di fronte a notaio pubblico, che tutti abbandoneranno il potere per cominciare a servire, che i sordi comporranno sinfonie, che tutte le città saranno pavimentate da verdi giardini, che i deserti saranno popolati della presenza divina e che i monaci e le monache saranno fermento di comunione là dove ci sono ancora vestigi di discordia.

Osiamo pensare, sempre nel clima dell’utopia, che una vita monastica così rinnovata potrebbe risultare attraente per i giovani di oggi che, come quelli di ieri, cercano Dio. E, con maggiore sicurezza, possiamo affermare che questa vita monastica sarà un mezzo favorevole per comunicare il carisma dei nostri Padri alle nuove generazioni.

Ad ogni modo, anche se non succederà nulla di quanto abbiamo detto, se nonostante i nostri desideri resteremo soli e di fronte alla morte, possiamo credere che tutti ci ricorderanno con gratitudine e nessuno dimenticherà che siamo stati, in questa vita, dei pellegrini della speranza, che abbiamo saputo cantare al cielo mentre costruivamo la comunità monastica terrestre.

Il nostro pellegrinare monastico si alimenta della «preghiera del desiderio», che ci permette di perseverare nel deserto e nella notte. Questa semplice vita orante è un grido di speranza in un mondo che cerca di dare un senso alla sua esistenza. Voglia Dio che tutti noi possiamo elevare lo sguardo ed unire le nostre voci cantando:

«O vero meriggio, pienezza di calore e di luce, dimora del sole, sterminio delle ombre, che prosciughi le lagune ed espelli le impurità! O solstizio perenne, quando il giorno mai più tramonterà! O luce meridiana, o temperatura primaverile, o bellezza estiva, o abbondanza autunnale, riposo e festa dell’inverno!» (San Bernardo, SC 33,6).

1) Conferenza ai Capitoli Generali, ottobre 2005.

Ecco, io sono con voi tutti i giorni,

fino alla fine del mondo (Mt 28,20)

Uno degli aspetti essenziali dell’Eucaristia è costituito dal permanere della presenza di Cristo in mezzo a noi, sotto le specie del pane e del vino: da qui deriva il grande fascino, e la somma venerazione della chiesa. I due ultimi documenti sull’Eucaristia di Giovanni Paolo II ritornano a più riprese su questa dimensione del mistero eucaristico: l’Eucaristia, presenza salvifica di Gesù alla comunità dei fedeli, è quanto di più prezioso la chiesa possa avere nel suo cammino nella storia (EdE § 9). E ancora: con tutta la tradizione della chiesa, noi crediamo che, sotto le specie eucaristiche, è realmente presente Gesù. L’Eucaristia è mistero di presenza, per mezzo del quale si realizza in modo sommo la promessa di Gesù di restare con noi fino alla fine del mondo (MND § 16, passim).

Alla luce di questo dimorare di Gesù, per mezzo del Santissimo Sacramento, in mezzo a noi, si potrebbero rileggere alcune pagine della Scrittura per cercare di risalire alle prime manifestazioni e quindi alle radici di questa tenace volontà di comunione di Dio con gli uomini, evidenziando come in essa raggiungano il loro compimento alcune dinamiche constanti e fondamentali della rivelazione. 

La Sapienza

All’inizio della Bibbia, il gesto creatore (Gen 1-2) descrive l’iniziativa originaria di Dio che suscita l’esistenza di tutte le cose,  e al loro vertice l’uomo, come propria immagine e somiglianza (come suo figlio, si potrebbe dire, secondo Gen 5,3). I libri sapienziali, meditando sulla creazione, vedono a questo inizio primordiale del dono di Dio la mediazione della Sapienza (Pr 8,22-31; cf 3,19-20; Sir 24), presente accanto a Lui prima che esistesse qualsiasi altra opera delle sue mani, come architetto,  come artefice (Pr 8,30). Il carattere avvincente e misterioso della Sapienza personificata, induce a intuire già nell’AT una specie di rigonfiamenti interno – secondo quanto ha  scritto P. Beauchamp – nell’assoluto monoteismo ebraico; ma al di là della questione propriamente esegetico-teologica sollevata dall’immagine e dalla lettera del testo, interessa qui focalizzare l’attenzione sul v. 31: la mia gioia è stare con i figli dell’uomo (come traduce incisivamente la Vulgata: deliciae meae esse cum filiis hominum). La Sapienza media la relazione di Dio con gli uomini, e gode di permanere con loro (cf. Sir 24,11; Bar 3,38-4,1).

Come è noto, il NT  riprende la concezione veterotestamentaria della Sapienza per introdurre al mistero del Verbo di Dio nei testi  di Gv 1,1.3.14 e Col 1,15-20 e per contemplarne la centralità nel piano della salvezza. Fermiamo tuttavia la nostra attenzione su un solo aspetto di questa dinamica: la volontà di comunione di Dio che essa implica. Non si tratta infatti di una dimensione insolita o innovatrice che viene così messa in luce: il Dio della rivelazione ebraico cristiana viene identificato, fin dalle prime pagine della Genesi, attraverso la relazione interpersonale che instaura con il suo popolo ( il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri) che va costituendo, chiamandone i capostipiti di là dal fiume Eufrate (Gs 24,2; Dt 26,4), e liberandolo dalla schiavitù con la sua mano potente e il braccio teso (Sal 136,2: Ger 32,21; Ez 20,33,34).

La relazione di appartenenza reciproca che egli instaura con la sua tenace volontà di comunione è illustrata dalla frequenza delle cosiddette formule di alleanza  [Io sono (sarò) il vostro Dio e voi siete (sarete) il mio popolo (miei):  Es 6,7; Lv 26,12; Dt 7,6, ecc.]. Il Signore è un Dio vicino (Dt 7,4; cf. 30,14; Ger 23,23), che abita in mezzo ai suoi (Dt 6,15; 7,21; Ez 37,26-27) e ripete sono, sarò con te dovunque andrai, ai singoli e al popolo, soprattutto nei momenti di prova (cf. Gen 26,24; 28,15; Es 3,12; Dt 2,7; 31,6.8.13; Gs 1,5.9; Gdc 6,12.16 ecc.). E’ questo uno degli aspetti che caratterizzano il Dio della Bibbia, in confronto alle forme di religiosità dell’Antico Medio Oriente o altre fedi anche monoteistiche: non è solo l’annuncio e la memoria della irruzione del Dio Trascendente nella storia, ma la sottolineatura della presenza, dell’accompagnamento, dell’esser con – nelle migrazioni, nei pericoli della guerra e delle traversie dell’esistenza, nelle difficoltà e nelle angosce del vivere  - che Egli manifesta nei confronti di coloro che si è scelto.

Questa dinamica che attraversa tutto l’Antico Testamento trova il suo culmine, e insieme un compimento addirittura inimmaginabile, secondo la concezione ebraica nel mistero dell’Incarnazione. E il Verbo divenne carne e mise la tenda in noi, recita letteralmente il testo greco di Gv 1,14, sulla scia di Sir 24,8 ( fissa la tenda in Giacobbe e in Israele prendi possesso della tua eredità; cf. v. 11). L’essere  con diventa essere in.

In altri termini, l’incarnazione del Verbo in cui culmina il dono di Dio agli uomini,  non è fine a se stessa né costituisce un evento isolato, chiuso e delimitato nella persona di Cristo. L’idea-forza che soggiace all’annuncio evangelico è che l’incarnazione continua il suo effetto e la sua dinamica nei credenti. La finalità della rivelazione del Verbo è, a partire dall’origine, trascinare, coinvolgere in Lui  tutti uomini nella relazione con il Padre (Gv 1, il18),  perché essi siano il luogo della sua presenza.

È questo il mistero tenuto nascosto dai primordi del tempo e rivelato da Dio ai suoi santi, secondo le parole di San Paolo: Cristo in voi, speranza della gloria (col 1,26). San Giovanni, nei discorsi dell’ultima cena, sviluppa il tema in varie modulazioni e secondo differenti prospettive, ripetendo l’invito: Rimanete in me (gv 15, 4.5.6.7.9.10; cf. 14, 20) perché Gesù vuole introdurre i suoi nella mirabile immanenza reciproca  che egli vive con il Padre (17, 21.23. 24 -26).

Il banchetto della Sapienza

Ma ritorniamo alla dimensione più specificamente eucaristica in questo mistero, riprendendo alcuni testi veterotestamentari che l’annunciano, la prefigurano e la preparano. La prospettiva di gratuità ed apertura universale del dono di Dio appare esplicitamente come invito a un banchetto nel convito che la Sapienza personificata offre ai poveri di Spirito in Pr 9, 1-6 (cf. Sir 24,19-21) lo stesso invito, rivolto agli esuli in Babilonia, ritorna in Is 55,1-2 come figura di riconciliazione, per la partecipazione ai beni della nuova alleanza.  In dimensione escatologica (cf. Is 25,6), la stessa immagine viene utilizzata per i tempi messianici, rappresentati come la celebrazione di un convito comunionale di Dio con gli uomini. Questo complesso simbolico si pone in continuità con la gioia festiva dei sacrifici di comunione che esprimevano sacramentalmente la partecipazione allo stesso principio vitale -  l’alimento del sacrificio -  da parte di Dio e dei credenti presenti alla celebrazione liturgica (Es 24,10-11; Dt 16,13-15; 1 Sam 9,13: Ne 8,10-12).  

Nel Nuovo Testamento, il tema viene ripreso e approfondito nelle rappresentazioni evangeliche del festino di nozze del proprio Figlio a cui il Padre invita tutti gli uomini (Mt 8,11; 26,29; 22,2-10; Lc 14,15-24; Ap 19,9; ecc.). Modulano la stessa raffigurazione simbolica, pur, sviluppandone alcune risonanze particolari, anche i racconti sinottici delle moltiplicazione dei pani e dei pesci (mc 6,30-44; 8,1-9; Mt 14,13-21; 15,32-39). Il significato propriamente eucaristico di questi segni viene ampliato teologicamente in Gv 6, nel discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao sul Pane di Vita (Gv 6,22-58). Qui l’immagine della convivialità di Dio con noi si dilata e si approfondisce attraverso il tema del pane del cielo che Dio dà, in continuità con il dono della manna nel deserto (Es 16; Sap 16,20-29; Sal 78,24-25; 105,40; ecc.).

La rappresentazione di Dio che provvede il nutrimento ad ogni creatura è correlativa alla sua potenza creatrice, come illustrano vari testi dell’antico testamento (Sal 104, 13.16.28; ecc.). Sul versante dell’uomo, la simbologia della fame e della sete, che indica l’anelito verso ciò che assicura la sopravvivenza, sono evocate insieme per indicare che la vera vita è data attraverso la Parola di Dio (Dt 8,3; Am 8,11). Il Signore è, quasi per definizione, Colui che sazia (Sal 16,11; 17,15; 22,27; 34,11; 37,19; 63,6; 65,5; 78,25; 90,14) in quanto Egli stesso è la Vita dei suoi (Dt 30,,20: perché Lui è la vita). Il primo principio e l’ultimo compimento del vivere – e quindi del desiderio, in senso realistico e spirituale – è il Dio Vivente, fonte dell’acqua viva (Ger 2,13;  Sal 42-43; 63,2; 143,6; cf. Ez 47,1; Gl 4,18; Zc 14,8; ecc.).

Nel NT, le stesse immagini e la stessa terminologia vengono riprese in riferimento a Gesù e allo Spirito che egli dona, nel sacrificio di sé stesso  (Gv 4, 14; 7, 37-39); sacramentalmente, ciò avviene in ogni celebrazione della Eucaristia, dove il Pane di Vita eucaristico sazia la nostra fame e la nostra sete (Gv 6, 35; cf Sir 24, 20) infondendo in noi la vita eterna (Gv 6, 33.50. 51). Qui, le figure conviviali ed escatologiche evocate in precedenza trovano un punto di sintesi e si articolano con la dimensione della comunione -  immanenza reciproca. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui (Gv 6, 56; 14 20. È in tal modo che Egli,  eminentemente, permane in noi. San Paolo descriverà la presenza di Cristo in colui che crede in Lui (Gal 2,19) creando perfino dei nuovi termini nella lingua greca del tempo e moltiplicandoli liberamente, per descrivere l’esistenza cristiana come vita con Lui, per Lui, in Lui (cf Rm 6, 4-8; 8, 16-32; Ef 2, 5-6; 3, 6; Fil 3, 10-11.21; Col 2, 12-13; 3, 1-4;  2 Tim 2,11-12).

La vita, dono nell’incontro comunionale 

Le linee evidenziate qui dal principio della creazione, attraverso la mediazione della Sapienza, fino all’Incarnazione e al festino escatologico celebrato nella pienezza dei tempi, illustrano essenzialmente la volontà di comunione che il Dio con noi (Immanuel: Is 7, 14; 8, 8.10; Mt 1,23) persegue nella sua relazione salvifica (cf. Ap 21,3: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”). Questa dinamica tende alla diffusione/condivisione della vita di Dio, che scaturisce dall’incontro con Lui ( cf. Gv 10, 10: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza).  

Vorremmo sottolineare qui come la vita nasce dall’incontro: originariamente, dalla Parola di Dio, che costituisce l’altro di fronte a sé  (Gen 1-2) e che il NT, sviluppando Pr 8, vede compiersi nella mediazione di Cristo,per Cristo e in vista di Cristo  (Col.1,16). L’apostolo Giovanni, contemplando al vertice della creazione il Verbo di Dio fatto carne, annuncia, in dimensione comunionale, che in Lui era la Vita, e la Vita era la luce degli uomini (Gv 1,4; Gv 1,2: la Vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta… la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi). 

La vita viene identificata con la persona stessa di Gesù Cristo, che ci conduce al Padre: Io sono la via, la resurrezione e la vita (Gv 11,15). E’ per Lui, secondo la 1 Gv, che noi viviamo:  Dio ha mandato il suo  unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui  (1 Gv 41, 9). Una mediazione non solo metafisica o teologica, ma esistenziale, concreta, sovranamente libera: Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a Chi vuole…. Come il Padre possiede la vita in se stesso, così ha dato al Figlio di possedere la vita in se stesso (Gv 5, 21.26). Chi crede nel Figlio ha la vita eterna (Gv 3, 35). 

L’incontro con Dio da cui scaturisce la vita, si dà quindi per e nella comunione con il Figlio suo (Gv 6, 57: Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me; cf. Gv 1,1-13). Attraverso di lui, siamo introdotti fin d’ora, per grazia, nell’incontro dell’amore frontale del Padre e del Figlio e dello Spirito, inizio dell’essere. 

Il mistero eucaristico, nel già e nel non ancora del nostro pellegrinaggio nel tempo, è la modalità sacramentale in cui tale dinamica continua esplicitamente a coinvolgere tutti e ciascuno; in esso si compie  quella immanenza reciproca che costituisce l’essenza, il vertice della esperienza umana e cristiana:Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi (Gv 14,19-20).

A cura di Sr. Germana Strola O.C.S.O.

Spiritualità benedettina e cistercense

Veri e falsi religiosi
Testo estratto dal "parabolario"
di Galando di Reigny (1)
a cura di Sr. Giovanna Grazioli o. cist.



Galando di Reigny non è uno scrittore illustre, piuttosto potrebbe essere nominato come una persona di secondo piano nel campo della spiritualità del XII secolo. Secondo le sue due opere, Parabolario e Il piccolo libro dei proverbi, possiamo situare la sua attività scritturale in due diversi monasteri. Inizialmente, era membro d’un gruppo d’eremiti, fondato nel104, nella diocesi Autun (Francia), i cui fondatori erano preti ed uno si chiamava Gerardo. Si sono stabiliti in un luogo chiamato, Fontesme o Fontemoy, che vuoi dire: Fons humidus, fonte umida. Alcuni monaci e anche Gerardo sono morti a causa della loro permanenza in questo luogo malsano. Il successore di Gerardo, Giuliano insieme agli altri monaci chiese di entrare nell’Ordine Cistercensi affiliandosi a Clairvaux. San Bernardo accettò l’incorporazione scegliendo come abate il monaco Étienne de Torcy che trasferì il monastero sulla terra di Reigny, diocesi di Auxerre, nel 1134.

Galando scrive nel prefazio del libro Parabolario, di avere incominciato a scrivere secondo l’ordine dell’abate Giuliano, ma ora vuole continuare il suo scritto come monaco di Clairvaux. La seconda opera di Guglielmo, Il piccolo libro dei proverbi è dedicato a San Bernardo.

I veri e i falsi religiosi (2)

1. Si ascolta talvolta più volentieri ciò che si dice per mezzo di paragoni: per dono di Dio, abbiamo dunque composto la seguente parabola che ha per soggetto i veri e i falsi religiosi

Essendo studente (A) e percorrendo (B) numerose province con lo scopo di istruirmi, arrivai con lo spirito in una città (C) abbellita da edifici numerosi e importanti (D). Dato che la percorrevo con occhio d’ammirazione, vidi due uomini (E) dall’aspetto rispettabile e con una grande personalità. lo mi avvicinai, mi sedetti al loro fianco e ascoltandoli parlare per lungo tempo, appresi dalle loro stesse parole che uno di loro era passato da una grande povertà (F) alla più grande ricchezza; l’altro invece era diventato molto povero da ricco che era (S). Stupefatto, domandai di essere informato circa la salita del primo e la caduta del secondo.

Quello che era giunto alla ricchezza rispose per primo:

«lo ero, disse, un ragazzo (I) povero (H); ora capitò che un uomo di questo paese, nobile e molto ricco (K) esortava la sua giovane figlia (L) a sposarsi, Ella gli rispose in questi termini: “Dato che devo obbedire ai tuoi ordini, padre caro, voglio che tu mi unisca a quel ragazzo povero - è di me che parlava - perchè è di animo dolce e umile (M). Se si tratta di ricchezze, grazie a te lo ricolmerò di beni sovrabbondanti: perché dovrei sopportare, per bramosia di ricchezza, un qualsiasi riccone orgoglioso e vizioso (N) col carattere che non si accorda col mio e che offuscherebbe alla lunga la nostra unione con litigi di coppia?”. Che dire di più? Con l’approvazione di suo padre, questa fanciulla molto illustre mi è stata data in sposa con una grande dote».

2. Prendendo la parola disse l’altro:

«lo, al contrario, sono nato da una nobile stirpe (O); un tempo ero molto ricco (P). Ascolta come sono caduto in povertà. Una giovane donna, una serva, si mise a frequentare la mia casa col pretesto di rendermi dei servizi. Questo servizio che all’inizio ho accettato come necessario, con retta intenzione, si è cambiato poco alla volta nel vizio della carne (Q). Perché dilungarmi? Vinto da un amore degradato, la presi in moglie (R). Subito, il suo padrone (5) mi rivendicò per servo e si mise a saccheggiare, a devastare, a dissipare i miei beni (T) di giorno in giorno. In breve, sono stato ridotto a una indigenza così grande che tutto il mobilio della mia casa, e gli stessi abiti che indosso, ad eccezione del mantello che, era magnifico, ora vale appena un soldo. Così non oso ricevere nessun ospite nella mia casa (V) per paura che veda la mia orrenda indigenza. Se talvolta mi capita dì dover accogliere uno, chiedo in prestito dei piatti, della biancheria e quanto è necessario (X), e davanti all’ospite dico che è tutto mio.

Dopo aver valutato un po’ la situazione dissi;

«Tu non sarai mai libero finché vivrà la tua sposa. Ricordati giorno e notte di domandare a Dio la sua morte. Quando la avrai ottenuta, rendi al suo padrone tutto ciò che hai acquistato con lei, e rinuncia così a lui. Se, anche dopo questa rinuncia, egli osasse rivendicarti o reclamarti, porta la tua causa davanti al giudice (Z), e grazie al suo appoggio potrai dimorare al sicuro».

3. Diciamo ora brevemente dove vogliamo arrivare.

Cominciamo dal principio: è discepolo spirituale chiunque si sforza di conoscere i precetti divini.

Inoltre quando si raffigura nel suo cuore la vita degli uomini religiosi che dimorano in diversi luoghi al fine di imitarli, li ricerca con lo scopo di istruirsi.

Ora, se guardiamo con lo spirito la situazione della Santa Chiesa, entriamo in una specie di città; in essa vediamo degli edifici numerosi e importanti quando riflettiamo sulle differenti categorie di fedeli. Quanto a questi due uomini che si distinguono dal loro aspetto, che brillano similmente ma vivono molto differentemente fra loro, sono due generi di religiosi: i veri e i falsi.

Esteriormente non sembrano differire quasi in nulla, ma interiormente sono così lontani l’uno dall’altro quanto la verità lo è dalla menzogna.

Quell’uomo molto nobile è Dio. Sua figlia, è la saggezza, perché ogni saggezza è dono di Dio. Desiderando sposarsi - cioè generare a Dio dei figli spirituali - essa cerca di unirsi non agli orgogliosi ma alle persone dolci, secondo le parole: «La saggezza proclama sulle piazze: se qualcuno è piccolo, venga a me» (cf. Pr 9,3-4).

A chi è privo di senno essa dice:

Suo marito, prima povero e poi ricco, indica coloro che, rinunciando alla vita del secolo dove erano privati dei veri beni e elevati dal loro matrimonio con la religione pura e la saggezza spirituale, abbondano di ricchezze interiori.

L’altro, al contrario, divenuto miserabile da glorioso che era, che non aveva che un mantello prezioso per coprire la vergogna della sua mendicità, rappresenta coloro che, essendo cresciuti nella miseria di una cattiva volontà dopo aver abbracciato la proposta della vita religiosa, cadono dalla cima della santità, come da una grande ricchezza, in una povertà interiore.

Agli occhi degli uomini, sembrano ancora stare in piedi tanto coprono la malizia del loro aspetto religioso di un tempo, conservato come un abito prezioso; ma agli occhi di Dio sono già caduti, dal momento che hanno abbassato il loro spirito ai desideri della terra, come è scritto: «Cadono ai suoi occhi tutti coloro che scendono nella terra» (Sal 21,30).

4. Essi hanno ammesso all’inizio i piaceri della cupidigia, in quanto necessari, come di una serva; poi si sono disonorati sposandola: consegnandosi così al potere del diavolo, sono spogliati da lui di tutti i loro beni spirituali.

Essi non osano introdurre nessun ospite nella loro casa, poiché evitano con la più grande cura di scoprire la malizia che si nasconde sotto il tetto del loro spirito.

Se capita di farne entrare uno, cercano gli ornamenti degli altri e dicono che appartengono loro: se qualcuno, infatti, indaga sui segreti della loro coscienza. Si vantano subito di possedere delle virtù che non hanno; così dicono proprio ciò che appartiene agli altri.

Non mettono il loro mantello che in presenza di un ospite o per uscire; profondamente viziosi interiormente, «cercano di sembrare giusti davanti agli uomini» (Lc 16,15).

lo ho dato questo consiglio: cercare di ottenere da Dio la morte della sposa cattiva, perché nessuno di loro potrà respingere il giogo del diavolo a meno che l’azione divina non spenga in loro la cupidigia di questo mondo.

Una volta avvenuta la sua morte per un dono di Dio, noi rendiamo in qualche modo al diavolo tutto ciò che abbiamo acquistato nello stesso tempo dalla cupidigia, ossia tutto ciò che il diavolo dà ai suoi servitori.

E così noi rinunciamo a lui. Infatti se la cupidigia di questo mondo è perfettamente morta nel nostro cuore, ben presto abbandoniamo tutti i nostri attaccamenti terreni; ma coloro che sono dominati dal «principe di questo mondo» (Gv 12,31), si impadroniscono immediatamente di ciò che noi rigettiamo. Quanto a noi, rinunciando al diavolo, sfuggiamo al suo dominio.

Se in seguito egli avesse la presunzione di reclamarci di nuovo, portiamo la nostra causa davanti al giudice supremo con la preghiera, «spandiamo la nostra preghiera sotto il suo sguardo ed esponiamogli le nostre tribolazioni» (cf. Sal 142,3) , ed Egli «ci libererà dai nostri nemici» (cf. Sal 135,24), Lui che vive e regna.....

NOTE

A. Alla scuola di Colui che dice: « Voi non avete che un solo Maestro» (Mt 23,8).

B. «Giro attorno al tuo altare e... », ecc. (Sal 26,6).

C. Ossia nella Santa Chiesa.

D. Ossia i diversi ordini della società.

E. Due generi di religiosi.

F. Ossia lo stato secolare.

G. Ossia lo stato religioso.

H. Ossia un secolare.

I. Ossia semplice di cuore e di una natura docile.

K. Ossia Dio.

L. Ossia la Sapienza.

M. Essa ricerca gli umili (cf. Sal 112,6).

N. «La sapienza non entra in un animo mal disposto» ecc. (Sap 14).

O. «Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio...» (1Gv 3,2)

P. Le virtù di Dio.

Q. Talvolta la cupidigia mondana si insinua poco alla volta nel cuore; e mentre la si ammette come necessaria, cambia la necessità in volontà.

R. Sposa dei buoni: la carità. Sposa dei cattivi: la cupidigia.

S. Ossia, «Il principe di questo mondo» (Gv 12,31).

T. I beni spirituali.

V. Egli chiama casa la sua coscienza, a lui ripugna che la vedano.

X. Ossia le virtù.

Y. Egli «cercava di sembrare giusto davanti agli uomini» (cf. Lc 16,15)

Z. Ossia Dio.



1) GALAND DE REIGNY, Porabolaire, a cura di C. Friedlander, Sources Chrétiennes, 378, Paris 1992, Parabola n. 6, pp. 114-125. In Vita Nostra, n. 3 2002, sono state pubblicate le Parabole 3, 7 e 21.

2) La Parabola è inseparabile da questi termini.

Il progetto della nostra salvezza
inizia per mezzo di un saluto
Il saluto angelico

di Baldovino di Ford
VII TRATTATO

a cura di Dom Luigi Rotini, abate o. cist.


“Dio ti salvi”

Salve, piena di grazia, il Signore è con te

Il saluto rivolto a Maria

tu sei benedetta fra tutte le donne

(Lc 1,28)

Il progetto della nostra salvezza inizia per mezzo di un saluto, e l’annuncio di pace consacra l’inizio della nostra riconciliazione. Il messaggero della salvezza e angelo della pace, fu inviato da Dio, e questo stesso amico della verginità, rivolgendosi alla Vergine, la saluta con un nuovo ed insolito appellativo che mai, da quel momento, era stato usato. Le offre, nello stesso tempo, l’omaggio di una nuova situazione e l’annuncio di una nuova lode. Che una donna sia salutata da un angelo è cosa nuova e inaudita. Né Agar né la donna di Manoah furono salutate da un angelo quando, ambedue, godettero della presenza di un misterioso personaggio che gli rivolgeva la parola. Qui, invece, una donna è salutata da un angelo; vuol dire che si avvicina il tempo in cui le donne saranno salutate dal proprio Signore alle quali dirà: “Dio ti salvi!” (Mt 28,9).

La Vergine si chiedeva che cosa volesse dire quel saluto. Anche noi meditiamo su questo saluto, per quanto ci è possibile, e che cosa significhi. Non è questo un saluto espresso durante il cammino, ma un saluto che conduce alla patria “Lungo il cammino non fermatevi a salutare nessuno” (Lc 10,5).

Se qualcuno, con aperta adulazione e con accattivante condiscendenza voglia farti piacere in cose vane o mostrarsi benevolo e complimentoso, questi è uno che ti saluta durante il cammino. Sta attento, sii guardingo contro quelli che ti dicono: “Salve!”. Povero te se ti fai servo di questi tali! Povero te se ti dominano quelli che cercano la tua anima! (Cfr Sal 70,3). Non andare in cerca dei saluti sulla pubblica piazza. (cfr Mt 23,7); ti basti la testimonianza della tua coscienza (Cfr 2 Cor 1,12) e il Testimone fedele in cielo (Sal 89,38), al quale puoi dire: “Per quel che hai fatto ti loderò nella grande assemblea” (Sal 22,26).

C’è saluto e saluto, perché c’è differenza tra salvezza e salvezza. C’è una salvezza vana della quale sta scritto: “A nulla serve l’appoggio degli uomini” (sal 60,13); e c’è una salvezza vera della quale è scritto: “sia questo, Signore, il tempo del tuo favore” (Sal 69, 14). Questo saluto, che sia un auspicio votivo di salvezza desiderata o che sia l’annuncio di salvezza concessa da parte di chi ti saluta, non può essere una falsa lode rivolta alla Vergine.

“PIENA DI GRAZIA”

Piena di grazia in un modo unico

Poiché la verginità è sempre stata apprezzata dagli angeli, l’angelo elogia la Vergine con una lode sincera e comincia lodando la sua pienezza di grazia, dicendole: “Salve, piena di grazia!” Oh saluto che porti la salvezza, pronunciato da un angelo ed espresso in modo tale perché anche noi possiamo salutare così la Vergine! Oh allegrezza per il cuore, dolcezza per le labbra, vincolo dell’amore! Può esserci posto per l’ira lì dove c’è la pienezza della grazia? La pienezza della grazia è annichilimento del peccato e riparazione della natura. Il peccato aveva corrotto la natura e aveva provocato l’ira. Però Dio, nella sua ira, non desistette dalla sua misericordia (Cfr Sal 77,10). Riversò la sua grazia e allontanò la sua ira. Il sesso che era stato condannato da una sentenza di maledizione nella prima donna, ora lo ricolma nella santissima Vergine con una grazia di benedizione e con l’olio della misericordia. Questa è il piccolo vaso di olio(Cfr 1 Re 17,12); questa è la coppa di Gedeone piena di rugiada (Cfr Gdc 6,38); questa è l’urna d’oro che contiene la manna dolcissima caduta dal cielo come pioggia (Cfr Eb 9, 4). Chi potrà immaginare quale e quanta sia stata l’abbondanza di grazia per Colei che, prima fra tutte le donne e l’unica designata come piena di grazia, diede alla luce il Figlio unigenito pieno di grazia e di verità? (Cfr Gv 1,14).

Leggiamo che il protomartire Stefano era pieno di grazia e di forza (Cfr At 6,8). Ma siamo certissimi che Maria lo sia stato tanto in sommo grado quanto maggiore era la sua capacità di grazia. Ella potè contenere, tanto nel cuore come nella mente, l’autore stesso della grazia, Lui tanto grande, tanto immenso che l’universo intero non può contenere. Sappiamo che la beata Elisabetta era ripiena di Spirito Santo (Cfr Lc 1, 41), la quale, visitata e salutata da Maria, riconoscendo che la grazia nella Vergine era maggiore, con stupore disse: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” (Lc 1,43).

Piena di grazia affinché, per mezzo suo,la grazia abbondi in noi

Salutata con giusto motivo dall’angelo, Elisabetta saluta Colei per la quale sarebbe stata comunicata al mondo la salvezza, perché, per mezzo di Maria, siano rese grazie a Dio che dà salvezza (Cfr Sal 144,10) e manda la salvezza a Giacobbe (Cfr Sal 44,6). Per questo esiste la piena di grazia “come misura buona, pigiata, scossa e traboccante” (Lc 6, 38), perché per essa la grazia di Dio abbondi in noi. In modo singolare Dio la scelse subito e la arricchì con triplice grazia: la grazia della bellezza, la grazia della predilezione e la grazia dell’onore, per renderla bella, graziosa e gloriosa.


LA TRIPLICE GRAZIA DELLA BELLEZZA, DELLA PREDILEZIONE E DELL’ONORE

Cos’è la grazia della bellezza

La grazia della bellezza risplende su un volto buono. Un volto buono, secondo la definizione di Sant’Agostino, è ben proporzionato, di ottimo colore e pieno di allegria. L’uguaglianza dei tratti che implica una giusta proporzione, la somiglianza, l’armonia e l’accordo fatto di varietà e di somiglianza negli ambedue lati del volto, costituiscono una parte non piccola della sua bellezza. Non conviene che gli occhi siano differenti, disuguali tra sé; che le gote siano diverse; che ci sia disarmonia delle labbra; ogni particolare, qualunque sia, che per la sua deformità e irregolarità non concorda con l’altra parte che le corrisponde, si allontana dalla bellezza dell’insieme. Tutto ciò che diminuisce o eccede la misura dovuta o non si avvicina alla somiglianza con il suo somigliante, sfigura la grazia della bellezza.

La lode della vera bellezza, corrisponde più all’anima che al corpo, e nonostante questo, in nessun modo corrisponde anche al corpo. Infatti ciò che spesso si concepisce interiormente con casta dilezione del cuore, viene proiettato fuori con decoro per il ruolo del corpo. Si ingenera, però, in modo impuro, tutto ciò che non nasce dalla purezza del cuore: “Splendida dentro il palazzo, la principessa è avvolta in vesti intessute d’oro” (Sal 45,14), anche se tutta la sua gloria non sta all’interno. Spesso sgorga dal più profondo ciò che dà gloria al Re della gloria che sta nei cieli.

La bellezza interiore ama l’uguaglianza di quelli che si assomigliano. Non è opportuno segnalare sempre una differenza là dove non appare il motivo della dissomiglianza. Se giudichi in un certo modo il buono o il cattivo che c’è in te, e poi in maniera diversa ciò che c’è nel prossimo, i tuoi occhi sono differenti. Se davanti a Dio sei superbo e umile davanti agli uomini, hai un volto disuguale. Se in presenza del prossimo parli bene di lui e in sua assenza lo denigri, se lodi Dio nella prosperità e mormori nell’avversità, c’è disarmonia sulle tue labbra.

Bellezza interiore di Maria; umiltà nell’onore

Tutta questa deformità procede dal vizio della superbia che ama sempre la disuguaglianza, la differenza negli atteggiamenti, al contrario l’umiltà riduce all’uguaglianza anche le cose disuguali. Cerchiamo in questa Vergine quale sia l’uguaglianza dei tratti del suo volto, tanto buono, tanto degno di lode, che non se ne può trovare di meglio né più degno di lode tra tutte le figlie di Sion. Cosa si può chiamare più giustamente ritratto simile, se non per l’uguaglianza dell’umiltà e dell’onore, della stima e della dignità? E’ scritto infatti: “Quanto più sei grande, tanto più cerca di riconoscere i tuoi limiti” (Sir 3,18). Se sei nobile, sii anche umile. Se stai al di sopra degli altri, non disdegnare di essere sottomesso.

L’esempio di Cristo

Esaminati attentamente, e esamina attentamente anche il tuo Maestro. In quale momento si è manifestato come Maestro e perché giustamente lo è? (Cfr Gv 13,13). Esamina attentamente ciò che disse e ciò che fece: “Non sono venuto dice, per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28).Aggiunse anche: “Chi tra voi è il più importante diventi come il più piccolo; chi comanda diventi come quello che serve” (Lc 22,26).

Ecco ciò che disse. Sapete ciò che fece? Si umiliò fino ai piedi dei suoi discepoli. Chi fece così? Colui che ha ai suoi piedi, come sgabello, la terra (Cfr Is 66,1). Colui che dice: “Io sono il primo e l’ultimo” (Ap 1, 17); il primo in dignità, l’ultimo in umiltà. Ci diede un esempio affinché seguiamo le sue orme (Cfr 1 Pt 2,21) e adoriamo il luogo su cui si posero i suoi piedi (Cfr Sa 1 132,7). Venite, adoriamo e prostriamoci davanti a Dio (Cfr Sal 95,6), umiliamoci sotto e con Lui (Cfr 1Pt 5,6 e Gn 16,9), perché salverà gli umili di spirito (Cfr Sal 34,19), cioè quelli che adorano in spirito e verità (Cfr Gv 4,24). Qui si fermarono i suoi piedi. Come si fermarono? Venne nell’umiltà, e nell’umiltà perseverò. Si annullò, prese la forma di servo, e per i suoi servi, il Signore sopportò l’obbrobrio della croce, “si fece obbediente al Padre fino alla morte” (Fil 2,7-8). Qual è la somma umiltà se non questa? Che stupenda uguaglianza questa somma dignità e questa somma umiltà!

Invito ad imitare l’umiltà di Cristo

Oh anima fedele! Se per questo esempio ti sentissi protetta contro la superbia, segui, in tal modo, mediante l’umiltà, le orme del tuo Maestro che ti dice: “Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, principessa” (Cfr 7,2): “Ascolta, figlia; guarda, presta attenzione.. il Re s’innamori della tua bellezza” (Sal 45,11). Chi è il Re se non colui che è il solo Re? Ti renderai accettabile, desiderabile e amabile a lui se, piegando il tuo orecchio, ti umilii e meglio ancora se lo diventi. Quanto più ti umilii, tanto più sarai gradita al Signore.

Maria, tanto più umile quanto più innalzata

Per questo si crede che ella sia stata tanto più umile degli altri quanto più degna, lei, l’unica che dice: “L’anima mia magnifica il Signore” (Lc 1, 46); più lo magnificava, lei che era la più magnificata, più era resa sublime, l’unica che potè dire: “Perché ha fatto grandi cose in me, l’Onnipotente” (Lc I,49). Quanto più era magnificata, tanto più magnificò il Signore, perché si umiliò moltissimo e dà testimonianza della sua umiltà dicendo umilmente: “Perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc I,48).

Anche Elisabetta è testimone, quando, contemplando la Madre di Dio che si avvicinava a lei, ammira anche la sua felicità, la sua dignità e umiltà che conserva in mezzo a tanta dignità.

E’ sempre cosa ammirabile conservare, in mezzo ad una così grande dignità, tanta grande umiltà, in una situazione tanto potente una così grande umiltà; una umiltà tanto grande nella sapienza, l’eloquenza, la forza. Insomma, in tutte le cose grandi, una grande umiltà è la proporzione che va di pari passo con esse, ciò che rende bello il volto, ciò che conforma e adatta tutto perché tutte le cose concordino in ogni cosa.


LA GRAZIA DELLA BELLEZZA

La grazia del colore: purezza e riservatezza

La grazia del colore, di un candore unito alla rossore, adorna la grazia di questa bellezza. Qui il colore è il pudore. C’è un duplice pudore: il pudore puro e il pudore riservato (verecondo). La purezza e la modestia sono il giglio bianco e la rosa vermiglia. La purezza, come il suo candore, imbianca il volto; la modestia (verecondia) con il suo rossore colora le guance. Questa è la guardiana della purezza e, nello stesso tempo, è la sua bellezza e il suo ornamento. Ogni senso del corpo e dell’anima ha la sua purezza e la sua modestia. C’è una purezza degli occhi e una loro modestia; e negli altri sensi la modestia è solita essere compagna della purezza. Perciò la purezza di tutti i sensi si apprezza per l’incorruttibilità degli stessi. Dice l’Apostolo: “Temo che i vostri pensieri si corrompano, e come Eva fu sedotta dalla malizia del serpente, così voi possiate perdere la vostra semplicità e purezza nei riguardi di Cristo” (2 Cor 11,3). La santa modestia consiste nell’arrossire davanti a cose triviali; la santa purezza consiste nel conservarsi immacolati. Considera quanto puri fossero gli occhi di colui che diceva: “Io avevo imposto ai miei occhi di non guardare con passione le ragazze” (Gb 31,1). E chi guarda una donna con desiderio (Cfr Mt 5,28), non ha l’occhio impuro?.

L’occhio impuro è il segno dell’impurità dell’anima. La corruzione dei sensi va di pari passo con l’impurità. La sua integrità è il segnale della castità.

La purezza e la modestia incomparabili di Maria

L’integrità della Vergine e la purezza della sua anima e del suo corpo furono tanto grandi da renderla tutta vergine, tutta incontaminata, tutta immacolata, senza corruzione in nessuno dei suoi sensi, in nessuno dei suoi sentimenti. Tutto ciò che era vergognoso la fece sentire a disagio, tutto ciò che era cattivo lo condannò: volle solo ciò che era puro e rifiutò tutto ciò che era disonesto. Questa è, infatti, la verginità perfetta: l’integrità inviolabile di tutti i sensi. Tutto ciò che ferisce l’integrità è una specie di deflorazione della verginità. Questo è il colore risplendente, un insieme del candore della purezza e il rossore della modestia che brilla sul volto della Vergine e accresce la grazia della sua bellezza. Il suo colore fu, perciò, risplendente, fu pura alla pari della purità, di modo che in ella si compie ciò che è stato scritto: “Una donna è riservata e splendida come il sole sulle cime dei monti” (Sir 26, 16 )cc .

Alla grazia si aggiunge il fatto che è stata colmata di gioia, il suo volto si è rallegrato come fosse spalmato di olio che è segno di gioia (Cfr Eb 1,9), perché ogni devozione, piena delle fervore e della carità, offre se stessa a Dio in odore di soavità. Più tutte le figlie di Sion che esultano davanti al loro re (Cfr Sal 149,2), il suo spirito esultò in Dio suo Salvatore. (Cfr Lc 1,47). Guarda quanto è bello il volto, quanta grazia di armonia dei tratti ha disegnato su di esso, quanta grazia di purezza e di rossore ha su di esso impresso, con quanta grazia di allegria l’ha resa felice! Non solo il volto è bello, ma tutto è bello in lei, come lo dichiara chi dice : “Sei bellissima, amica mia, sei perfetta” (Ct 4,7). Guarda come la Vergine è piena di grazia e di bellezza!


LA GRAZIA DELLA PREDILEZIONE

La più amata dalle creature

In essa la grazia della predilezione non è di meno. Infatti è amata, lodata e onorata da tutti, ed è la prima, dopo Dio, ad essere oggetto di amore, lode e onore da parte degli angeli e degli uomini. Tutta la Chiesa dei santi proclama la sua lode: “Come sei fortunata, dicono le altre ragazze quando la incontrano. Anche le regine e le concubine la lodano” (CtBeata mi chiameranno tutte le generazioni” (Lc 1,48). 6,9). Ella non nasconde la grazia di tale predilezione e dice: “


LA GRAZIA DELL’ONORE

Tutto, in Maria, è degno di lode in maniera unica

Quanto grande sia la grazia dell’onore concessa a Maria non è nelle nostre facoltà determinarlo. Infatti poiché in Lei tutte le cose sono degne di lode, tanto quelle che le sono proprie quanto quelle che le sono comuni con gli altri, le une e le altre la presentano con una speciale lode. Ciò che Lei ha in comune con gli altri lo possiede in modo particolare perché ha, in maniera al di sopra di ogni misura più degli altri, ciò che gli altri hanno. Ha in modo eminente ciò che non solo Lei possiede. È casta, umile, dolce e pia. Gli altri hanno simili virtù, però non in modo simile ed uguali. Ella supera tutti, e in ogni cosa è signora del mondo, regina del mondo, degli uomini e degli angeli. Madre di Dio e figlia sua, sorella e sposa, amica ed alleata. Madre per la sua verginità feconda, sorella per la grazia dell’adozione, sorella per la grazia della comunione, sposa per la fedeltà del matrimonio, amica per la reciprocità dell’amore, alleata per la vicinanza della somiglianza. Ella è degna di essere amata più di tutti, in modo insuperabile bella, incantevole, gloriosa.

“Il Signore è con te”

Dio è con noi, Dio è in Maria, è con noi grazie a Maria

Che gloria è questa, tanto singolare, da rivolgersi a Lei dicendo: “Il Signore è con te” quando anche a Gedeone l’angelo gli disse, “Il Signore è con te, valente guerriero”? (Gdc 6,12). E il salmista dice: “Il Signore degli eserciti è con noi” (Sal 46,8). E Cristo ci dice: “Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E Isaia dice di Cristo: “Lo si chiamerà Emmanuele, Dio con noi” (Is 7,14; Mt 1,23). Prima però aveva detto: “Una vergine darà alla luce un figlio e lo chiamerà Emmanuele” Come sarebbe venuto a noi per stare con noi, se non perché venne alla Vergine che preparò, in anticipo, per rimanere con lei, in lei, uscire da lei, e per mezzo di lei in noi. Lui il nostro difensore, il Dio di Giacobbe? (Cfr Sal 46,11). Per questo il Dio di Giacobbe assunse da lei la nostra natura per rimanere sempre in noi. Egli ha detto: “La mia gioia, è vivere con gli uomini” (Prv 8,31).

In Maria Dio ha trovato le sue delizie

Se le delizie di Dio consistono nello stare con i figli degli uomini, quante delizie reputi abbia incontrato nello stare con l’unica creatura che ha scelto dai tempi antichi nella elargizione di tante delizie? In ciò che ci riguarda, egli partecipa della nostra natura e ci rende partecipi della sua grazia perché diventiamo figli ed eredi di Dio, fratelli e coeredi di Gesù Cristo (Cfr Rm 8,17), questo grande dono, questo bene tanto grande lo dobbiamo, in un modo singolare, dopo Dio, a colei cui fu detto in modo singolare: «li Signore è con te».

Ruolo di Maria nell’opera della nostra salvezza

Posta come ancella e cooperatrice di un privilegio tanto grande, ella dette la salvezza al mondo perché partorì, per noi, il proprio Salvatore del mondo. Ma] poiché non le era possibile farlo da sola, così offrì la sua disponibilità, compi il suo incarico di mediatrice, compì la sua mediazione e lo diede alla luce a beneficio di tutti; per questo l’angelo le si rivolge dicendo: «Il Signore è con te» Così si compie una cosa magnifica: la salvezza del mondo sarà possibile per mezzo suo, sarà spezzato il giogo del nemico come nel giorno di Madian (Cfr Is 9,3). Colui per il quale sei stata eletta, è al di là di ogni forza e sapienza umana, il Signore però è con te, Lui, cui nulla è impossibile (Lc 137). Così a Gedeone, quando doveva liberare i figli di Israele dalle mani di Madian, viene detto: «Il Signore è con te, valoroso guerriero». Poiché si fa accenno al coraggio, anche allora era necessaria il coraggio? Dio gli dà il coraggio, Lui, l’”Aiuto valente” (SaI 71,7). In questa opera della nostra salvezza che ha inizio per mezzo di una grazia altissima e si consuma in altrettanta grazia stupenda, si accenna alla pienezza della grazia; la lode è attribuita all’Autore della grazia che, con la cooperazione della Vergine, si manifesta come l’autore di questa opera.


LA BENEDIZIONE DELLA VERGINE

«Benedetta tu fra le donne»

Eva meritò una maledizione a causa del suo orgoglio, Maria, invece, una benedizione per la sua umiltà

Dopo Dio, autore di una benedizione tanto grande, la prima lode è dovuta alla Vergine che giustamente è benedetta da tutti. Perché è a Lei che l’angelo dice: «Benedetta tu fra le donne» (Lc 1,28). Anche Elisabetta le dice: «Benedetta tu fra le donne» (Lc 1,42). Eva, per il suo orgoglio, per il suo peccato di disobbedienza, attirò su di sé la sentenza di maledizione e attraverso questa anche noi siamo soggetti alla maledizione. La maledizione è causata dall’orgoglio: «Perché Dio resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili» (1 Pt 5,5). È scritto: «L’inizio di ogni peccato è l’orgoglio, e chi si adira gli cadranno addosso sventure» (Cfr Qo 10,13). Maria si umiliò e meritò la benedizione. Consideriamo, per quanto ci è possibile, fino a che punto si umiliò, e fino a che punto fu benedetta.

Diversi gradi di umiltà

C’è un’umiltà di precetto, un’altra di consiglio, un’altra suscitata dall’esempio, un’altra dovuta ad un voto, un’altra che attira la maledizione.

Il precetto impone un obbligo, il consiglio incita la volontà libera, l’esempio provoca l’emulazione, i! proposito santo o il voto aumenta la fedeltà, la maledizione conduce alla confusione. L’umiltà del consiglio è più grande di quella del precetto. È comandato di non rubare i beni altrui e si consiglia di lasciare i propri. Questo è un bene maggiore, anche se il precedente è più necessario, Il secondo è più ordinario, I primo più rigoroso. L’umiltà suscitata dall’esempio, senza precetto e senza consiglio, sembra sia distante dall’enfiagione della superbia e più lontana dall’ostentazione dell’arroganza. Indizio di una grande umiltà è, senza nessun obbligo né consiglio, preferire a sé l’altro che opera bene, e non disdegnare tutto ciò che è degno di imitazione. Spesso, senza il tramite di un precetto, di un consiglio o di un esempio, si sperimenta qualche bene per un istinto segreto dell’anima e si assume questo bene sia per un proposito sia per un voto: questo è una umiltà ammirabile. Infatti è motivo di grande merito rinunciare alla libertà che appartiene a tutti e sottomettersi ad un santo obbligo.

A volte ciò che si ritiene accetto a Dio appare scandaloso per gli uomini ed esposto alla maledizione. Per questo, alcuni, vinti dal timore della confusione, spesso, mettono in atto lo sforzo della perfezione, arrossiscono per lo sforzo, e mentre temono le critiche degli uomini fuggono dai beni che desiderano] Altri invece apprezzano la giustizia e la santità di tale atteggiamento, e cosi sentono lo zelo per queste virtù, disprezzando le maledizioni e gli obbrobri degli uomini: stimano cosa buona soffrire oltraggi per il nome di Gesù, e considerano ricchezza più grande dei tesori d’Egitto l’obbrobrio di Cristo (Cfr Eb 11,26). Questo grado di umiltà, quanto meno teme le maledizioni degli uomini a motivo di Dio, tanto più merita una abbondante grazia di benedizioni davanti a Dio. Questo grado di umiltà né Cristo stesso la dimenticò, Lui, che desiderando compiere ogni giustizia, si fece maledetto per noi, come è scritto: «Maledetto l’uomo che prende dal legno» (Dt 21, 23 e Gai 3,13). Come si fece maledetto lo dimostra colui che dice: «Fu disprezzato dagli uomini ma eletto da Dio) (1Pt 2,4). Concorda con «Essi possono maledire, ma tu benedici» (Sal 109,28).

L’umiltà di Maria suscitata dalla maledizione

Convinti con quanto è stato detto, consideriamo quale sia stata l’umiltà di questa Vergine che consacrò la sua verginità senza che lo prescrivesse la Legge e sotto la maledizione della Legge, perché si riteneva maledetta colei che non lasciava discendenza in Israele. Se Dio, fin dall’inizio, prescrisse a coloro che benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1,28) e concesse loro la grazia della fecondità con una benedizione, come non era esente da questa benedizione colei che rimaneva privata della fecondità? Se la fecondità è una benedizione, come non poteva essere una maledizione la sterilità? C’è forse cosa più sterile, più infeconda, più infruttuosa della verginità? Assolutamente. Però questo, prima che una vergine sia feconda, non c’è nulla di più fruttuoso di una verginità feconda. La consacrazione della verginità sta al di sopra della legge; nessuna legge la convertì in precetto se non fino a che la perfezione evangelica la convertì in consiglio, quando il Signore disse: «Chi ha orecchi da intendere, intenda» (Mt 19,12), e l’Apostolo dice: «Riguardo alle vergini non ho nessun precetto del Signore, anche se do un consiglio» (1Cor 7,25). Nessun precetto della Legge anticipò il proposito di questa vergine; nessun consiglio della Legge, come sembra ad alcuno, anticipò l’esempio della Legge. Ciò che dico riguardo all’esempio deve essere interpretato più dalle donne che dagli uomini, anche se si deve considerare che Elia, Geremia e Daniele conservarono la purezza della verginità. Tuttavia tra le donne, prima della Legge o sotto la Legge, non sì danno esempi di verginità osservata per consacrarla a Dio. Quello della figlia di Iefte, che chiese un periodo di due mesi per piangere la sua verginità, può essere interpretato in vari modi. Con quale intenzione fece questo, la Scrittura non lo dice. Se il motivo di deplorare la sua verginità fu quello che, come sterile, senza frutto, non avrebbe lasciato discendenza in Israele, questo pensiero del suo cuore e questo pianto sono lontani dal proposito della santa verginità. Tuttavia sembra che in tutto questo ci sia qualche cosa di più elevato, il cuore lo potrebbe rivelare, perché la fanciulla dice al padre: «Padre mio, se ti sei impegnato così davanti al Signore, fai di me come hai promesso, perché il Signore ti ha concesso di vendicarti contro quelli di Ammon, i tuoi nemici» (Gdc 11,36).

Per una illuminazione speciale, Maria comprese che la verginità è gradita a Dio

Perciò, alla nostra Vergine, quale motivo ha potuto farle credere che la verginità sarebbe piaciuta a Dio, verginità che era esposta alta maledizione a causa della sterilità?

E in lsaia si poteva leggere: «Un eunuco non dovrebbe più dire “Sono soltanto un albero secco”. Se un eunuco rispetta i miei sabati, si comporta come piace me e rimane sempre fedele alla mia alleanza, io gli darò un posto nel mio tempio per il mio nome. Questo sarà meglio che avere figli e figlie, perché io renderò eterno il suo nome. Nulla potrà cancellarlo». (Is 56,3-5). Ella avrà anche potuto leggere: «Ecco una vergine concepirà e darà alla luce un figlio e lo chiamerà Emmanuele» (Is 7,14). Quando l’onore di un nome che è migliore di quello dei figli e delta figlie fu promesso agli eunuchi, cioè, ai vergini, quando fu predetto che il Salvatore del mondo sarebbe nato da una vergine, dallo stesso Spirito che ispirò questo profeta e sotto la sua ispirazione, la Vergine ispirata da Dio ha potuto pensare che c’era una verginità molto preziosa, molto accetta a Dio, poiché l’onore di concepire Dio era riservato ad una vergine che doveva darIo alla luce. Ella, istruita dal valore eccellente della verginità, sia per l’oracolo del Profeta, sia per un istinto divino molto grande che le dava una conoscenza esatta dall’intimo, amò la verginità, offrì e consacrò al Signore, in odore soavissimo, la verginità che aveva abbracciato, e disprezzò l’obbrobrio della maledizione.

Maria abbraccia la verginità e la sua verginità fu feconda

Però con questa verginità fino a questo momento sterile, ricevette la fecondità; per la maledizione che disprezzò meritò la grazia della benedizione. Per le altre donne, a causa della maledizione, c’era iniquità nel concepimento, dolore nel parto, e in alcune, sterilità senza frutto. Questa invece concepì senza peccato, diede alla luce senza dolore, produsse un frutto dalla sua verginità. Quale frutto? Un frutto singolare, un frutto più prezioso di qualsiasi frutto prodotto dall’unione coniugale.

La maledizione divina ferisce tutti gli uomini a motivo del peccato

Questo frutto dell’unione coniugale cos’è se non tutta la posterità di Adamo, la moltitudine dei figli degli uomini? Intatti coloro che nacquero dalla fornicazione si moltiplicarono attraverso l’unione coniugale dei nostri primi padri. Ogni frutto dell’unione carnale fu condannato in anticipo come se fosse nato da un albero cattivo, corrotto dalla sua radice viziata, poiché un albero cattivo produce frutti cattivi (Cfr Mt 7,1 7). Dirai: qual’è questo frutto cattivo? Certamente la concupiscenza cattiva, la concupiscenza della carne che trascina dietro a sé tutti coloro che sono generati secondo la legge della carne, tutti coloro che si propagano con la trasmissione del peccato. Questo è in noi il male originale, il semenzaio dei mali e il fermento di ogni massa corrotta, l’inizio e la consumazione della condanna comune. A questo male originale tanto nocivo, tanto mortifero, era necessario porvi rimedio per mezzo di un bene originale, precedente dallo stato della prima condizione dell’uomo, a beneficio di quelli che sarebbero nati dopo la prima prevaricazione, e della legge viziata fin dal suo origine.

Dio così ottemperò la sua sentenza contro l’uomo peccatore, di modo che la natura corrotta a motivo del suo vizio, sentisse da una parte il male meritato e dall’altro esaltasse il profumo del bene che aveva posseduto. Il peccato della disobbedienza, la legge della disobbedienza, perché questo è il vizio della concupiscenza, provocò a tutti coloro che sarebbero nati una propagazione viziosa e tuttavia la primitiva condizione conserva una certa integrità di incorruttibilità in quelli che sarebbero nati. Infatti, tutti nascono vergini e la verginità accompagna, fin dall’uscita del seno materno, la crescita in età e conserva la grazia di una scelta incorruttibile tino a che si produce la corruzione della carne, che non frena il movimento della concupiscenza, che estingue la qualità dell’integrità e corrompe il fiore primaverile della verginità. Comunque ciò che il corpo dell’uomo e della donna perde quando essi si uniscono, il principio della generazione lo ristabilisce nel figlio? La verginità, integrità comune a tutti quelli che nascono, possiede principalmente il nome e la lode della virtù in coloro che con l’integrità della carne conservano la castità dello spirito. La verginità della carne senza la castità dello spirito, sebbene non meriti in sé il rimprovero di crimine, non merita, tuttavia, l’elogio della vera virtù.

Maria, esentata dalla maledizione

La verginità di questa donna benedetta merita di essere lodata in modo singolare in quanto virtù, poiché ottenne la grazia singolare di quella benedizione per cui, con giustizia, le viene detto: «Benedetta tu fra tutte le donne». Benedetta, certamente, in primo luogo, per l’esenzione dalla maledizione comune, poi - e questo è ancora più eccezionale - per essere sfuggita alla condanna meritata. La maledizione generale coinvolge tutte le donne, tanto le feconde quanto le sterili; questa, invece, per grazia, è risparmiata da essa; in questo ottenne la benedizione come eredità, perché, sola, fu preservata dal male generale e si mantenne immune da esso. Questa è, come abbiamo detto, l’immunità dalla maledizione generale.

Maria ci ha sottratti dalla maledizione

L’uomo peccatore poteva addurre, come scusa per il suo peccato, la colpa della donna e dire: «a causa tua, donna maledetta e giustamente degna di maledizione,anche io sono maledetto; per causa tua sono scacciato dal paradiso, per causa tua ho perso questi ed altri benefici; per causa tua ho incontrato questi e quest’altri mali; ah, povera te, perché per te è accaduto questo! Ah povero me!» A questi lamenti nessuna donna poteva rispondere una parola, non poteva che restare confusa nella sua stessa confusione ed essere turbata nel suo stesso turbamento. Tutta la discendenza della donna poté essere distrutta ed essere anche meritevole della condanna generale. Così accadde prima che la Vergine desse alla luce il Figlio di Dio. Ora, però, tutto è cambiato. La donna, ora, ha chi risponde per lei; ha nella Santissima Vergine chi può rispondere alla condanna. Questa è, come abbiamo detto, l’assoluzione dalla giusta condanna. Da questa condanna la Vergine si mostrò liberata e per suo merito assolse le altre. Infatti ella ha dato al mondo il Salvatore che ha distrutto la morte e allontanò da noi la meritata condanna; dopo che a Dio, a Lei dobbiamo tutto, in quanto liberati dalla maledizione: perché siamo stati benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli (Cfr Ef 1,3), cosicché come ella è sempre benedetta da Dio così anche sia sempre benedetta da noi.


BENEDETTO IL FRUTTO DEL TUO SENO

Benedetto il frutto del tuo seno, Gesù,

Gesù il frutto benedetto della Vergine

A questo saluto angelico con cui salutiamo ogni giorno la Santissima Vergine con la dovuta devozione, siamo soliti aggiungere: «E benedetto il frutto dei tuo seno». A costei, Elisabetta, dopo essere stata salutata dalla Vergine, quasi alla fine del saluto angelico che ella ripete, aggiunge: «Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno!» Questo è il frutto del quale lsaia dice: «Un giorno, quel che il Signore farà germogliare sarà motivo di orgoglio e di fierezza per i superstiti d’Israele» (Is 4,2). Chi è questo frutto se non il Santo d’lsraee che è anche discendenza di Abramo, seme del Signore e fiore che sboccia dalla radice di lesse, frutto della vita da cui tutti riceviamo? Benedetto certamente nella discendenza e benedetto nel seme, benedetto nel fiore, benedetto nel dono, benedetto, infine, nell’azione di grazia e nella lode.

Cristo della discendenza di Davide, immune, alla nascita, dal peccato

Cristo, discendenza di Abramo, nacque secondo la carne dalla discendenza di Davide. Se la Vergine, sposa di Giuseppe, della casa di Davide, fu ella stessa discendenza di Davide, perché non dobbiamo credere devotamente che Cristo nacque dalla discendenza di Davide, nascendo da una donna (Cfr. GaI 4,4), e da cui nacque senza seme di uomo, cioè della discendenza di Davide, (Cfr Gv 7,42), «senza seme»? Perchè senza seme, se non perché la Vergine si trovò incinta per opera dello Spirito Santo (Cfr Mt 1,18) e concepì in modo mirabile, senza che nessuno la fecondasse? Ella stessa somministrò da sé la stessa sostanza delta carne di Cristo, e questi, nell’assumere la carne da lei non la contaminò.

Questa è la benedizione della discendenza, in cui non c’è nessun impedimento di peccato, in cui non è propagato né contratto nessun principio di iniquità. La forma di servo che assunse senza condizione servile e l’immunità dal peccato nel suo nascere, in lui sono una libertà genuina e un’ingenita libertà, per il cui mezzo egli è l’unico libero che assolve colpevoli e li rende liberi.

Benedetto come seme: pienezza di grazia

A questa benedizione che è l’immunità dalla colpa si aggiunge la benedizione del seme che è pienezza di grazia e di santità perfetta. È l’unico tra gli uomini che ha la pienezza di ogni bene perchè si presenta immune da ogni male. A lui, lo Spirito è stato dato senza misura (Cfr Gv 3,34), perché solo, possa compiere ogni giustizia. (Cfr Mt 3, 15). Tutta la santità dei santi, paragonata a questa, è palesemente inferiore. «Solo il Signore è santo, lui solo è Dio» (ISam 2,2). La propria santità può solo bastare ad ognuno; la sua santità, invece, basta all’umanità intera secondo quanto è scritto: «Come la terra fa nascere i germogli e il giardino fa germogliare i suoi semi, così Dio, il Signore, farà sbocciare la giustizia e la lode davanti a tutte le nazioni» (Is 6111).

Benedetto come fiore: la gloria eterna

Questo è il seme della santità, che sbocciando adorna il fiore della gloria. Di quanta gloria? Quanta più sublime si possa pensare, anzi di più, di quanta, in nessun modo, si possa pensare. Il fiore uscì dalla radice di lesse. Fino dove? Certamente fino alla sommità, perché Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre (Cfr RI 2,1 1). La sua magnificenza è elevata al di sopra dei cieli (Cfr SaI 9,2), e così il seme del Signore sarà magnifico e glorioso, e il frutto della terra sarà sublime (Cfr Is 4,2).

Benedetto come frutto di vita per noi

Ma che profitto c’è, per noi, in questo frutto? Quale, se non il frutto della benedizione che procede dal frutto benedetto? Da questo seme, da questo germe, da questo fiore proviene un frutto di benedizione che arriva fino a noi. Prima sotto forma di seme per la grazia del perdono; poi sotto forma di germoglio perla nascita nella santità; poi, infine, sotto forma di fiore per la speranza e l’acquisto della gloria. Benedetto da Dio e in Dio, cioè che Dio è glorificato in lui, poi è benedetto anche per noi cosicché siamo glorificati in lui che per la promessa fatta ad Abramo Dio gli diede la benedizione di tutti i popoli, affinché nel dono della benedizione egli sia benedetto per noi. Per questo dono sia sempre benedetto per noi con azioni di grazie e confessione di lode. Il suo nome di eterna maestà, sia benedetto, e tutta la terra sia riempita della sua maestà! Amen, amen! (Cfr SaI 72,19).

Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo (Mt 28,20)
di Sr. Germana Strola O.C.S.O.

Uno degli aspetti essenziali dell’Eucaristia è costituito dal permanere della presenza di Cristo in mezzo a noi, sotto le specie del pane e del vino: da qui deriva il grande fascino, e la somma venerazione della chiesa. I due ultimi documenti sull’Eucaristia di Giovanni Paolo II ritornano a più riprese su questa dimensione del mistero eucaristico: l’Eucaristia, presenza salvifica di Gesù alla comunità dei fedeli, è quanto di più prezioso la chiesa possa avere nel suo cammino nella storia (EdE § 9). E ancora: con tutta la tradizione della chiesa, noi crediamo che, sotto le specie eucaristiche, è realmente presente Gesù. L’Eucaristia è mistero di presenza, per mezzo del quale si realizza in modo sommo la promessa di Gesù di restare con noi fino alla fine del mondo (MND § 16, passim).

Alla luce di questo dimorare di Gesù, per mezzo del Santissimo Sacramento, in mezzo a noi, si potrebbero rileggere alcune pagine della Scrittura per cercare di risalire alle prime manifestazioni e quindi alle radici di questa tenace volontà di comunione di Dio con gli uomini, evidenziando come in essa raggiungano il loro compimento alcune dinamiche constanti e fondamentali della rivelazione.

La Sapienza

All’inizio della Bibbia, il gesto creatore (Gen 1-2) descrive l’iniziativa originaria di Dio che suscita l’esistenza di tutte le cose, e al loro vertice l’uomo, come propria immagine e somiglianza (come suo figlio, si potrebbe dire, secondo Gen 5,3). I libri sapienziali, meditando sulla creazione, vedono a questo inizio primordiale del dono di Dio la mediazione della Sapienza (Pr 8,22-31; cf 3,19-20; Sir 24), presente accanto a Lui prima che esistesse qualsiasi altra opera delle sue mani, come architetto, come artefice (Pr 8,30). Il carattere avvincente e misterioso della Sapienza personificata, induce a intuire già nell’AT una specie di rigonfiamenti interno – secondo quanto ha scritto P. Beauchamp – nell’assoluto monoteismo ebraico; ma al di là della questione propriamente esegetico-teologica sollevata dall’immagine e dalla lettera del testo, interessa qui focalizzare l’attenzione sul v. 31: la mia gioia è stare con i figli dell’uomo (come traduce incisivamente la Vulgata: deliciae meae esse cum filiis hominum). La Sapienza media la relazione di Dio con gli uomini, e gode di permanere con loro (cf. Sir 24,11; Bar 3,38-4,1).

Come è noto, il NT riprende la concezione veterotestamentaria della Sapienza per introdurre al mistero del Verbo di Dio nei testi di Gv 1,1.3.14 e Col 1,15-20 e per contemplarne la centralità nel piano della salvezza. Fermiamo tuttavia la nostra attenzione su un solo aspetto di questa dinamica: la volontà di comunione di Dio che essa implica. Non si tratta infatti di una dimensione insolita o innovatrice che viene così messa in luce: il Dio della rivelazione ebraico cristiana viene identificato, fin dalle prime pagine della Genesi, attraverso la relazione interpersonale che instaura con il suo popolo ( il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri) che va costituendo, chiamandone i capostipiti di là dal fiume Eufrate (Gs 24,2; Dt 26,4), e liberandolo dalla schiavitù con la sua mano potente e il braccio teso (Sal 136,2: Ger 32,21; Ez 20,33,34).

La relazione di appartenenza reciproca che egli instaura con la sua tenace volontà di comunione è illustrata dalla frequenza delle cosiddette formule di alleanza [Io sono (sarò) il vostro Dio e voi siete (sarete) il mio popolo (miei): Es 6,7; Lv 26,12; Dt 7,6, ecc.]. Il Signore è un Dio vicino (Dt 7,4; cf. 30,14; Ger 23,23), che abita in mezzo ai suoi (Dt 6,15; 7,21; Ez 37,26-27) e ripete sono, sarò con te dovunque andrai, ai singoli e al popolo, soprattutto nei momenti di prova (cf. Gen 26,24; 28,15; Es 3,12; Dt 2,7; 31,6.8.13; Gs 1,5.9; Gdc 6,12.16 ecc.). E’ questo uno degli aspetti che caratterizzano il Dio della Bibbia, in confronto alle forme di religiosità dell’Antico Medio Oriente o altre fedi anche monoteistiche: non è solo l’annuncio e la memoria della irruzione del Dio Trascendente nella storia, ma la sottolineatura della presenza, dell’accompagnamento, dell’esser con – nelle migrazioni, nei pericoli della guerra e delle traversie dell’esistenza, nelle difficoltà e nelle angosce del vivere - che Egli manifesta nei confronti di coloro che si è scelto.

Questa dinamica che attraversa tutto l’Antico Testamento trova il suo culmine, e insieme un compimento addirittura inimmaginabile, secondo la concezione ebraica nel mistero dell’Incarnazione. E il Verbo divenne carne e mise la tenda in noi, recita letteralmente il testo greco di Gv 1,14, sulla scia di Sir 24,8 ( fissa la tenda in Giacobbe e in Israele prendi possesso della tua eredità; cf. v. 11). L’essere con diventa essere in .

In altri termini, l’incarnazione del Verbo in cui culmina il dono di Dio agli uomini, non è fine a se stessa né costituisce un evento isolato, chiuso e delimitato nella persona di Cristo. L’idea-forza che soggiace all’annuncio evangelico è che l’incarnazione continua il suo effetto e la sua dinamica nei credenti. La finalità della rivelazione del Verbo è, a partire dall’origine, trascinare, coinvolgere in Lui tutti uomini nella relazione con il Padre (Gv 1, il18), perché essi siano il luogo della sua presenza.

È questo il mistero tenuto nascosto dai primordi del tempo e rivelato da Dio ai suoi santi, secondo le parole di San Paolo: Cristo in voi, speranza della gloria (col 1,26). San Giovanni, nei discorsi dell’ultima cena, sviluppa il tema in varie modulazioni e secondo differenti prospettive, ripetendo l’invito: Rimanete in me (gv 15, 4.5.6.7.9.10; cf. 14, 20) perché Gesù vuole introdurre i suoi nella mirabile immanenza reciproca che egli vive con il Padre (17, 21.23. 24 -26).

Il banchetto della Sapienza

Ma ritorniamo alla dimensione più specificamente eucaristica in questo mistero, riprendendo alcuni testi veterotestamentari che l’annunciano, la prefigurano e la preparano. La prospettiva di gratuità ed apertura universale del dono di Dio appare esplicitamente come invito a un banchetto nel convito che la Sapienza personificata offre ai poveri di Spirito in Pr 9, 1-6 (cf. Sir 24,19-21) lo stesso invito, rivolto agli esuli in Babilonia, ritorna in Is 55,1-2 come figura di riconciliazione, per la partecipazione ai beni della nuova alleanza. In dimensione escatologica (cf. Is 25,6), la stessa immagine viene utilizzata per i tempi messianici, rappresentati come la celebrazione di un convito comunionale di Dio con gli uomini. Questo complesso simbolico si pone in continuità con la gioia festiva dei sacrifici di comunione che esprimevano sacramentalmente la partecipazione allo stesso principio vitale - l’alimento del sacrificio - da parte di Dio e dei credenti presenti alla celebrazione liturgica (Es 24,10-11; Dt 16,13-15; 1 Sam 9,13: Ne 8,10-12).

Nel Nuovo Testamento, il tema viene ripreso e approfondito nelle rappresentazioni evangeliche del festino di nozze del proprio Figlio a cui il Padre invita tutti gli uomini (Mt 8,11; 26,29; 22,2-10; Lc 14,15-24; Ap 19,9; ecc.). Modulano la stessa raffigurazione simbolica, pur, sviluppandone alcune risonanze particolari, anche i racconti sinottici delle moltiplicazione dei pani e dei pesci (mc 6,30-44; 8,1-9; Mt 14,13-21; 15,32-39). Il significato propriamente eucaristico di questi segni viene ampliato teologicamente in Gv 6, nel discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao sul Pane di Vita (Gv 6,22-58). Qui l’immagine della convivialità di Dio con noi si dilata e si approfondisce attraverso il tema del pane del cielo che Dio dà, in continuità con il dono della manna nel deserto (Es 16; Sap 16,20-29; Sal 78,24-25; 105,40; ecc.).

La rappresentazione di Dio che provvede il nutrimento ad ogni creatura è correlativa alla sua potenza creatrice, come illustrano vari testi dell’antico testamento (Sal 104, 13.16.28; ecc.). Sul versante dell’uomo, la simbologia della fame e della sete, che indica l’anelito verso ciò che assicura la sopravvivenza, sono evocate insieme per indicare che la vera vita è data attraverso la Parola di Dio (Dt 8,3; Am 8,11). Il Signore è, quasi per definizione, Colui che sazia (Sal 16,11; 17,15; 22,27; 34,11; 37,19; 63,6; 65,5; 78,25; 90,14) in quanto Egli stesso è la Vita dei suoi (Dt 30,,20: perché Lui è la vita). Il primo principio e l’ultimo compimento del vivere – e quindi del desiderio, in senso realistico e spirituale – è il Dio Vivente, fonte dell’acqua viva (Ger 2,13; Sal 42-43; 63,2; 143,6; cf. Ez 47,1; Gl 4,18; Zc 14,8; ecc.).

Nel NT, le stesse immagini e la stessa terminologia vengono riprese in riferimento a Gesù e allo Spirito che egli dona, nel sacrificio di sé stesso (Gv 4, 14; 7, 37-39); sacramentalmente, ciò avviene in ogni celebrazione della Eucaristia, dove il Pane di Vita eucaristico sazia la nostra fame e la nostra sete (Gv 6, 35; cf Sir 24, 20) infondendo in noi la vita eterna (Gv 6, 33.50. 51). Qui, le figure conviviali ed escatologiche evocate in precedenza trovano un punto di sintesi e si articolano con la dimensione della comunione - immanenza reciproca. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui (Gv 6, 56; 14 20. È in tal modo che Egli, eminentemente, permane in noi. San Paolo descriverà la presenza di Cristo in colui che crede in Lui (Gal 2,19) creando perfino dei nuovi termini nella lingua greca del tempo e moltiplicandoli liberamente, per descrivere l’esistenza cristiana come vita con Lui, per Lui, in Lui (cf Rm 6, 4-8; 8, 16-32; Ef 2, 5-6; 3, 6; Fil 3, 10-11.21; Col 2, 12-13; 3, 1-4; 2 Tim 2,11-12).

La vita, dono nell’incontro comunionale

Le linee evidenziate qui dal principio della creazione, attraverso la mediazione della Sapienza, fino all’Incarnazione e al festino escatologico celebrato nella pienezza dei tempi, illustrano essenzialmente la volontà di comunione che il Dio con noi (Immanuel: Is 7, 14; 8, 8.10; Mt 1,23) persegue nella sua relazione salvifica (cf. Ap 21,3: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”). Questa dinamica tende alla diffusione/condivisione della vita di Dio, che scaturisce dall’incontro con Lui ( cf. Gv 10, 10: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza).

Vorremmo sottolineare qui come la vita nasce dall’incontro: originariamente, dalla Parola di Dio, che costituisce l’altro di fronte a sé (Gen 1-2) e che il NT, sviluppando Pr 8, vede compiersi nella mediazione di Cristo,per Cristo e in vista di Cristo (Col.1,16). L’apostolo Giovanni, contemplando al vertice della creazione il Verbo di Dio fatto carne, annuncia, in dimensione comunionale, che in Lui era la Vita, e la Vita era la luce degli uomini (Gv 1,4; Gv 1,2: la Vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta… la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi).

La vita viene identificata con la persona stessa di Gesù Cristo, che ci conduce al Padre: Io sono la via, la resurrezione e la vita (Gv11,15). E’ per Lui, secondo la 1 Gv, che noi viviamo: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui (1 Gv 41, 9). Una mediazione non solo metafisica o teologica, ma esistenziale, concreta, sovranamente libera: Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a Chi vuole…. Come il Padre possiede la vita in se stesso, così ha dato al Figlio di possedere la vita in se stesso (Gv 5, 21.26). Chi crede nel Figlio ha la vita eterna (Gv 3, 35).

L’incontro con Dio da cui scaturisce la vita, si dà quindi per e nella comunione con il Figlio suo (Gv 6, 57: Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me; cf. Gv 1,1-13). Attraverso di lui, siamo introdotti fin d’ora, per grazia, nell’incontro dell’amore frontale del Padre e del Figlio e dello Spirito, inizio dell’essere.

Il mistero eucaristico, nel già e nel non ancora del nostro pellegrinaggio nel tempo, è la modalità sacramentale in cui tale dinamica continua esplicitamente a coinvolgere tutti e ciascuno; in esso si compie quella immanenza reciproca che costituisce l’essenza, il vertice della esperienza umana e cristiana:Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi (Gv 14,19-20).

Il monaco, uomo dell'Avvento
di P. D. Donato Ogliari osb

Nel descrivere il monaco come "colui che si affretta verso la patria celeste" (RB 73,8), Benedetto lo inserisce in una prospettiva escatologica. Tale prospetti-va è anche una delle caratteristiche dell'Avvento. Esso, infatti, è un tempo che, da un lato, si fonda su un “ricordo" - la venuta di Gesù nella carne e dall'altro su una "promessa futura" - la definitiva venuta del Cristo nella gloria.

Questa doppia valenza rappresenta un forte richiamo a vivere i nostri giorni tenendo lo sguardo rivolto in avanti, e ad evitare di ripiegarlo sulle nostre preoc­cupazioni quotidiane.

Nella Liturgia monastica delle Ore vi sono alcune antifone dell'Avvento che ci spronano a vivere protesi verso un futuro che si annuncia carico di salvezza. Si pensi, ad esempio, alle seguenti: "Levate capita vestra: ecce appropinquabit redemptio vestra" (Lc 21,28); "Leva Jerusalem oculos et vide potentiam regis: ecce Salvator venit solvere te a vinculo" (Levate il capo, perché la vostra libera­zione è vicina; Alza gli occhi econtempla la potenza del tuo re, o Gerusalemme: ecco, il Salvatore viene a liberarti dalle catene).

1. Il monaco: proteso verso il futuro

Su tale sfondo, il monaco è dunque invitato a vivere il periodo avventuale con lo sguardo vigile, premuroso di scrutare il presente per cercarvi le tracce di Colui che viene a visitarci e che si offre alle nostre esistenze come "sole che sorge" (Lc 1,78), giorno dopo giorno. Come il sole, infatti, non cessa di risplendere anche quando il cielo è coperto di nubi, così il Signore si rende presente in noi e in mezzo a noi ogni giorno in maniera inedita, indipendentemente dalla nostra capa­cità di scorgerlo e di accoglierlo.

Questo è il motivo per cui la dimensione escatologica che l'Avvento ripropone ogni anno con insistenza - dimensione che caratterizza dal di dentro la stessa vita monastica - si raccorda intimamente con la celebrazione del Natale. È quest'ulti­mo, infatti, che riempie e avvalora, alla luce dell'evento dell'Incarnazione, la diuturna ricerca di Dio da parte del monaco. Il suo essere "proteso in avanti" verso il futuro nel quale lo stesso Dio gli viene incontro e lo cerca, non può che nutrirsi di una fede "incarnata" nella storia, una fede che gli fa "affrettare" il passo per riconoscere, nel dipanarsi dei giorni, la visita del Signore che ci rag­giunge e ci invita ad accoglierlo nella fede e nell'amore, nella disponibilità inte­riore e nell'attiva generosità.

Come sappiamo, rispetto all'unicità dell'incarnazione e della Parusia, san Bernardo di Chiaravalle amava definire questa quotidiana visita del Signore come un medius adventus, un "avvento di mezzo", reiterato eppur sempre nuovo. Simil­mente Pietro di Blois descriveva questo avvento intermedio come un incontro che si compie nell'anima ogni qualvolta essa si apre a Dio. E se vissuto nella fede e nell'amore, tale incontro non solo va a incidere sulla "micro-storia" di chi si lascia da esso coinvolgere, ma finisce anche col ripercuotersi sulle nostre comuni­tà, sulla Chiesa e sul mondo intero.

2. Il monaco: vigile e gioioso

Nell'invitarci a vivere la tensione escatologica e l'attesa dinamica che ad essa fa riscontro, l'Avvento ci suggerisce anche alcuni atteggiamenti congeniali per accostarci proficuamente al mistero del Deus semper veniens. Tra di essi vi sono la vigilanza e la gioia, atteggiamenti che sono propri di coloro che non vogliono essere sorpresi nella notte dall'arrivo dello Sposo (cf Mt 25,1-13) o del Padrone (cf. Mc 13).

In questi due atteggiamenti è racchiuso il senso del nostro cammino. Un cam­mino da compiere con cuore "vigile" e nello stesso tempo con passo "lesto e gioioso" verso l'incontro che si spera di realizzare un giorno ma che, in qualche modo, ci è dato di anticipare quaggiù, dove la nostalgia di Dio motiva e illumina la nostra attesa.

C'è un'antifona gregoriana, tra quelle proposte per l'Avvento, che esprime bene questo aspetto così "monastico" dell'attesa vigilante e insieme dinamica. E l'antifona: "Jerusalem surge, et sta in excelso: et vide iucunditatem, quae veniet tibi a Deo tuo" (Communio - III settimana), formata da due emistichi tratti dal libro del profeta Baruc: "Sorgi, o Gerusalemme, e sta in piedi sull'altura (5,5a): osserva la gioia che ti viene da Dio (4, 36b)".

In questo imperativo "sta in piedi sull'altura", possiamo leggere un'esortazio­ne rivolta al monaco affinché stia ritto, ossia perseverante in quella fede che consente di guardare alle cose di quaggiù nella prospettiva che proviene dall'alto, dal Signore stesso. E ciò anche quando sopraggiungono lo scoraggiamento e le delu­sioni, o quando le difficoltà personali e comunitari e sembrano non lasciare tregua e il futuro si profila incerto. Anche allora, quando si tocca con mano la precarietà del cammino e le emergenze che in esso affiorano, il monaco "sta in piedi", e non permette che il suo animo sia raggiunto da un senso di disfatta.

In alcuni passaggi della propria storia personale o di quella comunitaria, lo "star in piedi sull'altura" potrebbe assomigliare molto allo "stare" di Maria sul Calvario, presso la Croce di Gesù. Potrebbe, cioè, essere un forte richiamo a per­severare sotto il peso dell'incertezza.

Per il monaco questo impegno si esprime soprattutto nella generosità della preghiera e nella dedizione al lavoro, vissuto in una maniera seria e responsabile che non lasci appigli all'ozio, nemico del progresso spirituale. Ma è un impegno che prende forma e si dispiega anche nelle relazioni con gli altri nell’apertura della condivisione, al dialogo fraterno e al perdono reciproco. Solo così una comunità può riconoscere le "visite" che il Signore le rende quotidianamente e attirarsi le sue grazie.

Infine, nelle medesima antifona Jerusalem surge, ci viene anche rivolto l’invito ad "osservare la gioia che viene da Dio" o come dice il versetto 5b (a completamento del v. 5°): a guardare verso oriente ("...guarda verso oriente"), ossia a tenere gli occhi fissi su Gesù che come sole sorge per illuminare le genti (cf Lc 2,32). In Lui, e nell'esperienza della sua misericordia, che abbondantemente riversa su di noi, la gioia e l'esultanza del cuore trovano il loro accordo più vero e profondo.

3. Il monaco: afferrato dalla speranza

fruire di quella "prossimità salvifica" che è frutto dell'incarnazio­ne del Figlio di Dio nella storia, non può non far vibrare il nostro animo di una speranza sempre nuova, capace di illuminare ogni volta da capo il nostro cammino.

Se la fede ci permette di aderire cori certezza alla Verità, che è Cristo - quel Cristo al quale abbiamo detto il nostro "sì" nel battesimo e che abbiamo deciso liberamente di seguire abbracciando la vita monastica -, la speranza agisce sulla nostra volontà spronandoci a riconsegnarci a Lui ogni giorno con gioia. Una ri­consegna che ha come presupposto la certezza che in Cristo si manifesta la fedeltà a Dio e la sua azione liberatrice nei nostri confronti.

La speranza non è una virtù facoltativa, da relegare in un angolino e da rispolverare quando si ha l'acqua alla gola. Come le altre virtù teologali, anch'es­sa è saldamente radicata in Dio, ed è quindi intimamente e quotidianamente con­nessa col cammino cristiano-monastico. La speranza è quel seme foriero di vita che preme nel buio della terra in attesa di germogliare; è quella molla segreta o quella "tensione escatologica" che dà impulso alla ricerca quotidiana di Dio nelle pieghe della storia,

Eucharistia, n. 20).

Che l'Avvento sia un tempo in cui forte è il richiamo alla speranza, è illustrato anche dall'antifona Ad te levavi animam meam, tratta dal Sal 24,1-3 e posta - quasi a dargli il "La" - in apertura del periodo avventuale: "A te, Signore, elevo l'anima mia, Dio mio, in te confido: non sia confuso! Non trionfino sudi me i miei nemici! Chiunque spera in te non resti deluso". È il canto della fiducia che si dipana nell'intreccio tra speranza, da una parte, e la reale possibilità di cadere preda della confusione e della delusione dall'altra. Affinché ciò non si verifichi la speranza viene fatta propria e vissuta dal credente come un'attesa fiduciosa nella potenza salvifica del Signore, antidoto sicuro di fronte al momentaneo o apparente trionfo dei nemici, ossia del male in tutte le sue forme.

4. Il monaco: lungimirante nella pazienza

il passo, egli sa anche "attendere" quello che spera, nella consa­pevolezza che l'oggetto sperato non può essere forzatamente anticipato.

Ad esempio, è fuor di dubbio che ogni monaco nutra il profondo desiderio di vivere radicalmente la bellezza della sua vocazione, di darsi completamente al Signore seguendolo senza riserve, di spendersi perché la sua comunità si edifichi sempre di più nell'amore, nel sostegno reciproco, nella condivisione fraterna ed amicale, e perché possa risplendere come segno di comunione in un mondo lace­rato e profondamente segnato dalla logica dell'individualismo e del tornaconto. Eppure, nonostante un siffatto desiderio alberghi nel cuore di ciascun monaco, questi tocca con mano il divario esistente tra l'ideate da perseguire e la realtà del suo quotidiano. Ciò significa che se da una parte egli assume l'impegno di perse­guire l'oggetto che intravede nella speranza, dall'altra egli è anche capace di at tendere con pazienza il suo avverarsi. Il monaco, cioè, perseverando nel dono di sé alla luce di quella "sapienza interiore" che anima e sorregge la sua non si arrende di fronte alle contraddizioni della vita e non cede alle contrarietà e alle tribolazioni che potrebbero frenare il suo cammino di fede e di ricerca di Dio.

La pazienza insita nella speranza non fa dunque a pugni con essa e non le tarpa le ali, poiché non è sinonimo di arrendevolezza ma piuttosto di tenacia, una tena­cia irrorata di fiducia o - come dice I 'Apostolo - una "virtù provata" che dà spes­sore alla speranza: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza" (Rm 5,3-4).

In ultima analisi - e il tempo di Avvento è lì a ribadircelo con forza - la speran­za cristiana è sempre in grado di aprirsi un varco luminoso verso la luce del Cristo, il "sì" fedele di quel Dio che è Padre e per il quale nemmeno le tenebre "sono oscure e la notte è chiara come il giorno" (Sal 138,12).

Come la notte di Natale, appunto, quando la Luce divina si è aperta un varco e ha fatto irruzione nell'oscurità del mondo depositando nella storia umana il segno indelebile di una Presenza che non verrà mai meno.

(da Il sacro speco di S. Benedetto, 6, 2005)

Mercoledì, 18 Ottobre 2006 01:40

Il monaco e l'Eucaristia (P. D. Donato Ogliari osb)

Il monaco e l'Eucaristia
di P. D. Donato Ogliari osb

Tra le gemme più belle incastonate in quell'edificio spirituale che è la Regola di san Benedetto, vi sono due aforismi pressoché identici che i seguaci del santo Pa­triarca non tardano ad imprimere nella loro mente e a porre come sigillo sul loro cuore. Il primo di questi aforismi raccomanda ai monaci di "non anteporre nulla all'amore di Cristo" (RB 4,21); e il secondo, dopo aver affermato che "primo passo dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio", precisa che "questa è proprio di coloro che ritengono di non avere nulla di più prezioso di Cristo" (RB 5,2).

Se anche san Benedetto non avesse detto altro di Cristo, basterebbero queste due brevi ma dense pennellate a delineare la centralità che egli attribuisce alla persona del Cristo nella vita del monaco. Il Figlio di Dio fatto uomo è, infatti, il cuore della giornata monastica, il suo centro di attrazione e di propulsione. Grazie a Lui, e alla sequela di Lui, s'illumina, prende slancio e si invigorisce quella diuturna ricerca del volto di Dio nella quale si dipana l'esistenza quotidiana del monaco.

È alla luce di questo cristocentrismo, che anche l'Eucaristia (nonostante che san Benedetto la celebrasse coi suoi monaci solo una volta alla settimana, di do­menica) ha finito con l'entrare in maniera decisiva nella trama giornaliera della comunità monastica, incastonandosi all'interno della sua architettura orante, là dove la comunità si radica e si costruisce giorno dopo giorno. L'Eucaristia è dive­nuta così quella "cifra sintetica" nella quale la ricerca di Dio, condotta dal mona­co alla scuola di Cristo e del suo Vangelo, è racchiusa, e nella quale s'inverano simultaneamente lo spatium mysterii e lo spatium caritatis.

Spatium misterii

La presenza reale del Cristo nella celebrazione eucaristica, sia nella Parola proclamata sia, soprattutto, nelle specie eucaristiche - dove tale presenza rag­giunge il massimo grado - diventa il luogo della concentrazione, lo spatium misterii nel quale la ricerca monastica trova il suo quotidiano approdo e la sua ragion d'essere. Nell'Eucaristia il monaco si consegna al Mistero Santo di Dio, resosi pienamente manifesto nella morte e risurrezione di Cristo. Lì, a contatto con tale mistero, il monaco ridice ogni volta daccapo il suo umile "sì", e accondiscende ad essere conformato al disegno di amore del Padre che ha preso forma definitiva nel Mistero pasquale del Cristo suo Figlio.

Ogni volta che partecipa alla mensa eucaristica, il monaco è sospinto a ritrovare nel Cristo il senso della propria esistenza e a trasformarla quotidianamente, sull'esempio di Lui, in un gesto di amore. Nell'Eucaristia, le parole evangeliche "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà (Lc 9,24) acquistano agli occhi del monaco il loro pieno significato. Lì egli ritrova, in maniera sempre nuova, il fulcro della sua vocazione, del suo vivere e del suo bruciare di quella stessa immolazione del Cristo che, offrendosi per la nostra salvezza, spalanca agli uomini gli orizzonti illimitati del cuore com­passionevole di Dio.

Spatium caritatis

monastica, quale memoriale di una vita "persa" agli occhi del mondo, ma "salvata" e trasformata in Colui che vive per sempre, è chiamata a sua volta, e secondo il suo specifico carisma, ad irradiarsi. Il perdersi del monaco in Cristo, il suo essere nascosto con Lui in Dio, non lo rende infatti avulso dalla storia e dalla compagnia degli uomini, ma, al contrario, proprio perché vulnerabile al Mistero di Dio manifestato nel Figlio Gesù, egli è sospinto a divenire un testimone sempre più luminoso e profetico della salvezza e della totalità di senso che egli trova nel Cristo. Ed è proprio alla luce di questa verità, di cui si fa umile servitore, che il monaco è costantemente rinviato a quella forza primigenia contenuta nell'Eucari­stia, e che si traduce nello spatium caritatis.

Vi è un singolare episodio nella vita di Benedetto, quando questi era ancora giovane eremita nascosto agli occhi del mondo, che illustra molto bene la ricerca di Dio, che ha il suo fulcro nel Cristo pasquale e non può non avere, come suo naturale sbocco, l'attenzione e l'amore ai fratelli. Narra dunque il biografo di Benedetto:

e sedettero. Dopo aver parlato di varie cose spirituali, il sacerdote esclamò: 'Orsù, mangiamo! Oggi è Pasqua'. L'uomo di Dio rispose: 'Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!'. Infatti, vivendo lontano dalla gente, il santo non sapeva che proprio quel giorno fosse la solennità di Pa­squa. Il sacerdote riprese: 'Oggi è davvero la Pasqua di risurrezione del Signore. Non ti è permesso perciò fare digiuno. E io sono stato mandato proprio per que­sto, perché prendiamo insieme i doni dell'Onnipotente'. Così, benedicendo Dio, presero cibo insieme" (Gregorio Magno, Dialoghi II, 1).

Benedetto, sprofondato e assorto nelle cose di Dio, si era reso conto che era Pasqua soltanto alla vista del sacerdote che lo aveva a lungo cercato e finalmente trovato. E come se la sua coscienza si fosse, per così dire, risvegliata di fronte al Cristo presente in quel fratello che gli aveva fatto visita e che ora gli stava accan­to: "Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!", esclama Benedetto.

L’Eucaristia è proprio quello spatium caritatis che segna quotidianamente i passi del monaco. In questo "spazio" egli si immerge ogni giorno non solo per "gu­stare e vedere quanto è buono il Signore" (cf Sal 33,9), ma anche per ritrovare la forza e la gioia di farsi carico del fratello, capace di scorgere, al di là dell'epidermi­de, i doni a cui egli è portatore e che, ultimamente, provengono dal Signore.

non possia­mo accostare chi ci sta accanto mantenendo le nostre prevenzioni e i nostri pre­giudizi nei suoi confronti. Per cogliere la presenza del Risorto in ogni fratello occorre affidarsi alla novità dello Spirito che rende i nostri occhi capace di scor­gere l'inedito al di là di ciò che diamo per scontato.

Chiarificazione e obiezione

meglio, sulleorme del Cristo, l'oblazione di sé, quale inveramento della ricerca di Dio. Nell'Eucaristia, infatti, la sequela Christi è chiamata a trovare un riscontro nella traduzione concreta di quella consegna che Gesù ha lasciato ai suoi nell'Ul­tima Cena: "Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34), consegna che toglie il diritto di cittadinanza ad ogni egoistica inerzia e ad ogni forma di autosufficienza.

Lì, nell'Eucaristia, l'immolazione libera e obbediente del Figlio al disegno salvifico del Padre diventa la cattedra quotidiana dalla quale il monaco attinge quotidianamente la forza necessaria per spezzare la propria vita, insieme con Gesù, nell'umile e gratuito servizio dei fratelli, sorretto dalla gioia e dalla luce dello Spirito.

(Da Il sacro speco di S. Benedetto, 5, 2005)

Il ritorno a Dio
nell'insegnamento monastico
di San Bernardo
di Sr Maria Pia Schindele o. cist.

La regola di San Benedetto ini­zia con l'invito, di « ritornare a Dio con la fatica dell'obbedienza, dal quale ci siamo allontanati per la pigrizia della disobbedienza» (RB Prol. 2).

Il pensiero di San Bernardo, nell'insegnamento della vita monastica, è improntato sul ritorno a Dio. Nei suoi scritti troviamo la consapevolezza che Dio ha creato l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Mediante la similitudo - ossia la somiglian­za con Lui - dovremmo essere comparte­cipi della sua vita divina. La disobbedienza a Dio però ci allontanò dalla regio similitudinis e ci portò verso la dissimilitudinis cioè verso «la regione della dissomiglianza», di modo che noi soltanto attraverso l'ob­bedienza al piano salvifico di Dio possia­mo ritornare a Lui.

Tra gli antichi testi dei Padri della Chie­sa, che hanno ispirato in lui questi pensie­ri, potrebbero essere state le Confessioni di Sant'Agostino che dice: «Mi scoprii lonta­no da Te in una regione dissimile». (1)

Bernardo sviluppa il tema del ritorno a Dio soprattutto nel trattato intitolato «La grazia e il libero arbitrio» e in alcuni degli ultimi sermoni sul Commento al Cantico dei Cantici. Questo tema è ricorrente an­che negli altri suoi scritti e sermoni.

1) Ritorno a Dio nel trattato "De Gratia et libero arbitrio"

Nell’analisi sul concetto della grazia e del libero arbitrio, Bernardo sviluppa il ritor­no dell'anima a Dio nella regione della similitudine. Espone la nozione che, per il libero arbitrio che Dio ci ha elargito, sia­mo sempre immagine di Dio, imago Dei, e lo resteremo malgrado le nostre errate de­cisioni che facciamo con la disobbedienza, perché l'immagine di Dio è indistruttibile; mentre alla somiglianza con Dio, similitudo, arriviamo solo se ci lasciamo trasformare dall'obbedienza ai suoi comanda­menti. Questo lasciarsi trasformare rinnova le forze dell'anima e, attraverso la rectitudo, la rettitudine dei nostri sentimenti e del nostro comportamento indirizza tutto il nostro essere verso Dio.

a) Il nostro ritorno nella regione della somiglianza

Bernardo nel suo trattato chiama Gesù Cristo «la Divina Sapienza» che vuole ricondurci a Dio. Descrive questo ritorno a Dio paragonando la Divina Sapienza alla donna del Vangelo che cerca la dracma per­duta (Lc 15,8). Così il Figlio dell'Uomo cerca in noi l'immagine di Dio sfigurata fino alla irriconoscibilità dal nostro pecca­to di disobbedienza. Bernardo spiega a proposito che questa immagine è il no­stro indistruttibile libero arbitrio, con il quale possiamo obbedire oppure disobbe­dire a Dio. Alla somiglianza con Dio l'uo­mo è riportato attraverso l'obbedienza al Verbo Incarnato.

Bernardo dice:

«Se quella donna del Vangelo non accen­desse la lampada, cioè se la Sapienza Incarnata, non mettesse sottosopra la casa, ovviamente quella dei vizi, e non cercasse la sua dracma (l'uomo) che aveva perduto, la sua immagine, questa che, privata della nativa bellezza e tutta brutta sotto la pelle sporca del peccato, era nascosta come nella polvere, egli trovatala la pulisce e l’innalza dal luogo della dissomiglianza, e la reinte­gra nel primitivo aspetto, la rende simile a Sé nella gloria dei santi, anzi un giorno la renderà in tutto conforme a Se stesso, come dice la Scrittura: «Sappiamo che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è» (1Gv 3,2)». (2)

b) Il nostro rinnovamento per mezzo di Gesù Cristo

Bernardo afferma che il nostro ritorno a Dio prevede, che veniamo «trasformati» secondo l'ideale di Gesù Cristo e lo indica quale «forma» (3)- modello - corrispondente al suo essere divino, al quale dobbiamo conformar­ci. Se viviamo secondo il suo ideale, saremo da Lui trasformati, gli assomiglieremo e sperimenteremo la Sua vita in noi.

Riguardo al rinnovamento della nostra volontà secondo l'ideale del Signore Bernardo scrive:

«Venne perciò la stessa, forma, cui si doveva conformare il libero arbitrio: infatti per recuperare la forma primitiva, l'uomo do­veva essere riformato da quella forma in base alla quale era stato anche formato». (4)

Questo concetto viene riproposto anche da un'altra angolatura, per ribadire il fon­damentale significato salvifico a tutta la comunità ecclesiale avente necessità di redenzione, Bernardo dice, «Colui che era deforme ha dovuto essere formato di nuovo per mezzo della forma, Cristo Gesù; le membra non possono essere condotte a compimen­to se non con il capo». (5)

c) Il rinnovamento delle nostre forze d'animo

pensiero, attraverso il quale cominciamo a riconoscere do che è buono e quindi ciò che corrisponde alla vo­lontà di Dio. Dal consensus voluntatis - dal consenso della nostra volontà - dipende l'ul­teriore aiuto di Dio, che elimina la nostra incapacità di fare il bene. Dandoci la gioia per il bene, ci dà la forza di fare il bene. Così Dio ci rende idonei alla «libertà dal pecca­to», e ci conduce alla «libertà dalla mise­ria»; quindi alla somiglianza con Lui e alla compartecipazione della sua gloria divina. (6)

Come altri scrittori ecclesiastici prima e contemporanei del suo tempo, Bernardo distingue le forze d'animo dell'uomo in memoria, ratio e voluntas. La memoria è la capacità data a noi di sperimentare Dio e di entrare in contatto con Lui. È in certo qual modo il nostro «ricordo» o «memo­ria» di Dio e quindi viene qualche volta anche chiamato recordatio.

La ragione con la quale possiamo «rico­noscere» o «ravvisare» il bene viene chia­mata ratio oppure sensus. Qualche volta questa parola è indicata con intentio, per­ché noi formiamo con la ragione la nostra «intenzione», che viene indicata anche come «modo di pensare» o «desiderio».

Siccome il nostro volere - voluntas - è accompagnato dai nostri sentimenti e dal nostro amore, troviamo per esso nei testi aventi per oggetto il nostro «rinnovamen­to» le parole voluntas, affectio oppure amor.

Quando Bernardo definisce il rinnova-mento interiore dell'uomo dice che consi­ste in tre disposizioni dell'anima: propo­sito retto - rettitudine intentionis -, sentimento puro -, puritate affectionis - e ri­cordo del bene operare - recordatione bonae operationis - grazie al quale la memoria ri­splende per la consapevolezza della sua buona coscienza. (7)

Nel trattato sulla grazia e il libero arbi­trio Bernardo menziona il «proposito incur­vato dalle preoccupazioni terrene», (8)che si può trovare nell'uomo e che deve essere sollevato con la rettitudo intentionis - «la rettitudine dell'intenzione». In questo con­testo è da considerare, quello che egli dice nel XXIV Sermone sul Cantico dei Cantici sul confronto tra l'homo rectus - l'«uomo retto» - e l’homo curvatus - l'«uomo gobbo», quando scrive: cose terrene, è una gobba dell'anima e, al contrario, meditare e desiderare le cose di lassù, è rettitudine». (9)

Riguardo a tutti gli sforzi, che noi intra­prendiamo in questo desiderio rivolto ver­so l'alto, Bernardo spiega nel trattato «La grazia e il libero arbitrio», che attraverso essi «il nostro uomo interiore si rinnova di gior­no in giorno» (2 Cor 4, 16). E continua:

«Poiché il proposito, incurvato dalle preoc­cupazioni terrene, a poco a poco dal basso risorge verso l'alto: e il sentimento, che langue per i desideri della carne, gradatamente s’irrobustisce all'amore dello spirito, e la memoria, ch’è macchiata dalla bruttura delle vecchie opere, resa candida dalle nuove e buone azioni di giorno in gior­no gioisce di più. Infatti il rinnovamento interiore consiste in queste tre disposi­zioni: proposito retto, sentimento puro, ricordo del bene operare grazie al quale la memoria rifulge ben consapevole di sé». (10)

d) Significato della rectitudo

Riguardo al nostro rinnovamento inte­riore è importante la rectitudo - la «retta intenzione» - del nostro modo di pensare e di agire, perché se la nostra volontà è in­teramente indirizzata a Dio, è ordinata.

Bernardo descrive la volontà ordinata, ad lineam rectitudinis, - la norma del retto agi­re-, con la risposta negativa di Gesù a quei discepoli che lo pregavano di avere posti d'onore nel suo regno, dice Bernardo: «Fu loro insegnato a ricondurre la volontà distorta sulla retta linea, quando udirono: "Potete bere il calice, che io berrò?» (Mt 20,22)». (11)

Secondo S. Bernardo sono pochi gli uo­mini spirituali che posseggono la piena li­bertà di ragionare, che li porti sempre al retto agire, per questo dice:

regno!” (Mt 6, 10). Questo regno non si realizzerà compiutamente neppure in loro, fino al momento in cui non solo il peccato non regnerà nel loro corpo morta­le, ma non ci sarà più assolutamente, ne potrà esserci, nel corpo ormai immortale». (12)

2) Il ritorno a Dio nei Sermones super Cantica Canticorum

Negli ultimi sermoni sul commento al Cantico dei Cantici, che S. Bernardo ci regalò poco prima della sua morte, egli non si riferisce più alla somiglianza con Dio «persa» a causa del peccato, ma a quella «sovrapposta» dal peccato. Bisogna scoprire questa somiglianza con Dio evitando il peccato e abbandonando tutto quello che ci impedisce di essere uniti completamen­te a Dio.

a) Alla nostra "grandezza" manca l'orientamento lineare verso il Signore

Nel suo 80° sermone sul Cantico dei Cantici, Bernardo insegna che la nostra somiglianza con Dio donataci al momen­to della creazione consiste nella semplicità, nell'immortalità e nella libertà. In que­sti tre doni di Dio egli riconosce la magnitudo, cioè la «grandezza» dataci, che non possiamo perdere. Ma neanche la pos­siamo sviluppare finché non abbiamo ot­tenuta la rectitudo, ossia il nostro «orienta­mento lineare» versoil Signore. (13)

b) Il ritorno a Dio è ritorno a noi stessi

Nel sermone 82 sul Cantico dei Cantici, Bernardo spiega la «somiglianza con Dio» come la forma nativa, cioè la «figura nativa dell'anima». Pero, in noi, rimane senza effetto, perché è coperta ed oscurata dalla nostra forma peregrina, la «forma estranea del peccato», Bernardo afferma:

«Quello che la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice per­ché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza.

L'anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta; e quella che sopravviene ha potuto oscurare quella innata, ma non distruggerla». (14)

Secondo l'esperienza di Bernardo il no­stro ritorno a Dio è anche un ritorno a noi stessi e dimostra che non possiamo essere «simili a noi stessi», cioè essere veramente «noi stessi», prima che tutto il nostro essere non si sia rinnovato in Dio: «Quindi l’anima non è più simile a Dio, non è più simile a se stessa». (15) Il mistico tedesco Meister Eckhart, vissuto nel 13° secolo, cita spesso questo passo con la breve for­mula:«Allontanato Dio, ti sei anche allontanato da te stesso».

c) Riscoprire la somiglianza con Dio attraverso la purezza del cuore

Bernardo poi confronta la somiglianza con Dio all'oro, diventato scuro per una sovrapposizione di impurità, così l’anima per il peccato è diventata irriconoscibile. Secondo la sua consuetudine, fa riferimento sia a un passo del Nuovo che dell'Antico Testamento: «Si è ottenebrata la loro mente ottusa», dice l’apostolo (Rm 1, 21) e il Pro­feta: «Ah! come si è annerito l’oro, si è alterato l'oro migliore» (Lam 4,1). Bernardo dice che l'autoredi queste lamentazioni

distrutto il fondamento del colore. Resta nel fondamento la costante semplicità, ma non apparisce, coperta come è dalla doppiezza dell'umano inganno, dalla simulazione, dalla ipocrisia». (16)

Per Bernardo nostro tendere alla com­partecipazione della vita divina, vuol dire eliminare e abbandonare tutto quello che ci separa dalla nostra somiglianza con Dio. La nostra ascesi consiste nel «lasciare la sovrapposizione: doppiezza, simulazione, ipocrisia» ed ascoltare il nostro intimo per sapere quale è la volontà di Dio riguardo a nostro comportamento e alle nostre azio­ni. Se noi accogliamo questa volontà divi­na, Dio elimina ogni dissidio in noi e ci dona la - simplicitas cordis - la «semplicità o purezza di cuore». Essa è indicata nelVangelo di Matteo, dove Gesùdice: 'Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce» (Mt 6, 22).

si purifica l'ani­ma dal peccato e da tutti i «depositi» che coprono e oscurano la nostra somiglianza con Dio. Ci accorgiamo allora che il «to­gliere questi depositi» non porta ad un im­poverimento di noi stessi. Si tratta piutto­sto di riportare alla luce la nostra somi­glianza con Dio, nella quale si fonda il nostro vero essere.

Se nelle intenzioni del nostro cuore vi è soltanto l'accettazione della divina volon­tà, otteniamo - la simplicitas cordis - la sem­plicità del cuore. Con l'accettazione del divino volere ci viene concessa la – rectitudo - ossia l'orientamento verso Dio, che porta alla somiglianza con Lui e all'uniformità alla sua divina Volontà.

d) L'uniformità nel volere è "sposalizio" spirituale

Nel suo 83° sermone, Bernardo indica la totale adesione dell'anima a Dio quale «sposalizio». In questo contesto egli chiama il Si­gnore, il VERBO, come l'Essere che corri­sponde alla Seconda Persona Divina:

«Tale conformità rende l'anima sposa del VERBO. Mentre è già simile a Lui per na­tura, si rende ulteriormente simile a Lui at­traverso la volontà, amandolo come a sua volta è amata. Dunque, se l’anima ama per­fettamente, è diventata sposa. Che cosa c'è di più dolce di questa uniformità? Che cosa c'è di più desiderabile di questo amore?». (17)

Questo passo trova il suo culmine nell'affermazione:

«Questo è veramente un contratto di spirituale e santo connubio».

Poi Bernardo continua:

«Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso veramente dove il volere e non volere le medesime cose ha fatto uno solo di due spiriti». (18)

Nel sermone 85 sul commento al “Cantico dei Cantici" Bernardo afferma:

118, 106)». (19)

In riferimento a quei membri della chiesa, che hanno accolto la chiamata allo sposalizio con il Signore, Bernardo aggiunge:

«L'anima che vedrai abbandonare tutto e aderire con tutto l’ardore al VERBO, vive­re per il VERBO, secondo il VERBO com­portarsi, concepire dal VERBO per poi par­torire al VERBO, che possa dire: “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno” con­siderala coniuge e sposata al VERBO». (20)

Note

1) Sant’Agostino, Le confessioni, a cura di M. Pellegrino e C. Carena, Città Nuova, Roma, 1965, lib. VII, 10,16, pag. 201.

2) Cfr. Le opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, vol. 1, La grazia e il libero arbitrio, X, 32, pp. 397-399. (d’ora innanzi San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio).

3) Bernardo riprende un tema altamente tradizionale, presente nei teologi del suo tempo: Cristo, in quanto Logos divino, è il luogo delle idee, l’archetipo della creazione (= forma dell’universo).

4) San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio, X, 33, p. 399.

5) Ibid., XIV, 49, p. 419.

6) Cfr. Ibid., II, 4- III,7, p. 363-369.

7) Cfr. Ibid., XIV, 49, p. 419.

8) Ibid.

9) Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, a cura di D. Turco, Ed. Vivere In, Roma, 1986, col. I, serm. XXIV, 7, pag. 268.

10) San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio, XIV, 49, p. 419.

11) Ibid., VI, 17, p. 381.

12) Ibid., IV, 12, p. 375.

13) Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, LXXX, 2, pag. 381/2.

14) Ibid., LXXXII, 2, p. 382.

15) Ibid., LXXXII, 5, p. 385.

16) Ibid., LXXXII, 2, p. 382.

17) Ibid., LXXXIII, 3, p. 392.

18) Ibid.

19) Ibid., LXXXV, 12, p. 417.

20) Ibid., p. 418.


(da Vita Nostra)

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